PAOLO DI
TARSO
BENEDETTO XVI UDIENZA
GENERALE Piazza San Pietro
Mercoledì, 25 ottobre 2006
Cari fratelli e sorelle,
abbiamo concluso le nostre riflessioni
sui dodici Apostoli chiamati direttamente da Gesù durante la sua
vita terrena. Oggi iniziamo ad avvicinare le figure di altri
personaggi importanti della Chiesa primitiva. Anch’essi hanno speso
la loro vita per il Signore, per il Vangelo e per la Chiesa. Si
tratta di uomini e anche di donne, che, come scrive Luca nel Libro
degli Atti, «hanno votato la loro vita al nome del Signore
nostro Gesù Cristo» (15,26).
Il primo di questi, chiamato dal
Signore stesso, dal Risorto, ad essere anch’egli un vero Apostolo,
è senza dubbio Paolo di Tarso. Egli brilla come stella di
prima grandezza nella storia della Chiesa, e non solo di quella delle
origini. San Giovanni Crisostomo lo esalta come personaggio superiore
addirittura a molti angeli e arcangeli (cfr Panegirico 7,3).
Dante Alighieri nella Divina Commedia, ispirandosi al racconto
di Luca negli Atti (cfr 9,15), lo definisce semplicemente
«vaso di elezione» (Inf. 2,28), che significa: strumento
prescelto da Dio. Altri lo hanno chiamato il “tredicesimo Apostolo”
– e realmente egli insiste molto di essere un vero Apostolo,
essendo stato chiamato dal Risorto -, o addirittura “il primo dopo
l'Unico”. Certo, dopo Gesù, egli è il personaggio delle origini
su cui siamo maggiormente informati. Infatti, possediamo non solo il
racconto che ne fa Luca negli Atti degli Apostoli, ma anche un
gruppo di Lettere che provengono direttamente dalla sua mano e
che senza intermediari ce ne rivelano la personalità e il pensiero.
Luca ci informa che il suo nome originario era Saulo (cfr At
7,58; 8,1 ecc.), anzi in ebraico Saul (cfr At 9,14.17;
22,7.13; 26,14), come il re Saul (cfr At 13,21), ed era un
giudeo della diaspora, essendo la città di Tarso situata tra
l’Anatolia e la Siria. Ben presto era andato a Gerusalemme per
studiare a fondo la Legge mosaica ai piedi del grande Rabbì
Gamaliele (cfr At 22,3). Aveva imparato anche un mestiere
manuale e ruvido, la lavorazione di tende (cfr At 18,3), che
in seguito gli avrebbe permesso di provvedere personalmente al
proprio sostentamento senza gravare sulle Chiese (cfr At
20,34; 1 Cor 4,12; 2 Cor 12,13-14).
Fu decisivo per lui conoscere la
comunità di coloro che si professavano discepoli di Gesù. Da loro
era venuto a sapere di una nuova fede, - un nuovo “cammino”, come
si diceva - che poneva al proprio centro non tanto la Legge di Dio,
quanto piuttosto la persona di Gesù, crocifisso e risorto, a cui
veniva ormai collegata la remissione dei peccati. Come giudeo
zelante, egli riteneva questo messaggio inaccettabile, anzi
scandaloso, e si sentì perciò in dovere di perseguitare i seguaci
di Cristo anche fuori di Gerusalemme. Fu proprio sulla strada di
Damasco, agli inizi degli anni ’30, che Saulo, secondo le sue
parole, venne «ghermito da Cristo» (Fil 3,12). Mentre Luca
racconta il fatto con dovizia di dettagli, - di come la luce del
Risorto lo ha toccato e ha cambiato fondamentalmente tutta la sua
vita – egli nelle sue Lettere va diritto all’essenziale e parla
non solo di visione (cfr 1 Cor 9,1), ma di illuminazione (cfr
2 Cor 4,6) e soprattutto di rivelazione e di vocazione
nell’incontro con il Risorto (cfr Gal 1,15-16). Infatti, si
definirà esplicitamente «apostolo per vocazione» (cfr Rm
1,1; 1 Cor 1,1) o «apostolo per volontà di Dio» (2 Cor
1,1; Ef 1,1; Col 1,1), come a sottolineare che la sua
conversione era non il risultato di uno sviluppo di pensieri, di
riflessioni, ma il frutto di un intervento divino, di
un’imprevedibile grazia divina. Da allora in poi, tutto ciò che
prima costituiva per lui un valore divenne paradossalmente, secondo
le sue parole, perdita e spazzatura (cfr Fil 3,7-10). E da
quel momento tutte le sue energie furono poste al servizio esclusivo
di Gesù Cristo e del suo Vangelo. Ormai la sua l'esistenza sarà
quella di un Apostolo desideroso di «farsi tutto a tutti» (1 Cor
9,22) senza riserve.
