1. “Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno”
“Quando
giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due
malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva:
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno”
(Lc 23,33-44)
Dopo
aver detto, con lacrime e sudore di sangue, il suo sì filiale al
Padre, Gesù acquista forza ed è pronto ad affrontare la Passione
tacendo davanti alla menzogna e all’umiliazione, deciso a portare a
compimento la sua missione salvifica. Condannato a morte senza un
regolare processo, si avvia, portando la croce, verso il Calvario.
Durante la faticosa salita, egli è il buon Pastore che porta sulle
sue spalle non tanto una croce di legno quanto l’umanità, ossia la
pecorella smarrita che è venuto a cercare per riportarla nell’ovile
del Padre sulle proprie spalle. Siamo dunque noi la sua vera croce.
Il Calvario, luogo della più ingiusta esecuzione capitale, in forza
di questo «più grande» amore, spinto fino all’estremo dono di
sé, si trasforma nel monte del sacrificio redentore, nel monte
dell’intercessione e del perdono. Colui che durante il processo
«non aprì la sua bocca» e, spogliato delle sue vesti, si rivestì
di sacro silenzio – «Gesù taceva», dice l’evangelista Matteo
usando qui l’imperfetto a sottolinearne la profondità e la durata
– ora che è reso del tutto impotente ed è là sospeso tra cielo e
terra, inchiodato e senza alcuna difesa, in una disfatta che sembra
totale, ora egli parla. E la prima parola che udiamo da lui sulla
croce è perdono, vale a dire «per-dono», dono al superlativo, dono
di quell’amore che l’ha spinto lì: «Padre, perdona loro perché
non sanno quello che fanno». Commenta l’abate Elredo di Rievaulx:
«'Padre', dice, 'perdonali'. Che cosa si poteva aggiungere di
dolcezza, di carità a una siffatta preghiera? Tuttavia egli aggiunse
qualcosa. Gli sembrò poco pregare, volle anche scusare. 'Padre,
disse, perdona loro perché non sanno quello che fanno'. E invero
sono grandi peccatori, ma poveri conoscitori. Perciò: 'Padre,
perdonali'. Crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché 'se
l’avessero conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore
della gloria' (cfr. 1Cor
2,8);
perciò: 'Padre, perdonali'. Lo ritengono un trasgressore della
legge, un presuntuoso che si fa Dio, lo stimano un seduttore del
popolo. 'Ma io ho nascosto loro il mio volto, non riconobbero la mia
maestà'. Perciò: 'Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno'»
2.
“Oggi sarai con me nel paradiso”
“Uno
dei malfattori appesi alla croce lo insultava, ma l’altro lo
rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato
alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le
nostre azioni, egli, invece non ha fatto nulla di male”. E
aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
Gli rispose. “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”.
(Lc 23,29-43)
Sull’alto
monte del Calvario, quasi alberi nudi contro il cielo primaverile, si
stagliano tre croci. La tradizione artistica, con giusta intuizione,
ha sempre voluto che quella posta al centro fosse più alta; su di
essa si impone all’attenzione una scritta: «Costui è il re dei
Giudei». Gesù è là, inchiodato alla croce tra due malfattori,
provocato e deriso dai capi e dai soldati, abbandonato dai discepoli,
guardato da lontano dalla folla che prima l’aveva seguito,
ascoltato e osannato per le sue parole e i suoi miracoli: ecco ora il
più inconcepibile scandalo dell’impotenza. Un «re da burla» che
non si difende e che non è difeso da nessuno, nemmeno con una
parola… È una condizione estremamente umiliante, ma è la vera via
regale scelta da Cristo per sé e da lui proposta ai suoi discepoli:
«Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche
il mio servitore» ( Gv
12,26).
E ancora: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (
Mt
11,29).
