Tema:
Aspettare
La strana epidemia si abbatté sulla
città all'improvviso. Iniziava come un raffreddore: i colpiti
cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore
grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e
i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori,
perfino ladri. E tremendamente sospettosi gli uni degli altri. Il
pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri.
«Ciò che conta, nella vita, sono i soldi. Con i soldi si fa tutto»,
sostenevano. Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura. I
venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro
agli ordini. In certi alloggi la porta d'ingresso arrivava ad avere
diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka. Nelle
famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei
bambini. I bambini rispondevano solo più: «Quanto mi dai?». Non
solo per asciugare i piatti
o per fare i compiti; anche per andare
nei giardinetti a giocare. E i bambini di prima elementare imparavano
a scrivere sul conto in banca. Il farmacista provò a distribuire ai
malati libri che parlavano di generosità e bontà. Ma quelli
scuotevano il capo e correvano a vendere i libri sulle bancharelle.
Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo
tafferuglio per una moneta da cinquecento lire. Perfino il dottore fu
contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima
buttava via con molta attenzione. La vita in città divenne
insopportabile. Quasi tutti viaggiavano armati e i più ricchi si
pagavano le guardie del corpo. I malati avevano lo sguardo torvo ed
erano infelici. E soprattutto rendevano infelici tutti quelli che
vivevano con loro. Si sentivano solo più parlare di soldi, cambi,
tassi di interesse e azioni che andavano su o giù. Nessuno voleva
più pagare le tasse. Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di
recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un po' eremita
(…), per chiedere una medicina o almeno un consiglio. L'eremita
dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi
la barba disse: «Conosco la malattia che ha colpito il vostro
villaggio. E’ dovuta ad un virus che si chiama "sgrinfiacchiappa"
ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più
insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra e
al posto del cervello si forma un pallottoliere. Si può sfuggire al
contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di
generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo
rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta. Dovete trovare un giovane
forte e coraggioso, completamente disinteressato. Deve affrontare
questo impegno solo per amore della gente. Perché l'acqua della
generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta.
E logico, no? Perciò se troverete il giovane adatto in grado di
affrontare le difficoltà dell'impresa (e non è cosa da poco) la
medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla».
«Noi aspetteremo. Tutti», giurarono il sindaco e i consiglieri.
«Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice
la nostra città». «...e vuota le casse comunali», aggiunse
l'assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva
colpito dalla malattia del virus «sgrinfiacchiappa». Il giorno dopo
su tutti i muri della città era affisso un bando: «Cercasi giovane
coraggioso per impresa eroica». Si presentarono in duemila. Ma
appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero
guadagnato niente, si ritiravano. Tutti, meno uno. Era un giovane
robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi
concittadini e che rendeva infelici tante persone. Si chiamava
Giosuè. Il sindaco e i consiglieri spiegarono a Giosuè quello che
doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la
Montagna-Che-Canta. «La cercherò», disse tranquillamente Giosuè.
«Noi ti aspetteremo», promise la gente. «Metteremo una luce sulla
finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo». Giosuè
mise un po' di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò
la mamma e il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli
sussurrò: «Anch'io ti aspetterò». Salutò tutti e partì.Per tre
giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che
tremolavano nella luce azzurrina dell'orizzonte. «Una volta là, mi
basterà cercare la Montagna-Che-Canta. Non deve essere difficile»,
pensava. Ma si illudeva. Dopo dieci giorni di marcia, le montagne
continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti,
all'orizzonte. Ma Giosuè non si fermava. Pensava agli abitanti della
città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi
genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano
ricominciava la marcia. Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi.
Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo. Sui
davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce. Era il segno
della speranza: aspettavano l'acqua della generosità portata da
Giosuè. Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero.
Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla
malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare. La maggioranza
dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo: «Non ce
l'ha fatta. Non tornerà più». Ogni notte, c'era qualche luce in
meno alle finestre. Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne.
Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe
e facili. Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di
ostacoli. Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la
Montagna-Che-Canta. Qualche picco, grazie al vento, fischiava.
Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava. Ma
nessuna cantava. In una piccola baita, aggrappata al fianco di una
montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche
informazione. Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e
poi gli disse: «La Montagna-Che-Canta? Certo che so dov'è. Non mi
fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti. Ma
è un accidenti di montagna! Ripida e levigata come un obelisco e con
il gigante Soffione». «Chi è?». «Un gigante burlone che si
diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna».
«Pazienza, ma io devo salire lassù», disse Giosuè. Il vecchio
pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò:
«Buona fortuna!». La montagna cantava davvero, con un vocione
allegro e un po' stonato. Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi.
Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si
ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia. Era quasi a metà
della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla
parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri. Mentre cadeva
sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli
aveva giocato. Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò. Si riempì
le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire. Pesante
com'era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il
gigante Soffione aveva un bel soffiare. Non riusciva neanche a farlo
vacillare. Dopo un po' il gigante cominciò a tossire e infine smise
di soffiare. Quando Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente
cristallina dell'acqua della generosità, la montagna intonò
l'Alleluia di Händel a quattro voci. Il ritorno di Giosuè fu molto
più rapido. Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e
il suo cuore era leggero e lieto: la gente della città sarebbe
tornata felice come prima. Portava sulle spalle una botticella della
preziosa acqua. Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la
strada. Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla
collina da cui si vedeva la città. Guardò giù ansimando perché
aveva fatto di corsa gli ultimi metri. Quello che vide gli riempì
gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza. La città era
completamente avvolta dal buio. Non c'erano luci sui davanzali delle
finestre. Nessuno lo aveva aspettato.«E’ stato tutto inutile... Se
nessuno mi ha aspettato, l'acqua non farà effetto... Tutta la mia
fatica è stata inutile». Si avviò mestamente. Aveva voglia di
buttar via l'acqua che gli era costata tanto. Stava per farlo, quando
qualcosa lo fermò. C'era una luce, laggiù! Un lumino, piccolo,
tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle
case.«Qualcuno mi ha aspettato!». Giosuè rise forte per la
felicità e partì di corsa. Riconobbe la finestra e la casa. In
fondo al cuore non ne aveva mai dubitato. Bussò forte e chiamò:
«Mariarosa!». I due giovani si abbracciarono. «Io ti ho sempre
aspettato», disse Mariarosa, semplicemente.
Riflessione
L'acqua
della sorgente che guarisce il nostro cuore diventato di pietra funziona solo se è veramente attesa. Chi non si aspetta niente,
generalmente non riceve un bel niente. Se io desidero dal buon Dio la
mia salvezza, prima o poi l'avrò. L'unica cosa è non avere fretta,
sperare sempre, non avere paura di affrontare le avversità anche
quando il mondo ti volta le spalle, perseverare anche quando agli
occhi di tutti, quello che tu fai sembra strano o impossibile. La
speranza non è altro che la luce che illumina il nostro cammino
verso il cielo. Ma molto spesso quello che noi attendiamo con ansia
non è certo Gesù o il suo messaggio, ne tanto meno un cuore nuovo. I
nostri desideri sono sempre gli stessi... vogliamo le cose subito e
ci rompiamo il collo per ottenerle. Se solo mettessimo un pochetto di
questa grinta, che usiamo per desiderare cose frivole, per attendere
Gesù o meglio ancora per andargli incontro, forse la nostra vita
prenderebbe un'altra piega e diventerebbe sempre più bella.
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