Di qui deriva per noi una lezione molto
importante: ciò che conta è porre al centro della propria vita Gesù
Cristo, sicché la nostra identità sia contrassegnata essenzialmente
dall’incontro, dalla comunione con Cristo e con la sua Parola. Alla
sua luce ogni altro valore viene recuperato e insieme purificato da
eventuali scorie. Un’altra fondamentale lezione offerta da Paolo è
il respiro universale che caratterizza il suo apostolato. Sentendo
acuto il problema dell'accesso dei Gentili, cioè dei pagani, a Dio,
che in Gesù Cristo crocifisso e risorto offre la salvezza a tutti
gli uomini senza eccezioni, dedicò se stesso a rendere noto questo
Vangelo, letteralmente «buona notizia», cioè annuncio di grazia
destinato a riconciliare l'uomo con Dio, con se stesso e con gli
altri. Dal primo momento egli aveva capito che questa è una realtà
che non concerneva solo i giudei o un certo gruppo di uomini, ma che
aveva un valore universale e concerneva tutti, perché Dio è il Dio
di tutti. Punto di partenza per i suoi viaggi fu la Chiesa di
Antiochia di Siria, dove per la prima volta il Vangelo venne
annunciato ai Greci e dove venne anche coniato il nome di «cristiani»
(cfr At 11, 20.26), cioè di credenti Cristo. Di là egli
puntò prima su Cipro e poi a più riprese sulle regioni dell'Asia
Minore (Pisidia, Licaonia, Galazia), poi su quelle dell’Europa
(Macedonia, Grecia). Più rilevanti furono le città di Efeso,
Filippi, Tessalonica, Corinto, senza tuttavia dimenticare Beréa,
Atene e Mileto.
Nell’apostolato di Paolo non
mancarono difficoltà, che egli affrontò con coraggio per amore di
Cristo. Egli stesso ricorda di aver agito «nelle fatiche… nelle
prigionie… nelle percosse… spesso in pericolo di morte...: tre
volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato
lapidato, tre volte ho fatto naufragio...; viaggi innumerevoli,
pericoli dai fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei
connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli
nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da falsi fratelli; fatica e
travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni,
freddo e nudità; e oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano,
la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,23-28). Da
un passaggio della Lettera ai Romani (cfr 15, 24.28) traspare il suo
proposito di spingersi fino alla Spagna, alle estremità
dell'Occidente, per annunciare il Vangelo dappertutto, fino ai
confini della terra allora conosciuta. Come non ammirare un uomo
così? Come non ringraziare il Signore per averci dato un Apostolo di
questa statura? E’ chiaro che non gli sarebbe stato possibile
affrontare situazioni tanto difficili e a volte disperate, se non ci
fosse stata una ragione di valore assoluto, di fronte alla quale
nessun limite poteva ritenersi invalicabile. Per Paolo, questa
ragione, lo sappiamo, è Gesù Cristo, di cui egli scrive: «L'amore
di Cristo ci spinge... perché quelli che vivono non vivano più per
se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2
Cor 5,14-15), per noi, per tutti.