Soltanto la fede ci fa intuire che in tale stato di povertà e di
umiliazione, di spogliazione e di morte è nascosto un grande mistero
di grazia, una realtà bella e desiderabile. Fu questa la fede del
«buon ladrone» che, solo, riconobbe nel suo compagno di sventura un
vero re, un re paziente, che pativa ingiustamente misconoscimento e
ingratitudine da parte di coloro – noi tutti – che egli non si
vergognava di chiamare fratelli. E per quella sua fede il ladro ebbe
il coraggio, in mezzo alle bestemmie e alle parole irrisorie, di
chiamarlo per nome, di riconoscerlo «salvatore» e di rivolgergli
un’umile preghiera di supplica: «Gesù, ricòrdati di me quando
entrerai nel tuo regno», rubando così all’ultimo istante il
passaporto per entrare nel più bello di tutti i regni e ricevere in
eredità una ricchezza incalcolabile. Ebbe, infatti, la grazia di
sentirsi dire: «Oggi con me sarai nel paradiso» (
Lc
23,43).
Il ladrone entra con il Re nel regno della gloria! Così il Cristo
esercita la sua regale autorità. Nell’umiltà del suo amore egli
arriva all’estremo sacrificio per dare all’uomo la libertà, la
salvezza, la vita nel suo regno glorioso. Un inno della Liturgia
delle Ore così ci fa cantare: «Egli non con stragi, con violenza e
terrore ha soggiogato i regni: sollevato sull’alto della croce,
tutto ha tratto a sé con forza d’amore».
3.
“Donna, ecco tuo figlio!”
Gesù
allora, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava,
disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al
discepolo: «Ecco tua madre!». E da quel momento il discepolo la
prese nella sua casa.
(Gv 19,26-27)
Tutto
il tumulto della più tragica giornata della storia sembra ora
placarsi. Sulla vetta del Golgota verso sera spiccano soltanto tre
persone, tre esili figure: Gesù agonizzante, la Madre e Giovanni, il
discepolo dal cuore vergine, capace di amare con totalità di
dedizione, senza paura di morirne. Come
Maria.
E si distinguono ormai soltanto alcune brevi parole: brevi ma
intense, essenziali, cariche di potenza creatrice, perché cariche
d’amore: «Donna, ecco tuo figlio!… Ecco tua madre!». La
consegna della Madre al discepolo è il supremo testamento d’amore
lasciatoci da Gesù. Nelle tenebre del Venerdì Santo una luce
rifulge; in un raccapricciante scenario di morte avviene un mirabile
atto creativo. Maria rappresenta qui la nuova Eva dalla quale nasce
una prole nuova: la stirpe dei figli di Dio. Donna, ecco tuo figlio!
Mentre sta presso la croce e consuma nel cuore l’immenso dolore
della Passione del Figlio, dal Figlio stesso Maria è investita di
una maternità spirituale e universale che la rende davvero grande
più di ogni altra creatura. Diventa madre di tutta l’umanità,
perché – come dice sant’Agostino – Gesù, in forza del suo
amore, essendo unico presso il Padre non ha voluto rimanere solo
(cfr. Discorsi,
194,3).
Ecco tua madre! Quale pegno e quale responsabilità! Giovanni la
prende con sé per riceverne le cure quale figlio, ma anche per
averne cura come di una madre cui è dovuto immenso amore, profonda
riverenza e devozione. Da questo momento Maria è la Madre della
Chiesa; è la nostra Madre nella misura in cui noi instauriamo con
Gesù una relazione vitale, prendendo parte al suo mistero di
redenzione come membra del suo stesso corpo. La nostra vita ha quindi
le sue radici nella croce di Gesù, nella stabilità di Maria, nella
fedeltà di Giovanni. Siamo nati là, in quell’ora, dal cuore
trafitto di Cristo e siamo stati affidati da lui al cuore della
Madre. Così siamo nati quali figli di Dio e siamo nati anche come
Chiesa; perciò siamo nati anche come madri, perché Maria è Madre e
Figlia della Chiesa, com’è Madre e Figlia del suo Figlio. Affidàti
a lei, riceviamo a nostra volta in lei e da lei la santa Chiesa; la
riceviamo come Madre da amare, da onorare; la riceviamo per darle
ascolto, per obbedire ai suoi suggerimenti, per camminare con la sua
guida nella via della luce quali veri figli di Dio.
4.
