Come
già s’è detto, l'idea di un «giudizio» porta implicita l'idea
di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e
senza appello, l'idea di una discriminazione definitiva. La
riflessione sulla glorificazione dell'uomo non può non coinvolgere
dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell'uomo.
Difatti
la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche
di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con
beneficio d'inventario; o l'accettiamo o la rifiutiamo in blocco.
Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di
punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata
dell'escatologia cristiana.
Mai
come per questo argomento è valido e indispensabile il principio
metodologico di metterci prima di tutto alla scuola di Dio, senza
voler interferire subito con le nostre difficoltà e le nostre
ripugnanze, e solo in un secondo momento proporre a Dio i nostri
interrogativi, per non rischiare di meditare, più che sulla realtà
delle cose, su quello che noi vorremmo che le cose fossero.
Resta
una condizione preliminare di necessità assoluta per ogni seria
attività teologica la convinzione senza dubbi contrari che il nostro
compito non è quello di creare il mondo, ma di conoscerlo così come
è stato creato.
Il
nostro destino è Cristo
L’idea
biblica del castigo
L'Antico
Testamento possiede da sempre la concezione di un castigo
escatologico, che si sviluppa in perfetta consonanza con quella del
premio. All'inizio è anch'essa inquadrata nella visione collettiva e
terrestre dell'alleanza: chi osserva il patto con Dio sarà premiato
con i beni della terra, chi lo viola sarà punito con le disgrazie
della carestia, della sterilità, della sconfitta.
I
profeti, soprattutto prima dell'esilio-intenti come sono a portare il
popolo a una concezione meno automatica e più personalistica e
interiore dell'alleanza- sono logicamente indotti a richiamare il
castigo molto più frequentemente della ricompensa e ad accentuare a
poco a poco la dimensione individuale.
A
partire dal secondo secolo a.C. la letteratura apocalittica localizza
il castigo escatologico mediante fuoco nel Wadi er-rababi, a
sud-ovest di Gerusalemme. Era la «valle dei figli di Hinnon» o
Geenna, dove al tempo di Achaz e Manasse erano stati compiuti
sacrifici umani; un abominio agli occhi degli ebrei che aveva per
sempre contaminato la località (Ger 7,32; 19,6). Il re Giosia
l'aveva dichiarata immonda (2Re 23,10) e perciò era forse diventata
deposito delle immondizie. Probabilmente la stessa presenza di un
fuoco permanente per la distruzione dei rifiuti offrì l'immagine del
fuoco eterno come punizione dei cattivi. Comunque le profezie del
libro di Isaia, senza citare la Geenna, parlano di un «fuoco che non
si spegne» e di «un verme che non muore», come destino riservato
agli empi (Is 66,24).
Bisogna
però aspettare gli ultimi libri dell'Antico Testamento, perché
questa punizione escatologica sia collocata esplicitamente oltre la
vita terrestre, in connessione con l'idea di risurrezione (Dn 12,2) e
di sopravvivenza dello spirito (Sap 3,10).
All'epoca
di Gesù, l'idea di una punizione nell'altra vita doveva essere
abbastanza popolare, come si può capire dalla parabola di Lazzaro e
del ricco (Lc 16, 19-31).
Gesù
riprende il termine profetico di Geenna, completamente purificato
ormai da ogni significato meramente topografico, per indicare la
punizione escatologica (Mt 5,29s; 10,28; 23,15.33; Lc 12,5). Di
solito la Geenna è presentata in connessione col fuoco (Mt 5,22;
18,9), col «fuoco eterno» (Mt 18,8s); col «fuoco che non si
spegne» (Mc 9,34-48).
Notiamo
che la parola «Geenna» si trova citata soltanto nei loghia di
Cristo riferiti dalla catechesi sinottica e nella lettera di Giacomo
(3,6). Il che conferma l'uso strettamente giudaico anzi palestinese
del termine, e la sua assenza nel linguaggio delle comunità paoline.
Qualche
volta l'idea ritenuta più adatta a rappresentare il castigo finale è
quella del «fuoco eterno» (Mt 25,31-46).