Di fatto, l’Apostolo renderà la
suprema testimonianza del sangue sotto l'imperatore Nerone qui a
Roma, dove conserviamo e veneriamo le sue spoglie mortali. Così
scrisse di lui Clemente Romano, mio predecessore su questa Sede
Apostolica negli ultimi anni del secolo I°: «Per la gelosia e la
discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio
della pazienza... Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo,
e dopo essere giunto fino agli estremi confini dell'Occidente,
sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo
mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande
modello di perseveranza» (Ai Corinzi 5). Il Signore ci aiuti
a mettere in pratica l’esortazione lasciataci dall’Apostolo nelle
sue Lettere: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1
Cor 11,1).
PAOLO –
LA CENTRALITA' DI GESU' CRISTO
BENEDETTO XVI UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 8 novembre 2006
Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi precedente, quindici
giorni fa, ho cercato di tracciare le linee essenziali della
biografia dell’apostolo Paolo. Abbiamo visto come l’incontro con
Cristo sulla strada di Damasco abbia letteralmente rivoluzionato la
sua vita. Cristo divenne la sua ragion d’essere e il motivo
profondo di tutto il suo lavoro apostolico. Nelle sue lettere, dopo
il nome di Dio, che appare più di 500 volte, il nome che viene
menzionato più spesso è quello di Cristo (380 volte). È dunque
importante che ci rendiamo conto di quanto Gesù Cristo possa
incidere nella vita di un uomo e quindi anche nella nostra stessa
vita. In realtà, Cristo Gesù è l’apice della storia salvifica e
quindi il vero punto discriminante anche nel dialogo con le altre
religioni.
Guardando a Paolo, potremmo formulare
così l’interrogativo di fondo: come avviene l’incontro di un
essere umano con Cristo? E in che cosa consiste il rapporto che ne
deriva? La risposta data da Paolo può essere compresa in due
momenti. In primo luogo, Paolo ci aiuta a capire il valore
assolutamente fondante e insostituibile della fede. Ecco che cosa
scrive nella Lettera ai Romani: «Noi riteniamo che l'uomo
viene giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della
Legge» (3,28). E così pure nella Lettera ai Galati: «L'uomo
non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo
della fede in Gesù Cristo; perciò abbiamo creduto anche noi in Gesù
Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere
della Legge, poiché dalle opere della Legge non verrà mai
giustificato nessuno» (2,16). «Essere giustificati» significa
essere resi giusti, cioè essere accolti dalla giustizia
misericordiosa di Dio, ed entrare in comunione con Lui, e di
conseguenza poter stabilire un rapporto molto più autentico con
tutti i nostri fratelli: e questo sulla base di un totale perdono dei
nostri peccati. Ebbene, Paolo dice con tutta chiarezza che questa
condizione di vita non dipende dalle nostre eventuali opere buone, ma
da una pura grazia di Dio: «Siamo giustificati gratuitamente per sua
grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm
3,24).
Con queste parole san Paolo esprime il
contenuto fondamentale della sua conversione, la nuova direzione
della sua vita risultante dal suo incontro col Cristo risorto. Paolo,
prima della conversione, non era stato un uomo lontano da Dio e dalla
sua Legge. Al contrario, era un osservante, con una osservanza fedele
fino al fanatismo. Nella luce dell’incontro con Cristo capì, però,
che con questo aveva cercato di costruire se stesso, la sua propria
giustizia, e che con tutta questa giustizia era vissuto per se
stesso. Capì che un nuovo orientamento della sua vita era
assolutamente necessario. E questo nuovo orientamento lo troviamo
espresso nelle sue parole: «Questa vita che io vivo nella carne io
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me» (Gal 2, 20). Paolo, quindi, non vive più per
sé, per la sua propria giustizia. Vive di Cristo e con Cristo: dando
se stesso, non più cercando e costruendo se stesso. Questa è la
nuova giustizia, il nuovo orientamento donatoci dal Signore, donatoci
dalla fede. Davanti alla croce del Cristo, espressione estrema della
sua autodonazione, non c’è nessuno che possa vantare se stesso, la
propria giustizia fatta da sé, per sé! Altrove Paolo, riecheggiando
Geremia, esplicita questo pensiero scrivendo: «Chi si vanta si vanti
nel Signore» (1 Cor 1,31 = Ger 9,22s); oppure: «Quanto
a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù
Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso come
io per il mondo» (Gal 6,14).