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
Venuto
mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del
pomeriggio. Alle tre Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lema
sabactàni?” Che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?”. (Mc 15,33-34)
Gesù
è totalmente spoglio di ogni divina e umana ricchezza; il Figlio di
Dio, ridotto all’estrema povertà, grida tutta la sua desolazione e
l’angoscia di uomo che sperimenta la dolorosa assenza di ogni
sostegno vissuta come assenza di Dio stesso, come stato di abbandono
totale: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il grido
lacerante dell’Uomo-Dio attraversa le nostre tenebre; è l’ora
culminante dell’agonia in cui il Cristo assume veramente tutta la
desolazione, l’angoscia, la paura, il terrore della morte che
abitano nel cuore dell’uomo. Con forti grida e lacrime – dice la
Lettera
agli Ebrei (cfr.
5,7) – Gesù pregò colui che poteva liberarlo da morte. Il pianto
di tutto il dolore delle generazioni umane passa attraverso il cuore
di Cristo, sale dalla terra, penetra nei cieli e ferisce il cuore del
Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». «Dio non
può averlo abbandonato – spiega sant’Agostino – perché lui
stesso è Dio». Eppure il Cristo prova questo abbandono, vive questa
estrema desolazione, cade in questo abisso dove le tenebre sono
assolute. È un mistero. Al grido straziante del Figlio, dell’uomo,
Dio non si fa sentire, non interviene. E tuttavia non è un Dio
assente; è un Padre che, per folle amore, immola il Figlio della sua
compiacenza per i « figli dell’ira»; nel Figlio del suo amore
egli immola il proprio cuore, che, tutto donato, diventa puro
silenzio. Ma in quel silenzio c’è la più alta risposta, la più
sofferta «com-passione». È un’ora buia; è l’ora più buia
della storia, ma è anche il grembo del nuovo giorno, per la nascita
di un mondo nuovo, per il sorgere di una nuova luce. Il lamento di
Cristo, infatti, è l’inizio del
Salmo
22, che,
apertosi con tale lancinante grido di angoscia, si conclude poi –
come la stessa Passione – con una consegna fiduciosa, con una
parola piena di speranza: «E io vivrò per lui (per Dio), lo servirà
la mia discendenza» (vv. 30-31). Proprio quest’Uomo che muore avrà
una lunga discendenza. L’ora in cui Colui che è la Vita si
consegna alla morte è dunque l’ora della massima fecondità:
generazione a prezzo della morte. Da mezzogiorno alle tre del
pomeriggio
si fece buio sulla terra… Questo è uno spazio di tempo nella
giornata, in ogni giornata, che noi dovremmo sempre trascorrere sotto
la croce, poiché quell’ora non si è chiusa, ma perdura e
abbraccia tutta la nostra esistenza. Noi siamo ancora contemporanei
all’agonia di Gesù, sempre presenti all’ora della sua suprema
offerta.
5
.
“Ho
sete”
Dopo
questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era ormai compiuta, disse per
adempiere la Scrittura: “Ho sete”. Vi era lì un vaso pieno di
aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima ad una
canna e gliela accostarono alla bocca. (Gv 19,28-29)
Dopo
il grido di dolore rivolto al Padre e dopo aver affidato la Madre al
discepolo Giovanni, Gesù esprime con un soffio di voce un’umile
domanda da mendicante, una domanda che tante volte affiora sulle
labbra riarse dei morenti: «Ho sete». Il gesto di chi, imbevuta una
spugna di aceto, gliela porge è, in mezzo a tante atrocità, un
segno di umana compassione, compiuto per alleviare le sofferenze
dell’agonizzante. Ma la sete di Gesù non può trovare sollievo
soltanto in questo, perché è una sete soprattutto spirituale che lo
ha accompagnato lungo tutta la sua esistenza terrena. È sete di
amore. Già all’inizio della sua missione pubblica, sedutosi,
affaticato, presso il pozzo di Sicar, aveva chiesto alla donna
samaritana: «Dammi da bere!»; e l’aveva poi lui stesso dissetata
rivelandosi come Colui che doveva venire a salvarci. Di che cosa,
infatti, ha sete Gesù se non di noi, della nostra salvezza, della
nostra fede, del nostro amore? La beata Teresa di Calcutta commentava
queste ultime parole di Gesù, dicendo: «Ho sete: queste parole di
Gesù non riguardano solo il passato, ma sono vive qui e ora, dette a
noi... Finché non comprendiamo nel profondo del nostro essere che
Gesù ha sete di noi, non potremo cominciare a conoscere quello che
egli vuole essere per noi, e
ciò
che egli vuole che noi siamo per lui». La sete di Gesù è dunque
una sete divina; ma è pure un bisogno della sua umanità che si
mette nella nostra situazione di desolata povertà, di estrema
debolezza per condividerla. Scopriamo questa «sete» di Gesù anche
prima, nell’orto del Getsemani, quando, quasi come bambino
impaurito, egli si rivolge ai tre discepoli prescelti con parole di
toccante umanità: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate
qui e vegliate» ( Mc
14,34);
sente il bisogno di non essere lasciato solo. Ed è sempre nel
Getsemani che, rivolgendosi al Padre, dice ancora: «Padre mio, se è
possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io,
ma come vuoi tu!» ( Mt
26,39).
