Marcellino Pane e Vino
aveva lasciato il suo corpo sull'imbrunire, disteso come un grazioso
vestitino usato, ai piedi dell'Altare della Cappella, in mezzo ai
fiori. I buoni frati, i volti affondati tra le mani, ringraziavano
il Signore; mentre i piú giovani erano andati ad avvertire la gente,
Frate Male s'era fatto portare in Cappella e Fratel Dindon,
piangendo, continuava a suonare a gloria.
Dapprima
Marcellino Pane e Vino provò un brivido di freddo, poi un
piacevole calore, simile a quello che aveva sentito quando, portando
a Gesú nella soffitta un bicchiere di vino troppo pieno, ne aveva
bevuto un gran sorso perché non si versasse. E da questo momento in
poi, senti di star bene, proprio come in quella occasione.
Avanzava
velocemente e già si trovava molto lontano non solo dal
convento e dal suo Paese, che era la Spagna, ma anche dall'Europa e
dalla vicina Africa e poi ancora da tutte le terre del mondo intero.
Era ormai
l'alba di un nuovo giorno e il sole, salendo la curva del cielo,
segnava la stessa ora della sepoltura del bimbo: e quella sepoltura,
accompagnata da tante e si diverse creature, rompeva con il suo dolce
mormorio di canti e di preghiere la solitudine e il silenzio dei
campi ancora irrigiditi dal freddo della notte.
Marcellino
Pane e Vino camminava per una strada agevole e piana; c'era una gran
differenza fra questa e quella dannata scala della soffitta. Il
piccolino non si rendeva conto ancora di non stare piú sulla terra
di questo mondo, ma di camminare ormai lungo una strada eterea, che
era il cammino del Cielo.
Tuttavia,
questo si riandava col pensiero alla sua vita come a un qualcosa che
fosse accaduto in altro tempo o addirittura ad altra persona. Come
gli era talvolta accaduto in sogno: ricordava i frati, ma gli
sembravano piú piccini di sé medesimo e rammentava ancora i suoi
animali, ma come se fossero dei piccoli giocattoli fatti da un
gigante con un po' di fango e di acqua.
Marcellino
Pane e Vino camminava in mezzo ad una luce sfavillante, che non
proveniva solamente dall'alto, come quella che emanava dal sole
quando egli si trovava sulla terra (ed anche allora era tanto felice,
ma certamente non come ora); era una luce che si diffondeva da
tutte le parti, e si sarebbe potuto pensare persino che
emanasse anche da lui. Benché non vedesse ancora nulla da nessuna
parte, tuttavia si accorgeva che ormai stava camminando da molto e
molto tempo; e gli veniva da ridere ripensando che sulla terra,
quando passeggiava con frate Porta davanti al convento, il Cielo non
gli pareva poi troppo grande! Eppure lo aveva osservato tanto nel
vano tentativo di scorgere sua madre! e non era purtroppo mai
riuscito a vederla.
Comunque il
tempo passava e Marcellino Pane e Vino camminava senza stancarsi e
già s'era reso conto che per quella strada di luce non si faceva,
mai notte.
Il bambino,
in realtà, non aveva mai saputo nulla della morte; si era soltanto
accorto che pian piano i vecchi scomparivano dalla terra, e cosí
pure gli animaletti; ma egli non era né vecchio né ammalato e
nessuno lo aveva ancora schiacciato con il piede né spaccato in due;
queste, infatti, erano le maniere che egli conosceva di dar morte ai
millepiedi o alle lucertole.
La morte era
sempre stata per lui una parola di significato oscuro, come lo erano
state le parole amore, martire, eroe.
Proseguendo
nel cammino, i ricordi gli si facevano sempre più definiti e più
vivi; nonostante che mai provasse un senso di paura, tuttavia si
ricordò con grande affetto e piacere del suo Amico della soffitta,
cioè di Gesú, e pensando a Lui rimase tanto meravigliato di
quanto era accaduto che quasi si fermò in mezzo a quel sentiero
luminoso.