Riflettendo su che cosa voglia dire
giustificazione non per le opere ma per la fede, siamo così arrivati
alla seconda componente che definisce l’identità cristiana
descritta da san Paolo nella propria vita. Identità cristiana che si
compone proprio di due elementi: questo non cercarsi da sè, ma
riceversi da Cristo e donarsi con Cristo, e così partecipare
personalmente alla vicenda di Cristo stesso, fino ad immergersi in
Lui e a condividere tanto la sua morte quanto la sua vita. È ciò
che Paolo scrive nella Lettera ai Romani: «Siamo stati
battezzati nella sua morte... siamo stati sepolti con lui… siamo
stati completamente uniti a lui... Così anche voi consideratevi
morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù» (Rm
6,3.4.5.11). Proprio quest'ultima espressione è sintomatica: per
Paolo, infatti, non basta dire che i cristiani sono dei battezzati o
dei credenti; per lui è altrettanto importante dire che essi sono
«in Cristo Gesù» (cfr anche Rm 8,1.2.39; 12,5; 16,3.7.10; 1
Cor 1,2.3, ecc.). Altre volte egli inverte i termini e scrive che
«Cristo è in noi/voi» (Rm 8,10; 2 Cor 13,5) o «in
me» (Gal 2,20). Questa mutua compenetrazione tra Cristo e il
cristiano, caratteristica dell’insegnamento di Paolo, completa il
suo discorso sulla fede. La fede, infatti, pur unendoci intimamente a
Cristo, sottolinea la distinzione tra noi e Lui. Ma, secondo
Paolo, la vita del cristiano ha pure una componente che potremmo dire
‘mistica’, in quanto comporta un’immedesimazione di noi con
Cristo e di Cristo con noi. In questo senso, l’Apostolo giunge
persino a qualificare le nostre sofferenze come le «sofferenze di
Cristo in noi» (2 Cor 1,5), così che noi «portiamo sempre e
dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di
Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,10).
Tutto questo dobbiamo calarlo nella
nostra vita quotidiana seguendo l’esempio di Paolo che è vissuto
sempre con questo grande respiro spirituale. Da una parte, la fede
deve mantenerci in un costante atteggiamento di umiltà di fronte a
Dio, anzi di adorazione e di lode nei suoi confronti. Infatti, ciò
che noi siamo in quanto cristiani lo dobbiamo soltanto a Lui e alla
sua grazia. Poiché niente e nessuno può prendere il suo posto,
bisogna dunque che a nient'altro e a nessun altro noi tributiamo
l'omaggio che tributiamo a Lui. Nessun idolo deve contaminare il
nostro universo spirituale, altrimenti invece di godere della libertà
acquisita ricadremmo in una forma di umiliante schiavitù. Dall'altra
parte, la nostra radicale appartenenza a Cristo e il fatto che «siamo
in Lui» deve infonderci un atteggiamento di totale fiducia e di
immensa gioia. In definitiva, infatti, dobbiamo esclamare con san
Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm
8,31). E la risposta è che niente e nessuno «potrà mai separarci
dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm
8,39). La nostra vita cristiana, dunque, poggia sulla roccia più
stabile e sicura che si possa immaginare. E da essa traiamo tutta la
nostra energia, come scrive appunto l'Apostolo: «Tutto posso in
colui che mi dà la forza» (Fi1 4,13).
Affrontiamo perciò la nostra
esistenza, con le sue gioie e i suoi dolori, sorretti da questi
grandi sentimenti che Paolo ci offre. Facendone l'esperienza potremo
capire quanto sia vero ciò che lo stesso Apostolo scrive: «So a chi
ho creduto, e sono convinto che egli è capace di conservare il mio
deposito fino a quel giorno», cioè fino al giorno definitivo (2
Tm 1,12) del nostro incontro con Cristo Giudice, Salvatore del
mondo e nostro.