La sete di Gesù è sete di compiere la volontà del Padre, è
desiderio della nostra salvezza… Egli ci ama e ha sete dell’amore
di ognuno di noi, perché ciascuno di noi conta per lui più di tutto
il mondo. Perciò, se noi non ricambiamo il suo amore, egli rimane
assetato e continua a cercarci. Ma come possiamo ricambiare l’amore
se, a causa del peccato, siamo incapaci di amare? Gesù stesso,
morendo riarso dalla sete, diventa la sorgente inesauribile
dell’acqua viva, poiché dal suo cuore trafitto sgorgano sangue e
acqua. Da questa sorgente possiamo attingere l’amore e la
sovrabbondanza della Vita. L’ora della crocifissione e della morte
di Cristo è quindi l’ora del trionfo dell’Amore e della sua
massima fecondità. Nella misura in cui beviamo a questa sorgente,
veniamo dissetati e anche dal nostro cuore zampilla una sorgente
d’acqua viva offerta a tutti gli assetati di Dio, del Dio che è
inesauribile Amore.
6.
“Tutto è compiuto”
E
dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto”.
(Gv 19, 30)
Le
braccia distese sul legno, le mani inchiodate, Gesù è fisicamente
del tutto impotente, agli occhi di tutti appare uno sconfitto. Ma le
vie di Dio non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri
pensieri… In realtà, questa è proprio l’ora che egli ha
ardentemente desiderato, e alla quale si è preparato come all’ora
culmine, all’ora della pienezza, in cui – superate tutte le
tentazioni e le insidie – poter dire al Padre: «tutto è compiuto,
la missione affidatami è stata portata a compimento secondo il tuo
volere». La preghiera di Gesù per noi ha raggiunto il suo culmine
nell’offerta che egli ha fatto di se stesso
al
Padre nell’ora della croce, nel grido: «Tutto è compiuto» (
Gv
19,30).
«Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato
e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia
della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato. Ed
ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le
esaudisce risuscitando il Figlio suo.
Così
si compie e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia
della creazione e della salvezza...» (
Catechismo
della Chiesa cattolica,
n.2606).
Tutto è compiuto. Tutto è avvenuto secondo le profezie, tutto è
avvenuto secondo il disegno del Padre. L’ora dell’offerta
iniziata con la nascita di Gesù a Betlemme si compie sul Calvario:
là era nato nella estrema povertà, qui muore nell’estrema
spogliazione e umiliazione. È la scelta di Dio, è la scelta
dell’Amore che, volendo ricuperare i miseri, si fa Misericordia, si
abbassa, si svuota di se stesso per riversarsi in noi come sorgente
di vita. Tutto è compiuto: è questo «l’istante immobile»; il
tempo si ferma, l’ora batte sul cuore di Gesù e si riparte da
zero. È l’ora zero della storia, l’ora in cui comincia il Giorno
nuovo, il tempo nuovo, tempo della salvezza e della grazia. Tutto il
dolore della Passione sembra ora acquietarsi, come la terra che, dopo
aver accolto il seme nel solco, attende nella pace che esso germogli.