Qualche
altra volta si parla di «fornace» (Mt 13,42), di «tenebre eterne»
(Mt 8,12; 22,13; 25,30), di tormenti (Lc 16,23-28). L'Apocalisse,
alludendo alla fine di Sodoma e Gomorra, preferisce parlare di «lago
di fuoco e di zolfo» (Ap 14,10; 19,20; 20,10), e anche di
“abisso”(Ap 20,3).
Il
nome «inferno» (luogo inferiore) è la traduzione latina della
parola greca «ades», con la quale il Nuovo Testamento a sua volta
traduce l'antico nome ebraico «sheol» che designava il soggiorno
dei morti, buoni e cattivi senza discriminazione.
Il
Nuovo Testamento mantiene di solito l'antica accezione generica (Mt
11,23; At 2,27; Ap 1,18; 6,8; 20,13). Tuttavia in qualche caso questa
parola comincia ad essere riservata per il luogo di punizione dei
cattivi (Lc 16,23) e per indicare le potenze demoniache (Mt 16,18).
Paolo
e Giovanni si servono di preferenza di espressioni più concettuali,
offrendo a noi la chiave per una esatta lettura delle immagini testé
citate. Per essi, i cattivi vanno incontro alla «perdizione» (Gv 3,
16; Rm 9,22; Fil 2,19), alla «collera divina che resta» (Gv 3,36;
Rm 5,9), alla «morte» (Gv 6,50;8,21; 11,25; 1 Gv 3,14s), alla
«morte seconda» (Ap 21,8).
L’eternità
del castigo
Non
c'è niente nella Sacra Scrittura che ci faccia pensare a una
purificazione temporanea. Anzi, tutto è detto in modo che si capisca
proprio il contrario e si pensi a uno stato che non passa. Questa
impressione di fondo può essere specificata e chiarita in alcune
argomentazioni.
a)
Si parla di fuoco «eterno» (aiònios). Il termine forse potrebbe
essere inteso come aggettivo di «aiòn», nel senso di «epoca che
succederà al tempo presente». In questo caso potrebbe significare
soltanto «futuro» o «escatologico»: «eterno» sarebbe ciò che
si riferisce all'altra vita. Non ci possono essere dubbi invece per
l'espressione: «nei secoli dei secoli» (eis tous aionaston aiònon),
dove il plurale, rafforzato ebraicamente dal genitivo, serve proprio
a ricuperare il senso originario di «aiòn» come eternità,
logorato e attenuato dall'u- so: «Non esiste un modo più forte di
sottolineare il senso di eternità di questa parola» (C. Pozo,
Teologia des más allá, Madrid 1968, p. 185).
b)
Si usano, senza attenuazioni, le frasi negative, che perderebbero di
senso nell'ipotesi di una provvisorietà: «Non erediteranno» (Gal
5,21; 1 Cor 6,9-10); «non ha eredità nel regno di Cristo» (Ef
5,5); «il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» (Mc
9,44; 46,48).
c)
Premio e castigo vengono presentati come condizioni immutabili e
senza fine ambedue, così che diventa del tutto arbitrario leggere
con diverso senso e con diversa durata: «vita eterna» e «fuoco
eterno»; se non è definitivo il fuoco, non c'è ragione plausibile
per ritenere definitivo il premio.
L'osservazione
è già stata fatta da sant'Agostino: «O ambedue sono temporanei e
avranno fine, o ambedue saranno perpetui e non avranno fine. Dire
dunque: la vita eterna sarà senza fine e il Supplizio eterno avrà
fine, è del tutto assurdo» (De civitate Dei, 21,23).
La
natura del castigo
Gesù
per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al
concetto di esclusione: «la porta fu chiusa» (parabola delle
vergini: Mt 25,10); «gettatelo fuori» (parabola dei talenti: Mt 25
30); «via lontani da me, maledetti» (Mt 25,41) (cfr. anche Ap 22,
15).
Paolo
dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo
all'immagine della «squalifica» (1 Cor 9,27).