Si era
ricordato chiaramente, infatti, che allorquando Gesù gli offriva
tanti doni, egli aveva scelto quello di veder prima sua madre e poi
la Madre di Lui. E Gesú l'aveva preso con le sue proprie mani e,
adagiandolo sopra le sue ginocchia dure come il ferro, gli aveva
detto solamente:
- Dormi,
dunque, Marcellino.
Ma allora,
stava dormendo? Dunque camminava addormentato, e sognava: come quella
volta in cui, di notte, era andato a prendere gli zolfanelli di fra
Pappetta per incendiare il convento e offrire cosí la palma del
martirio a tutti i frati
Ma no, no.
Questo era impossibile, perché sentiva benissimo di essere sveglio e
di camminare per un luogo sconosciuto ma tanto luminoso, senz'alberi,
senza rumori, senza animali; e sapeva, e di questo era sicurissimo,
che fra poco avrebbe visto sua madre, come aveva sempre desiderato. E
poi avrebbe visto anche la Madre di Gesu e Gesu in persona; ne era
tanto certo che riservava, per quella circostanza, tutti i desideri
che, cammin facendo, andava segretamente accarezzando.
E pensava
molto di piú alla capra sua nutrice, che al vecchio e buon Mochito;
perché sapeva di sicuro che questi era morto, dato che egli stesso
lo aveva sotterrato; mentre la capra era ancora viva,
probabilmente per poco, dal momento che. era tanto vecchia: com'era
restata malinconica la povera bestiola, quella sera in cui l'aveva
seguito fin sulla soffitta, arrampicandosi per le scale, e poi non
era potuta scendere da sola!...
I ricordi
affioravano continui alla mente e Marcellino, pensando ancora
alla morte di Mochito e collegandola alla sua, rifletteva, senza
tralasciare di camminare, se ci fosse o meno un Cielo anche per
gli animali. E poiché probabilmente non doveva esserci, dal. momento
che nessuno gliene aveva mai parlato, pensava che dovesse esistere
almeno un Paradiso per il bue e l'asinello, che avevano offerto il
calore dei loro aliti al corpicino ignudo di Gesú, quando era nato
in quella stalla, o per l'asina che lo aveva portato glorioso in
Gerusalemme.
Se cosí non
fosse, perché Gesú gli avrebbe proposto, quella sera, se voleva che
Mochito tornasse da lui, nonostante che fosse morto, e morto per
davvero?
E
soprattutto, perché gli avrebbe detto che, se lo avesse desiderato,
la sua capra non sarebbe mai morta? E perché gli avrebbe offerto
anche, solo lo, avesse voluto, il cavallo di San Francesco?
Dunque,
concludeva fra sé e sé Marcellino, se non ci fosse un Cielo per gli
animali, Gesú non avrebbe potuto tirarli fuori da nessuna parte.
Però -- meditava - era anche evidente che, poiché Gesú era Dio,
avrebbe potuto far qualsiasi cosa.
Marcellino
pregustava, cosí, il conforto e la contentezza che avrebbe
provato nell'incontro con il suo gattino, se fosse esistito questo
Cielo; soprattutto, sarebbero divenuti inutili gli scrupoli d'un
tempo per aver ucciso tanti animali, grandi e piccoletti. Che
bellezza, se alla luce della nuova verità fosse risultato che
egli, in fondo, non aveva ucciso « del tutto » nessun animaletto!
ma aveva dato a ciascuno, soltanto un « po' di morte
Quel buon
bambino, non si rendeva conto che questi pensieri sugli animali non
erano altro che un ricordo e un riflesso, ancora impressi nella sua
anima, delle idee che ne aveva avuto quand'era vivo.
Marcellino
avanzava ancora nello spazio e aveva finito per notare quella
straordinaria assenza di qualsiasi rumore intorno. benché
prestasse molta attenzione e stesse con le orecchie tese, non
riusciva ad udir proprio nulla: perché perfino i suoi passi non
risuonavano affatto, neppure un pochino.