È l’ora del «grande silenzio». È l’ora in cui, come discepoli
di Cristo, più nulla possiamo fare, nulla dire, ma solo «rimanere
nel suo amore», rimanere in preghiera presso di lui, inchiodati alla
croce insieme con Maria, la Madre, formando un’unica grande
supplica che, passando attraverso il cuore trafitto del Cristo, si
versa nel seno del «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione»
( 2Cor
1,3).
A quest’ora della Passione di Gesù si può riferire quanto diceva
il poeta Claudel: il dolore è come una mandorla amara che si getta
sul ciglio della strada; ripassando per la medesima via, vi troviamo
un mandorlo in fiore.
7.
“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”
Era
verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta
la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò
nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue
mani consegno il mio spirito”. Detto questo, spirò. (Lc
22,44-46)
Quando
tutto è compiuto, quando il sacrificio di amore è pienamente
consumato, quando non c’è più un «oltre» nell’offerta e nel
dolore,
ecco l’ultimissima parola di Gesù: «Padre, nelle tue mani
consegno il mio spirito». Grido di fiducia erompente dal cuore di un
Povero che, percosso, disprezzato, senza via di salvezza umana, si
rifugia in Dio, getta in lui ogni suo affanno. E in questa totale
consegna di sé trova la pienezza della pace, si ritrova figlio. La
Passione di Gesù non si conclude con un «perché» rivolto a un Dio
sentito lontano, assente, ma con un atto di abbandono filiale: «Nelle
tue mani consegno il mio spirito». Gesù spira riconsegnandosi alle
mani del Padre, a cui aveva sempre obbedito, la cui volontà era
stata tutto il suo desiderio, la sua unica gioia. Per questo la sua
agonia è come una notte che sfocia nell’alba della risurrezione.
Dalla cattedra della Croce, il Giusto, che si è caricato di tutte le
nostre sofferenze perché ha preso su di sé tutte le nostre colpe,
ci insegna a sperare contro ogni speranza, a sentire che le mani di
Dio sono più forti di qualsiasi mano potente degli uomini, più
forti di ogni tentazione che possa sopraggiungere e abbattersi su di
noi. Perciò anche quando la prova è dura, terribile e angosciosa,
noi dobbiamo gridare: nelle tue mani, Signore, sono al sicuro.
Tuttavia, il grido di Gesù esprime pure lo sgomento di un figlio che
sa di dover ancora compiere un viaggio nell’oscurità per poter
ritornare a casa. Dopo la sua consegna, infatti, il Verbo della vita,
colui che il Padre ha mandato a parlare direttamente all’umanità
per rivelarle il suo amore, si immerge nel silenzio della morte. E
con il calar della sera, dopo gli ultimi atti compiuti dall’umana
pietà, un profondo silenzio avvolge anche il monte delle croci e
penetra nei cuori. Noi, che siamo entrati con Gesù in quest’ora,
crediamo davvero che solo apparentemente le tenebre stanno
prevalendo, poiché in esse già si fa strada la luce? Noi, che
conosciamo la morsa dell’angoscia, crediamo che nel grido di Gesù
morente si fa strada la speranza della Vita? Noi, che pure facciamo
l’esperienza del turbamento per tanti sconvolgimenti che avvengono
nel mondo, ne sappiamo trarre motivo di pentimento per convertirci a
una più grande fede e soprattutto a un più grande amore? Mentre il
velo del tempio dell’antica Legge si squarcia, che cosa avviene in
noi? Se viviamo davvero il mistero della Croce, si può finalmente
squarciare il nostro vecchio mondo, il nostro vecchio uomo, il velo
della nostra sufficienza; si può spaccare la roccia del nostro cuore
per lasciar scaturire da essa una sorgente d’acqua viva. Presi da
santo timore, allora gridiamo con il centurione: «Costui è
veramente il Figlio di Dio!»; poi, insieme con le pie donne,
continuiamo a sostare presso la croce e presso il sepolcro, sicuri
che Gesù, caduto nel silenzio della morte, non è perduto per noi,
perché l’Amore è il più forte e ha vinto.
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