PAOLO - LO
SPIRITO DEI NOSTRI CUORI
BENEDETTO
XVI UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 15 novembre 2006
Cari fratelli e sorelle,
anche oggi, come già nelle due
catechesi precedenti, torniamo a san Paolo e al suo pensiero. Siamo
davanti ad un gigante non solo sul piano dell'apostolato concreto, ma
anche su quello della dottrina teologica, straordinariamente profonda
e stimolante. Dopo aver meditato la volta scorsa su quanto Paolo ha
scritto circa il posto centrale che Gesù Cristo occupa nella nostra
vita di fede, vediamo oggi ciò che egli dice sullo Spirito Santo e
sulla sua presenza in noi, poiché anche qui l’Apostolo ha da
insegnarci qualcosa di grande importanza.
Conosciamo quanto san Luca ci dice
dello Spirito Santo negli Atti degli Apostoli, descrivendo
l’evento della Pentecoste. Lo Spirito pentecostale reca con sé una
spinta vigorosa ad assumere l’impegno della missione per
testimoniare il Vangelo sulle strade del mondo. Di fatto, il Libro
degli Atti narra tutta una serie di missioni compiute dagli
Apostoli, prima in Samaria, poi sulla fascia costiera della
Palestina, poi verso la Siria. Soprattutto vengono raccontati i tre
grandi viaggi missionari compiuti da Paolo, come ho già ricordato in
un precedente incontro del mercoledì. San Paolo però nelle sue
Lettere ci parla dello Spirito anche sotto un’altra angolatura.
Egli non si ferma ad illustrare soltanto la dimensione dinamica e
operativa della terza Persona della Santissima Trinità, ma ne
analizza anche la presenza nella vita del cristiano, la cui identità
ne resta contrassegnata. Detto in altre parole, Paolo riflette sullo
Spirito esponendone l’influsso non solo sull'agire del
cristiano, ma anche sull’essere di lui. Infatti è lui a
dire che lo Spirito di Dio abita in noi (cfr Rm 8,9; 1 Cor
3,16) e che “Dio ha inviato lo Spirito del suo Figlio nei nostri
cuori” (Gal 4,6). Per Paolo dunque lo Spirito ci connota fin
nelle nostre più intime profondità personali. A questo proposito,
ecco alcune sue parole di rilevante significato: «La legge dello
Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del
peccato e della morte... Voi non avete ricevuto uno spirito da
schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da
figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm
8, 2.15), perché figli, possiamo dire “Padre” a Dio. Si vede
bene dunque che il cristiano, ancor prima di agire, possiede già
un’interiorità ricca e feconda, a lui donata nei sacramenti del
Battesimo e della Cresima, un’interiotità che lo stabilisce in un
oggettivo e originale rapporto di filiazione nei confronti di Dio.
Ecco la nostra grande dignità: quella di non essere soltanto
immagine, ma figli di Dio. E questo è un invito a vivere questa
nostra figliolanza, ad essere sempre più consapevoli che siamo figli
adottivi nella grande famiglia di Dio. E’ un invito a trasformare
questo dono oggettivo in una realtà soggettiva, determinante per il
nostro pensare, per il nostro agire, per il nostro essere. Dio ci
considera suoi figli, avendoci elevati a una dignità simile, anche
se non uguale, a quella di Gesù stesso, l'unico vero Figlio in senso
pieno. In lui ci viene donata, o restituita, la condizione filiale e
la libertà fiduciosa in rapporto al Padre.