Quel silenzio
gli riportò alla memoria un altro silenzio che, quando ancora era
sulla terra, poco mancò gli causasse un gran dispiacere; per
fortuna, però, tutto era andato per il meglio perché « la
cosa » s'era risolta in modo assai strano.
Una sera,
infatti, non avendo nulla di meglio da fare e volendo ammazzare il
tempo fino all'ora di cena, era riuscito a beffare fra Battesimo e i
fratelli addetti all'orto. Era andata così: aveva potuto
arrampicarsi senza esser visto fin sul tetto, servendosi di una
grande scala che uno dei frati aveva lasciata appoggiata alla parete,
e lassú s'era messo a passeggiare sulle tegole con un po' di paura,
ma con il piacere di vedersi tanto in alto.
Volle il caso
che in quella occasione Marcellino trovasse vicinissima al campanile
una palla di stracci, che un giorno gli aveva fatta fra Pappetta e
che poi, non si sa come, era finita sul tetto. Marcellino raccolse
allora la sua palla, e mentre l'osservava stando sempre all'erta per
non dare nell'occhio ai frati, si accorse che la pioggia e il vento
l'avevano tutta sciupacchiata. Guardandosi intorno, gli venne ad un
tratto nella mente un'idea alquanto temeraria.
Tenne
immobile con una mano la campana del convento, concepí mentalmente
il suo progetto birichino in tutti i particolari e sorrise al
pensiero della paura che avrebbe provata fratel Dindon, il
sagrestano: buon ricambio per chi, piú di una volta, gli aveva
allungato qualche scappellotto.
Senza
pensarci su due volte, disfece completamente la palla e con gli
stracci avvolse e riavvolse il battaglio, lo legò e rilegò
saldamente con lo spago di modo che, per quanto da giú tirassero la
corda, non potesse assolutamente suonare battendo contro la
campana. Appena attuato e condotto a termine il suo diabolico
piano, si calò giù dalle tegole piú in fretta che poté e se ne
andò buono e tranquillo fin sotto il naso dei frati.
All'ora
consueta il buon fratel Dindon si diresse come sempre verso il
campanile per suonar la campana. La sera era ormai discesa, e già
non ci si vedeva quasi piú. La scala era stata tolta e Marcellino si
aggirava non molto lontano dal luogo in cui si svolgeva la scena,
cosí da poterla godere a proprio agio.
Fratel Dindon
dapprima tirò la corda come al solito, poi si guardò intorno
stupito; tornò a tirare piú forte la corda e, non udendo alcun
suono, s'infilò le dita nelle orecchie come ad aprirle; usci fuori
per osservare da lontano il campanile che ormai appena s'intravvedeva
per l'oscurità; rientrò borbottando e si attaccò di nuovo alla
corda.
La campana si
ostinava a non far udire neppure un rintocco.
Il frate andò
allora a chiamare altri frati e davanti ad essi ritentò la prova.
Macché! La campana non suonava affatto. Figurarsi lo stupore di
quei frati, ai quali neppur lontanamente era passato per la testa,
che quella potesse essere una prodezza di Marcellino. Non si trovò
altra via d'uscita che rimandare al giorno seguente la soluzione del
mistero.
Intanto, per
quella notte, la campana non suonò e certamente la cosa dovette
sorprendere gli abitanti dei casolari vicini.
Marcellino si
mostrava come gli altri meravigliato, e lo era davvero, non certo per
il fatto ché la campana non suonasse, ma per la scarsa sagacità di
quei buoni frati che, pur essendo tutti uomini fatti, si erano
lasciati gabbare da un bambinello.
Dopo cena
Marcellino se ne andò tranquillamente a letto, dormi come un tasso
tutta la notte e la mattina si svegliò, come al solito, al limpido
suono della campana. Il bambino dapprima non si rese conto di
nulla, poi ripensò alla birichinata della sera avanti e cominciò a
tremare: i frati avevano sicuramente scoperto la sua trovata
diabolica.