Occorre
però capire bene quanto spaventevole sia questo «star fuori» dalla
Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.
La
creatura è totalmente relativa a Dio. È un puro e integrale
dipendere da lui. La nostra natura profonda è quella di essere
obiettivamente uno slancio verso Dio, senza del quale nessuna fibra,
nessuna ombra d'essere in noi avrebbe senso alcuno.
Questa
situazione oggettiva riceve la sua espressione soggettiva nella
continua consapevole ricerca della felicità. Sempre e in ogni
istante noi cerchiamo il nostro bene. E poiché il nostro bene è il
Creatore, non lo possiamo trovare tra le creature. Per questo le
creature ci stancano e ci costringono a continuare la ricerca.
L'uomo
che nel Regno possiede Dio è dunque l'uomo che finalmente è nello
stato cui tutte le sue forze aspiravano: trovando Dio, ha trovato
anche se stesso.
L'uomo
che nell'inferno ha perduto Dio, vive l'assurdo dell'opposta
condizione: il dannato è una smentita vivente della propria natura.
Continuando a cercare spasmodicamente la propria felicità, egli, al
contrario del peccatore in terra, né si fa più l'illusione di
trovarla nelle singole cose, né proietta nel futuro questa stessa
illusione: egli sa che la sua ricerca sarà per sempre senza
speranza. La condizione del dannato è dunque una mostruosità, così
come è mostruoso il suo odio verso Dio, come è assurdo e mostruoso
il peccato stesso, che è violenza alla nostra natura più vera.
L'infelicità
del reprobo può anche essere considerata in rapporto a Cristo.
Noi
riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo
stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui
continuamente l'alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti,
anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e
natura, qualche legame col Verbo incarnato: tutti infatti o sono
inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono
in qualche modo raggiunti dalla sua grazia.
All'inferno,
l'uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando
una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua ad essere
creato a immagine del Salvatore e a glorificare col suo stesso essere
colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere
un'assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene
avulso nel suo odio ostinato.
E
poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere
veramente uniti tra noi, colui che è all'inferno è disperatamente
solo. È separato dagli altri; dovunque vada, è un intruso. Mentre
la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una
comunione soprannaturale (perché la vocazione di Dio è senza
pentimenti e rimane anche su chi l'ha rifiutata, accrescendone la
disperazione), egli è tagliato fuori da qualunque convivenza
d'amore, da qualunque amicizia.
Anche
per questo aspetto il dannato è quindi una natura che si
contraddice.
Ma
questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l'unica ragione di
sofferenza nell'inferno anche se è la principale. La Scrittura-e in
parte già l'abbiamo visto-parla frequentemente di «fuoco». È
possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che
rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre?
La
cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto
improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell'uso di una tale
metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale
interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della
frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in
particolare (cfr. Mt 25,41, dove il fuoco è detto «preparato» per
i cattivi; Mt 13,40-42, dove il fuoco è l'unico elemento parabolico
conservato anche nella spiegazione).
Ovviamente
non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa
natura del nostro, Sarà sufficiente pensare ad esso come a un
elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca
tormentosamente sul dannato,
Ritroviamo
qui in un punto particolare il generale mistero che regge l'attuale
ordine di provvidenza. Il destino umano sembra governato dal
principio della «trasnaturazione»: come lo spirito del giusto è
divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la
risurrezione, così la dannazione proietta l'uomo in opposta
direzione, materializzandone per così dire lo spirito e
sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della
materia.
La
risurrezione dei malvagi
Si
sarà notato che la Rivelazione parla più volte di una risurrezione
anche per i malvagi (Dn 12,2; Gv 5,29; At 24,15). Noi siamo dunque
certi che anche per loro ci sarà alla fine la ricostituzione
integrale della natura umana.
D'altra
parte la stessa Rivelazione insiste nel presentare come causa della
risurrezione l'inserimento in Gesù risorto per mezzo della fede e
della presenza dello Spirito Santo, sacramentalmente espresse e
operate dal battesimo e dall'eucaristia. È logico che tutto ciò non
possa attribuirsi alla reintegrazione corporale degli ingiusti.