Scopriamo così che per il cristiano lo
Spirito non è più soltanto lo «Spirito di Dio», come si dice
normalmente nell'Antico Testamento e si continua a ripetere nel
linguaggio cristiano (cfr Gn 41,38; Es 31,3; 1 Cor
2,11.12; Fil 3,3; ecc.). E non è neppure soltanto uno
«Spirito Santo» genericamente inteso, secondo il modo di esprimersi
dell’Antico Testamento (cfr Is 63,10.11; Sal 51,13),
e dello stesso Giudaismo nei suoi scritti (Qumràn, rabbinismo). Alla
specificità della fede cristiana, infatti, appartiene la confessione
di un’originale condivisione di questo Spirito da parte del Signore
risorto, il quale è diventato Lui stesso «Spirito vivificante» (1
Cor 15, 45). Proprio per questo san Paolo parla direttamente
dello «Spirito di Cristo» (Rm 8,9), dello «Spirito del
Figlio» (Gal 4,6) o dello «Spirito di Gesù Cristo» (Fil
1,19). E’ come se volesse dire che non solo Dio Padre è
visibile nel Figlio (cfr Gv 14,9), ma che pure lo Spirito di
Dio si esprime nella vita e nell’azione del Signore crocifisso e
risorto!
Paolo ci insegna anche un’altra cosa
importante: egli dice che non esiste vera preghiera senza la presenza
dello Spirito in noi. Scrive infatti: «Lo Spirito viene in aiuto
alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia
conveniente domandare – quanto è vero che non sappiamo come
parlare con Dio! -; ma lo Spirito stesso intercede per noi con
insistenza, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa
quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i
credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27). È come dire
che lo Spirito Santo, cioè lo Spirito del Padre e del Figlio, è
ormai come l'anima della nostra anima, la parte più segreta del
nostro essere, da dove sale incessantemente verso Dio un moto di
preghiera, di cui non possiamo nemmeno precisare i termini. Lo
Spirito, infatti, sempre desto in noi, supplisce alle nostre carenze
e offre al Padre la nostra adorazione, insieme con le nostre
aspirazioni più profonde. Naturalmente ciò richiede un livello di
grande comunione vitale con lo Spirito. E’ un invito ad essere
sempre più sensibili, più attenti a questa presenza dello Spirito
in noi, a trasformarla in preghiera, a sentire questa presenza e ad
imparare così a pregare, a parlare col Padre da figli nello Spirito
Santo.
C'è anche un altro aspetto tipico
dello Spirito insegnatoci da san Paolo: è la sua connessione con
l’amore. Così infatti scrive l'Apostolo: «La speranza non delude,
perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm
5,5). Nella mia Lettera enciclica “Deus
caritas est” citavo una frase molto
eloquente di sant’Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità»
(n. 19), e continuavo spiegando: «Lo Spirito, infatti, è quella
potenza interiore che armonizza il cuore [dei credenti] col cuore di
Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui» (ibid.).
Lo Spirito ci immette nel ritmo stesso della vita divina, che è vita
di amore, facendoci personalmente partecipi dei rapporti
intercorrenti tra il Padre e il Figlio. Non è senza significato che
Paolo, quando enumera le varie componenti della fruttificazione dello
Spirito, ponga al primo posto l'amore: «Il frutto dello Spirito è
amore, gioia, pace, ecc.» (Gal
5,22). E, poiché per definizione l'amore unisce, ciò significa
anzitutto che lo Spirito è creatore di comunione all'interno della
comunità cristiana, come diciamo all'inizio della Santa Messa con
un’espressione paolina: «... la comunione dello Spirito Santo
[cioè quella che è operata da lui] sia con tutti voi» (2
Cor 13,13). D'altra parte, però, è anche
vero che lo Spirito ci stimola a intrecciare rapporti di carità con
tutti gli uomini. Sicché, quando noi amiamo diamo spazio allo
Spirito, gli permettiamo di esprimersi in pienezza. Si comprende così
perché Paolo accosti nella stessa pagina della Lettera ai Romani le
due esortazioni: «Siate ferventi nello Spirito» e: «Non rendete a
nessuno male per male» (Rm
12,11.17).
Da ultimo, lo Spirito secondo san Paolo
è una caparra generosa dataci da Dio stesso come anticipo e insieme
come garanzia della nostra eredità futura (cfr 2 Cor 1,22;
5,5; Ef 1,13-14). Impariamo così da Paolo che l’azione
dello Spirito orienta la nostra vita verso i grandi valori
dell’amore, della gioia, della comunione e della speranza. Spetta a
noi farne ogni giorno l'esperienza assecondando gli interiori
suggerimenti dello Spirito, aiutati nel discernimento dalla guida
illuminante dell’Apostolo.