Aspettandosi
da un momento all'altro una sfuriata, scese giú al refettorio; ma
nessuno gli disse nulla. Nemmeno il piú piccolo accenno
dell'accaduto. Allora, facendosi coraggio, chiese all'orecchio a
fratel Dindon: - Hai aggiustato tu la campana?
Il frate
s'insospettí subito, lo guardò fisso negli occhi, però dovette
confessare la verità, sebbene a malincuore:
- S'è
aggiustata da sola, a quanto pare. Marcellino ringraziò dentro di sé
San Francesco per averlo liberato dai guai, senza tanti grattacapi, e
da allora in poi fu sempre convinto che il gran Santo, impietositosi
di lui, avesse sciolto con le sue mani gli stracci intorno al
battaglio; né pensò mai lontanamente che egli stesso, con le sue
piccole manine, non era riuscito a stringere a dovere i nodi e che
perciò l'involto era caduto giú da solo.
Comunque,
quella mattina, non si perse in inutili soliloqui e rivolse tutta la
sua attenzione alla gran tazza colma di latte e al bel pezzo di pane
che fino allora aveva tenuto davanti a se senza toccare.
Mentre questi
curiosi ricordi riaffioravano alla sua anima, Marcellino proseguendo
sempre nel suo cammino, cominciò a distinguere chiaramente gli
astri, quegli stessi che noi vediamo nel cielo turchino. Soltanto
che egli li vedeva dall'alto e non dal basso, come noi; se volgeva lo
sguardo verso il basso, senza però rallentare il passo - poiché si
sentiva spinto da una gran fretta e da un gran desiderio di arrivare
- poteva osservare come la terra diventasse sempre piú piccola,
tanto che alla fine sembrò un'arancia, di quelle che gli davano le
donne nei mercati.
Gli astri
intanto si avvicinavano, e alcuni erano già enormi e gli suscitavano
una profonda emozione, come se ancora una volta avesse fatto qualcosa
di male e sapesse che li, in una di quelle stelle rotonde e
grandissime, lo stesse ad aspettare il padre Superiore pronto a
far giustizia.
In quei
momenti sentiva fortemente la mancanza di alcune persone che aveva
amato e che sentiva ancora di amare, come, per esempio, Emanuele, fra
Pappetta e anche fratel Egidio. Fra tutte le cose che avrebbe poi
chiesto a Dio, se lo avesse visto, c'era una preghiera particolare
per loro, affinché li facesse venire presto con lui e così, tutti
uniti, potessero godersi le delizie del Cielo.
Qui
Marcellino pensò che, se Gesú veramente era il Re di tutto quello
che vedeva e di ciò che aveva conosciuto prima, tanto meglio; perché
allora Gesú era senza dubbio il Re piú grande di tutti i re.
Ma in tal
modo Marcellino non poteva far a meno di riconoscere come la
situazione veniva a capovolgersi, perché, se Gesú possedeva un
palazzo infinito nel Cielo, sarebbe toccato a Lui ora, dargli pane
per mangiare e vino per bere; nonché una coperta per coprirsi nelle
notti, supposto che là ci fossero state le notti. E si compiacque al
pensiero che, ora, Gesú si sarebbe dovuto magari chiamare anche Pane
e Vino, e non piú Gesú solamente.
- Gesù Pane
e Vino! - diceva fra sé; e gli sembrava, pronunciandolo cosí
ad alta voce, che non suonasse affatto male.
All'impróvviso,
senza aspettarselo punto, Marcellino si trovò in una zona di ombre
fittissime, come se egli fosse inavvertitamente entrato nella buia
notte. Provò un certo senso di timore, ma continuò a camminare.
Intorno a lui brillavano enormi sfere come palle infocate ed il
bambino pensò che quella luce doveva essere la stessa che penetrava
per la finestra della sua stanzetta fino al lettino. Vista dalla
terra, quella luce sembrava molto piú piccola; ricordava che nelle
notti della sua malattia, aveva cercato piú volte di numerare i
punti luminosi del cielo e non era riuscito mai a contarne piú
di diciassette, perché si addormentava.
