Miei
cari Amici,
ecco
per cominciare un racconto sul Curato d’Ars (Les
intui-tions du Curé d’Ars,
di Mons. Trochu, Vitte éd., 1931).
Apostasia
– Nel 1855 (o 1856) due ragazze di Bény, di professione sarte,
intrapresero una domenica, all’una di notte, un pellegrinaggio ad
Ars. Partirono a piedi con il proposito di ascoltare la Messa durante
il cammino, come infatti fecero con devozione. Tutte e due erano
molto pie e speravano ardentemente di potersi confessare dal santo di
Ars e di ricevere la comunione dalle sue mani.
Una
si chiamava Célestine Robin; dell’altra non diremo che il nome:
Clémence. Clémence era la giovane più a modo della parrocchia, o
almeno così si pensava; assidua alla Messa ogni mattina, ammessa
alla comunione frequente, buona lavoratrice: le madri di famiglia la
proponevano come modello ai propri figli.
Malgrado
l’ardore dei loro vent’anni, le due giovani pellegrine arrivarono
ad Ars sul far della notte. L’indomani, di buon’ora, presero
posto fra le penitenti del santo curato. La loro attesa fu
relativamente breve, perché il martedì, dopo la Messa, il santo
sacerdote ascoltava le loro confessioni. Ebbero tuttavia una grande
delusione: a entrambe egli consigliò di fare ritorno il giorno stesso
nella loro parrocchia per ricevere la comunione il mercoledì
mattina.
Il
ritorno fu meno lieto dell’andata. Clémence in particolare
sembrava triste, e la sua malinconia andò via via crescendo fino
all’arrivo a Bény. Ormai vicina a casa disse a Célestine Robin:Non sono contenta del mio pellegrinaggio. Se l’avessi saputo prima,
non sarei andata da don Vianney.
-
Perché?
-
Mi ha detto che apostaterò.
-
Tu?
-
Sì. Ecco le sue parole: “Figlia mia, il Buon Dio ti fa molte
grazie di cui non fai un buon uso. Tu apostaterai.” Non ho capito
bene. Cosa vuol dire apostatare?
-
Vuol dire... non so bene neanch’io. Mi sembra che voglia dire
cambiare religione... Ma, mia povera Clémence, quale religione
sceglierai?
Célestine
Robin la prendeva sul ridere. Poi le due amiche si separarono.
Clémence sarebbe rimasta a Bény due o tre anni ancora. Apparentemente, non pensava più alla predizione del Curato d’Ars. Lasciò la sua parrocchia per andare ad aiutare una vecchia zia che era domestica presso don Chanal, parroco di Vandeins, non lontano da Ars.
Alla
morte di don Chanal, fu motivo di stupore lo scontento mostrato da
Clémence per non essere stata ricordata nel testamento del
sacerdote. Ma, per il resto, niente di riprovevole nella sua
condotta. Poco dopo si sposò con un non credente, impiegato
delle ferrovie a Mézériat, stazione vicina a Vandeins. Ebbe tre
figli.
Si
può ritenere che gli abusi di grazie si siano moltiplicati durante
l’esistenza di questa povera donna. Infatti, abbandonò a poco a
poco la pratica religiosa: di cedimento in cedimento cadde
nell’empietà, fino a chiedere, in punto di morte, i funerali
civili.
Si
era resa davvero colpevole di apostasia.
Il
Curato d’Ars, in un’intuizione profetica, aveva visto il
risultato finale dei mille rinnegamenti parziali, delle mille
piccole viltà di un’anima abbandonata alla tiepidezza. Senza
dubbio non aveva visto le circostanze occasionali di una caduta così
penosa, perché in questo caso le avrebbe fatto notare più
nettamente l’abisso.
C’è
qui il mistero dei giudizi di Dio. C’è anche un avvertimento,
salutare per delle anime attente. San Paolo ha formulato questo
avvertimento nella sua prima Lettera ai Corinzi: “Quindi, chi crede
di stare in piedi, guardi di non cadere.” E nel libro
dell’Apocalisse è scritto: “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè
né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.”