PAOLO- LA
VITA NELLA CHIESA
BENEDETTO
XVI UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro Mercoledì, 22 novembre 2006
Cari fratelli e sorelle,
oggi completiamo i nostri incontri con
l'apostolo Paolo, dedicandogli un'ultima riflessione. Non possiamo
infatti congedarci da lui, senza prendere in considerazione una delle
componenti decisive della sua attività e uno dei temi più
importanti del suo pensiero: la realtà della Chiesa. Dobbiamo
anzitutto constatare che il suo primo contatto con la persona di Gesù
avvenne attraverso la testimonianza della comunità cristiana di
Gerusalemme. Fu un contatto burrascoso. Conosciuto il nuovo gruppo di
credenti, egli ne divenne immediatamente un fiero persecutore. Lo
riconosce lui stesso per ben tre volte in altrettante Lettere:
«Ho perseguitato la Chiesa di Dio» scrive (1 Cor 15,9; Gal
1,13; Fil 3,6), quasi a presentare questo suo comportamento
come il peggiore crimine.
La storia ci dimostra che a Gesù si
giunge normalmente passando attraverso la Chiesa! In un certo senso,
questo si avverò, dicevamo, anche per Paolo, il quale incontrò la
Chiesa prima di incontrare Gesù. Questo contatto, però, nel suo
caso, fu controproducente, non provocò l’adesione, ma una violenta
repulsione. Per Paolo, l’adesione alla Chiesa fu propiziata da un
diretto intervento di Cristo, il quale, rivelandoglisi sulla via di
Damasco, si immedesimò con la Chiesa e gli fece capire che
perseguitare la Chiesa era perseguitare Lui, il Signore. Infatti, il
Risorto disse a Paolo, il persecutore della Chiesa: “Saulo, Saulo,
perché mi perseguiti? (At 9,4). Perseguitando la
Chiesa, perseguitava Cristo. Paolo, allora, si convertì, nel
contempo, a Cristo e alla Chiesa. Di qui si comprende perché la
Chiesa sia stata poi così presente nei pensieri, nel cuore e
nell’attività di Paolo. In primo luogo, lo fu in quanto egli
letteralmente fondò parecchie Chiese nelle varie città in cui si
recò come evangelizzatore. Quando parla della sua «sollecitudine
per tutte le Chiese» (2 Cor 11,28), egli pensa alle varie
comunità cristiane suscitate di volta in volta nella Galazia, nella
Ionia, nella Macedonia e nell'Acaia. Alcune di quelle Chiese gli
diedero anche preoccupazioni e dispiaceri, come avvenne per esempio
nelle Chiese della Galazia, che egli vide “passare a un altro
vangelo” (Gal 1,6), cosa a cui si oppose con vivace
determinazione. Eppure egli si sentiva legato alle Comunità da lui
fondate in maniera non fredda e burocratica, ma intensa e
appassionata. Così, ad esempio, definisce i Filippesi «fratelli
miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona» (4,1).
Altre volte paragona le varie Comunità ad una lettera di
raccomandazione unica nel suo genere: «La nostra lettera siete voi,
lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli
uomini» (2 Cor 3,2). Altre volte ancora dimostra nei loro
confronti un vero e proprio sentimento non solo di paternità ma
addirittura di maternità, come quando si rivolge ai suoi destinatari
interpellandoli come «figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel
dolore finché non sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19; cfr
anche l Cor 4,14-15; 1 Ts 2,7-8).