Come
si compongono allora questi due diversi insegnamenti?
La
risposta non può essere che una sola: con la stessa parola
«risurrezione» si indicano due fatti del tutto eterogenei: la
completa glorificazione dei buoni e il completo obbrobrio dei
cattivi. E mentre il primo fenomeno avviene, come si è visto,
mediante spiritualizzazione del corpo, cioè la penetrazione di esso
da parte dello Spirito di Dio, il secondo avverrà piuttosto per una
materializzazione dello spirito, che sarà anche asservito alle
creature inferiori.
Buoni
e cattivi saranno, per così dire, «trasnaturati» e lanciati sulla
scala degli esseri in opposte direzioni: verso Dio gli uni e verso il
mondo infraumano gli altri; spinti gli uni dall'amore di Dio accolto
e corrisposto, gli altri da quell'assurdo rifiuto di questo stesso
amore, che è il senso profondo di ogni peccato.
Gli
interrogativi sull'inferno
La
dottrina rivelata a proposito dell'inferno suscita nella nostra mente
tutta una serie di domande angoscianti.
Nel
cercare le risposte, dovremo tenere presenti due principi di metodo.
In
primo luogo sarà opportuno sforzarsi di adattare la nostra mente a
quello che Dio dice, respingendo la tentazione di adattare quello che
Dio dice a ciò che la nostra mente vuol capire, perché come già
insegnava Platone contro Protagora-«Dio e non l'uomo è la misura
delle cose».
In
secondo luogo è indispensabile che gli stati d'animo di repulsione o
di antipatia non restino meramente tali, ma-se si vuol ricercare la
risposta vera, qualunque essa sia-si concettualizzino e diventino
domande formulate esplicitamente.
1.
C'è proporzione tra colpa e castigo?
Questa
è la domanda che concettualizza in modo chiaro e perfetto
l'istintiva ripugnanza che avvertiamo di fronte alla dannazione.
Possiamo renderla più esplicita così. Il peccato ci appare sì
meritevole di castigo; ma, essendo un atto in sé limitato, non si
vede come possa essere punito con una pena di natura infinita, come
quella eterna. Inoltre è mai possibile che un destino eterno possa
essere deciso nel tempo?
Questa
difficoltà ci impone di riflettere meglio sulla natura del peccato.
La
colpa-ogni vera colpa-è sempre rinuncia totale e definitiva alla
legge di Dio e perciò a Dio stesso. Rinuncia totale, perché
accettare la sua volontà parzialmente significa non accettarla come
una volontà divina, che per forza deve essere la norma
incondizionata di tutto, Rinuncia in se stessa definitiva, perché
accettarla temporaneamente, sospendendone l'efficacia anche solo per
un istante, significa rifiutarla come norma eterna, cui non ci si può
mai sottrarre.
Ma
l'inferno nella sua vera essenza non è che un distacco totale e
definitivo da Dio, Il che significa che il peccatore ottiene
nell'inferno ciò che col peccato ha voluto ottenere.
Il
mistero della condanna si risolve quindi nel mistero della colpa. E se talvolta l'Inferno ci potrà apparire come un assurdo psicologico, la
cui con considerazione ci è insopportabile, è perché il peccato
stesso, che pure è una realtà della nostra vita, è un assurdo
psicologico e una inspiegabile mostruosità.
In
fondo, tutto ciò ci dice che non è Dio che tiene gli uomini lontani
da sé nell'inferno, ma sono gli uomini a ostinarsi nel voler stare
lontani da lui.
2.
Perché i dannati si rifiutano di pentirsi?
È
pacifico che se per ipotesi il dannato si pentisse efficacemente, la
misericordia di Dio gli aprirebbe immediatamente le braccia, perché
la divina volontà di salvezza ci è notificata dalla Rivelazione
come universale e costante, e non si infrange se non di fronte
all'ostinazione. Ma questo è un ragionamento astratto, perché di
fatto chi è all'inferno vi resta eternamente; e tuttavia è una
ipotesi utile, perché ci dice che la causa della immutabilità del
dannato non va ricercata in Dio, ma nel dannato stesso.