Marcellino
non aveva alcun dubbio di esser diretto verso il Cielo; il Cielo poi
era sicuramente un luogo allegro, pieno di luce. Quello dunque non
poteva essere il Cielo; tutt'al più era il cammino per
giungervi. Infastidito anzichenò da quella spessa oscurità, ma
continuando sempre a camminare guidato dalla luce di quei globi, gli
venne il sospetto di trovarsi vicino al Purgatorio o forse anche
vicino all'Inferno, sebbene non si avvertisse un gran caldo.
Se la cosa
stava cosí, il Credo era sbagliato! Ma il Credo non può sbagliare,
e poi dice ben chiaramente che Gesú Cristo « discese »
all'Inferno: quindi l'Inferno doveva essere profondo profondo e sotto
la terra e non lassù a quell'altezza dov'egli si trovava. Inoltre il
Credo chiaramente affermava che Gesú, risuscitato da morte, « sali
» poi al Cielo: il luogo appunto in cui Marcellino era quasi
sicuramente convinto di andare; e là non c'era manco l'ombra
dell'Inferno. (Non sapeva il bambino, che l'Inferno a cui si
riferisce il Credo e il luogo dove i Santi Padri aspettavano il
Cristo, e non l'Inferno del castigo eterno).
Ad ogni modo
fu turbato ugualmente da questi pensieri perché tutto quello che i
frati gli avevano raccontato sull'Inferno (e che a lui allora
sembrava solo una storiella), gli si andava ora rivelando con tanta
chiarezza da fargli trattenere il respiro.
Decise allora
di affrettare il passo; ma un'enorme fiammata rossa si alzò
d'improvviso vicino a lui e continuò a seguirlo da vicino
diffondendo all'intorno un chiarore sanguigno. Marcellino procedeva
tremando accanto a quella terribile luce e la sua agitazione
aumentò quando essa, assumendo una spaventosa forma quasi
umana, gli parlò cosí:
- Tu mi sei
sfuggito, laggiú, Marcellino; ma ben presto vedrai gemere quello che
fu il capo dei banditi che perseguitarono i tuoi genitori!
Marcellino
provò qualcosa di molto simile alla paura e alla pena e tentò
di darsela a gambe, ma vide che non ci riusciva. Dovette quindi
proseguire con lo stesso passo, sempre al fianco dell'orribile
fiamma rossa che continuava a dire ad alta voce:
- Egli tolse
la vita a molti uomini, e fu sua la colpa se i tuoi genitori ti
abbandonarono (perché essi non volevano e lo fecero per salvarti),
poi tua madre cadde in un burrone, mentre fuggivano... Ma quando il
bandito mori, allora si che lo presi per i capelli e me lo portai qui
con me!...
Ormai
Marcellino si andava convincendo che la spaventosa fiamma rossa
potesse essere il Diavolo, quando questa si fermò un momento e il
bambino, seguitando a camminare, calpestò quella luce di sangue.
Allora riuscí
a vedere una figura che agitava le braccia e in quella figura, man
mano che si avvicinava, poté riconoscere lo fattezze di un uomo
vestito di nero che faceva enormi sforzi per avvicinarsi a lui, ma
non gli era possibile perché qualcosa gli teneva impastoiati i
piedi, tra le ombre. É quell'uomo piangeva e spalancava gli
occhi e stendeva le mani verso il bambino, quasi avesse voluto
toccarlo, proprio come quando si chiede l'elemosina. Intanto diceva:
- Tu sei il
bambino abbandonato per colpa mia. Ora sto pagando quella colpa e
tutte le altre cattive azioni che commisi in vita.
Marcellino
Pane e Vino lo guardò attentamente e con grande commiserazione, ma
non poté fermarsi. Ancora non credeva alle sue orecchie ma, quasi
per arrecargli un po' di conforto, gli disse:
- Però,
dopo, mi raccolsero i frati.