*
* *
A
prima vista, l’apostasia di quell’anima appare come il frutto di
“mille piccole indolenze” il cui accumulo ha avuto risultati
terribili. Si pensi, ad ogni modo, alla parabola del fico sterile
che, non producendo i frutti che ci si aspettava da lui, alla fine è
stato maledetto. In questa prospettiva si può temere sempre di
lasciar cadere delle grazie, troppe grazie o anche una sola e
cadere così
in una inquietudine nociva alla fiducia, di cui il demonio
approfitterà.
Ma
uno sguardo un po’ profondo leggerà in questa maledizione e in
questa sterilità, qualcosa di molto più semplice di un accumulo
d’infedeltà, per quanto numerose possano essere. Vedrà in tutto
ciò il frutto di un atteggiamento adottato una volta per sempre, un
atteggiamento molto semplice che si oppone a quello che Madre Agnese,
per definire la spiritualità di Teresa di Gesù Bambino, chiamava lo
spirito
principale.
Lo
spirito principale, che caratterizza la via d’infanzia, è del
tutto compatibile con l’accumulo di mille infedeltà, e anche con
l’abuso delle grazie... purché ogni volta ci si rialzi con umiltà,
nella contrizione di un cuore che ha veramente deciso di non fare
mai dispiacere al buon Dio.
Questo
è il nocciolo di ciò che il Curato d’Ars chiamava “lo stato
spaventoso di un’anima tiepida”: un’anima che, molto
semplicemente, non ha la preoccupazione divorante di piacere a Dio,
a Gesù, alla Madonna e di non dar loro alcun dispiacere. Forse non
pecca spesso, non rifiuta necessariamente molte grazie, ma una sola
grazia rifiutata la lascia indifferente, non esce da un torpore di
base riguardo all’amore, e l’idea di aver ferito il cuore di Dio
non la ferisce a sua volta.
Allora,
che sia una volta o mille, poco importa: una sola volta basta per
stabilire un’anima nella tiepidezza se quest’anima non tenta mai
di uscirne, a causa dell’indifferenza che si radica nell’orgoglio.
Quale
orgoglio? In fondo, quello che rifiuta l’umiliazione di essere
disturbato dall’amore. Perché l’amore è assolutamente
umiliante, e più umiliante di tutte le umiliazioni. Ci si può
difendere dalle umiliazioni, ma non ci si può difendere dall’amore
se non rifiutando l’amore stesso. L’amore, se non è rifiutato,
penetrerà come
una spada (la Parola di Dio!) fino alla divisione delle giun-ture e
del midollo, l’intimo dell’anima che il nostro orgoglio vuo-le
proteggere, e ridurrà in briciole tutte le nostre difese proprio
perché gliene apriamo le porte.
C’è
dunque un’incompatibilità assoluta tra l’orgoglio e l’amore:
la minima difesa, con cui proteggiamo la più piccola zona della
nostra anima, rifiuta l’amore, gli impedisce di penetrare fino al
punto di divisione delle giunture e del midollo. Poco importa che
questo avvenga una o mille volte, perché una sola è mortale se non
ci si converte versando lacrime che costano più care di tutte le
umiliazioni.
Al
contrario, l’anima che si consegna senza difese all’umiliazione
dell’amore può resistere a tutte le grazie e abusarne in modo
scandaloso: non resisterà al crollo provocato dall’amore stesso
davanti allo spettacolo di ciò che ha fatto. Si scioglierà in
lacrime “settanta volte sette,” se ha resistito tanto... e ognuna
di queste volte riceverà il centuplo della grazia rifiutata, perché
avrà aperto il suo cuore alla lacerazione dell’amore.
Maledetti
siano gli orgogliosi, benedetti siano gli umili: il Curato d’Ars,
Teresa di Gesù Bambino e il Vangelo non fanno che ripeterlo in
continuazione. L’umiltà non consiste nell’abbassarsi, o nel
restare al proprio posto, fosse anche l’ultimo: l’umiltà
consiste nel crollare e nel lasciarsi lacerare ogni volta che la
spada dell’amore bussa dolcemente alla porta del cuore con la
timidez-za dello Spirito Santo.
E
questo può darci fiducia oppure inquietudine più di ogni altra
cosa, poiché, in definitiva, la sola cosa importante è sapere di
che spirito siamo...
Festa
della Presentazione 1999 Fr.
M.D., Molinié, o.p.
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