Certo
i dannati si rammaricano del loro peccato, ma-nota san
Bonaventura-«non perché siano disgustati dalla sua ingiustizia, ma
perché sono disgustati dalla giusta punizione. Perciò anche questa
volontà è cattiva; anzi vive ancora in loro la volontà di peccare,
anche se dal dolore delle pene sono impediti dal tradurla in atto».
Resta
però da spiegare come mai rimanga tanta ostinazione.
Ci
sembra che, tutto sommato, la ragione vera sia da ricercare nello
stato ultraterreno e ultratemporale che ci aspetta dopo la morte e
che, essendo privo di successione, non ammette cambiamenti. I dannati
dunque non si pentono perché «non hanno tempo» di pentirsi, e non
hanno tempo di pentirsi perché sono usciti dal tempo e sono perciò
totalmente racchiusi in un istante cui non fa seguito nessun altro
istante.
3.
Perché Dio crea gli uomini dei quali prevede la dannazione?
Un
mondo dove ci sia la colpa permette l'esistenza del pentimento da
parte dell'uomo e della misericordia da parte di Dio. Perciò noi
possiamo capire come mai Dio consenta alla venuta all'esistenza di un
mondo che non prevede innocente.
Ma
perché creare degli uomini dei quali prevede non solo la colpa, ma
anche la ostinazione nella colpa e quindi la dannazione?
Noi
saremmo tentati di negare la possibilità che Dio crei questi uomini,
perché non vediamo come la loro chiamata all'esistenza sia
compossibile con la bontà divina.
Sennonché,
a ben riflettere, questa negazione-che non si riferisce al fatto
eventuale della loro esistenza, ma alla stessa possibilità della
loro esistenza-equivale a negare a priori che si possa mai dare il
caso di una creatura che alla fine non scelga il bene. Il che
significherebbe negare che ci sia una vera possibilità di scelta del
suo destino da parte dell'uomo.
La
concreta possibilità della dannazione è dunque necessaria, se si
vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera
essenza. La libertà dell'uomo infatti, nella sua vera essenza, non
può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l'altro di
villeggiatura, o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e
neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra
libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e
stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per
non essere puramente nominale, questa prerogativa deve
necessariamente includere la reale e concreta possibilità di
decidere per la perdizione.
Come
si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col
mistero della libertà, che è forse l'unico vero mistero
dell'universo creato. Ha detto Kierkegaard: «Che Dio possa creare
delle creature libere al suo cospetto, è la croce che la filosofia è
impotente a portare, ma a cui è stata conficcata» (Diario, Brescia
1948, vol. I, p. 121).
4.
Ci sono veramente dei dannati?
Non
è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere
l'esistenza dell'inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia
effettivamente qualcuno?
La
dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di
dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i
dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di
ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia
affermare che l'inferno sia perfettamente vuoto è asserzione
infondata, incauta e superficiale.
In
primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni si possa
sostenere come positivamente probabile questa previsione. Non avendo
nessun argomento «a posteriori» (per il quale, in mancanza di una
Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta), è fatale che un
simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su
argomenti «a priori» (come la misericordia di Dio, l'impossibilità
di compiere un vero peccato mortale ecc.). Ora gli argomenti «a
priori», se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma
anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina
rivelata.
In
secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione
eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio
psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una
condizione così crudele.
E
dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l'idea del
castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia,
senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi,
non hanno fondamento.
Conclusione
Non
dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza
dell'inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù
Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato
il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore
e compassione per gli uomini.
Certo
la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. «Sarà
soltanto quando saremo passati dall'altra parte che si risolveranno
gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo “scandalo”, che la
bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che
essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta
delle sue creature libere.
Finché
vivremo, il pensiero dell'inferno ci sconvolgerà: è una spina nel
nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa
invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate
le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista
alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l'Apostolo
scrive che è follia prenderla alla leggera (Gal 6,7).»
Cardinale
Giacomo Biffi
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