Nelle sue Lettere Paolo ci
illustra anche la sua dottrina sulla Chiesa in quanto tale. Così è
ben nota la sua originale definizione della Chiesa come «corpo di
Cristo», che non troviamo in altri autori cristiani del I° secolo
(cfr 1 Cor 12,27; Ef 4,12; 5,30; Col 1,24). La
radice più profonda di questa sorprendente designazione della Chiesa
la troviamo nel Sacramento del corpo di Cristo. Dice san Paolo:
“Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo
corpo” (1 Cor 10,17). Nella stessa Eucaristia Cristo ci dà
il suo Corpo e ci fa suo Corpo. In questo senso san Paolo dice ai
Galati: “Tutti voi siete uno in Cristo” (Gal 3,28). Con
tutto ciò Paolo ci fa capire che esiste non solo un'appartenenza
della Chiesa a Cristo, ma anche una certa forma di equiparazione e di
immedesimazione della Chiesa con Cristo stesso. E’ da qui, dunque,
che deriva la grandezza e la nobiltà della Chiesa, cioè di tutti
noi che ne facciamo parte: dall'essere noi membra di Cristo, quasi
una estensione della sua personale presenza nel mondo. E da qui
segue, naturalmente, il nostro dovere di vivere realmente in
conformità con Cristo. Da qui derivano anche le esortazioni di Paolo
a proposito dei vari carismi che animano e strutturano la comunità
cristiana. Essi sono tutti riconducibili ad una sorgente unica, che è
lo Spirito del Padre e del Figlio, sapendo bene che nella Chiesa non
c’è nessuno che ne sia sprovvisto, poiché, come scrive
l'Apostolo, «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello
Spirito per l'utilità» (1 Cor 12,7). Importante, però, è
che tutti i carismi cooperino insieme per l'edificazione della
comunità e non diventino invece motivo di lacerazione. A questo
proposito, Paolo si chiede retoricamente: «E' forse diviso il
Cristo?» (1 Cor 1,13). Egli sa bene e ci insegna che è
necessario «conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo
della pace: un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la
speranza alla quale siete stati chiamati» (Ef 4,3-4).
Ovviamente, sottolineare l'esigenza
dell'unità non significa sostenere che si debba uniformare o
appiattire la vita ecclesiale secondo un unico modo di operare.
Altrove Paolo insegna a «non spegnere lo Spirito» (1 Ts
5,19), cioè a fare generosamente spazio al dinamismo imprevedibile
delle manifestazioni carismatiche dello Spirito, il quale è fonte di
energia e di vitalità sempre nuova. Ma se c'è un criterio a cui
Paolo tiene molto è la mutua edificazione: “Tutto si faccia per
l’edificazione” (1 Cor 14,26). Tutto deve concorrere a
costruire ordinatamente il tessuto ecclesiale, non solo senza
ristagni, ma anche senza fughe e senza strappi. C'è poi anche una
Lettera paolina che giunge a presentare la Chiesa come sposa di
Cristo (cfr Ef 5,21-33). Con ciò si riprende un’antica
metafora profetica, che faceva del popolo d'Israele la sposa del Dio
dell'alleanza (cfr Os 2,4.21; Is 54,5-8): questo per
dire quanto intimi siano i rapporti tra Cristo e la sua Chiesa, sia
nel senso che essa è oggetto del più tenero amore da parte del suo
Signore, sia anche nel senso che l'amore dev'essere scambievole e che
quindi noi pure, in quanto membra della Chiesa, dobbiamo dimostrare
appassionata fedeltà nei confronti di Lui.
In definitiva, dunque, è in gioco un
rapporto di comunione: quello per così dire verticale tra
Gesù Cristo e tutti noi, ma anche quello orizzontale tra
tutti coloro che si distinguono nel mondo per il fatto di «invocare
il nome del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Cor 1,2). Questa
è la nostra definizione: noi facciamo parte di quelli che invocano
il nome del Signore Gesù Cristo. Si capisce bene perciò quanto sia
auspicabile che si realizzi ciò che Paolo stesso si augura scrivendo
ai Corinzi: «Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qualche
non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da
tutti, giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo
cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che
veramente Dio è fra voi» (1 Cor 14,24-25). Così dovrebbero
essere i nostri incontri liturgici. Un non cristiano che entra in una
nostra assemblea alla fine dovrebbe poter dire: “Veramente Dio è
con voi”. Preghiamo il Signore di essere così, in comunione con
Cristo e in comunione tra noi.
Nessun commento:
Posta un commento