Quell'uomo
continuava a contorcersi come fosse stato di paglia e di fuoco; ormai
lontano appariva avvolto sempre dalla spaventosa fiamma rossa che
giungeva ancora fino alle spalle del bambino. Singhiozzando
dirottamente il poveretto di tanto in tanto scompariva ed ogni
volta che si immergeva nelle ombre, si levava intorno a lui un
pulviscolo rossastro.
A Marcellino
il cuore si stringeva dalla pena per quel disgraziato, ma capiva di
non poter far nulla per lui; proseguiva cosí il suo cammino, seguito
per un lungo tratto da quelle grida d'angoscia e da quel pianto. Tra
i gemiti, giungeva di tanto in tanto piú chiara la sua voce: era un
grido d'accusa, la confessione terribile di aver ucciso molte
persone e di aver causato anche la morte della madre di Marcellino.
Il bambino
non aveva più il coraggio di voltarsi verso quell'ombra ormai
lontana, che gemeva e si contorceva convulsamente dal dolore, e
intanto cercava, ma invano, di raffigurarsi quel volto.
Di li a poco
si udi ancora la voce della grande luce rossa che aveva presentato il
dannato come il capo dei banditi; essa gridava per tormentarlo:
- Lo vedi?
quello è il bambino che va in Cielo per riunirsi a sua Madre, e tu
sei là.
E la voce
dell'uomo, affievolita dalla distanza e rotta dai singhiozzi,
replicava:
- Quel
maledetto dice il vero! Ahimé ! son condannato ad assistere al
passaggio di quelli che vedranno Dio; ed io no... io no... povero
me!...
Allora, in
fondo alla via lunghissima, oltre le ombre, Marcellino Pane e Vino
vide una piccola luce splendente come l'oro: fu per lui come lo
spiraglio della luce del sole per chi si trovasse sperduto nelle
viscere della terra. E da laggiú, dalla piccola luce d'oro, arrivò
ai suoi orecchi una dolce voce che diceva
- Non temere,
Marcellino, che il Diavolo non ti può far nulla; non parlargli e
tappati le orecchie per non sentire la sua orribile voce.
La fiamma
rossa crebbe e si allargò ancora di più infuriata, e Marcellino
seguitò a camminare verso la luce d'oro con le manine agli orecchi
per non sentire; subito la buona luce ingrandí, divenne molto più
grande di quella rossa. Allora il bambino si voltò, e vide che
quella luce d'oro inondava la luce di sangue e la vinceva e la
metteva in fuga; dopo di che la luce bella rimpicciolí e parve di
nuovo assai distante.
Marcellino
intanto camminava, camminava e vedeva dietro a sé la fiamma rossa e
l'uomo in pena allontanarsi sempre piú, finché li perse di vista;
invece la piccola luce che lo guidava ingrandiva di nuovo e prendeva
a poco a poco forma di uomo risplendente, che gli veniva incontro
sorridendo con due grandi ali. Somigliava all'Angelo di cui
spesso parlava il Padre Superiore, sebbene fosse senza spada.
Marcellino
provò in cuore una grande allegrezza; a mano a mano che si
avvicinava, cresceva in lui lo stupore per la bellezza di
quell'uccello divino che sembrava formato dalla materia incandescente
del sole.
L'Angelo non
si muoveva e piú Marcellino si avvicinava, piú si vedeva piccolo in
confronto a lui. Alla fine l'Angelo gli disse:
- Sii
benvenuto, Marcellino Pane e Vino, nel regno del mio Signore.
Marcellino,
felice di essere finalmente giunto, stupì grandemente nel constatare
di esser tanto famoso, ché fin lassú, così lontano e così in
alto, conoscevano il suo nome. Di rimando, allora, domandò:
- Tu lo sai
il mio nome, eh! Dimmi ora il tuo. L'Angelo, che camminava davanti a
lui, gli rispose solamente
- Perché
chiedi il mio nome, che è meraviglioso?
Marcellino
allora tacque, riflettendo fra sé e domandandosi se
per caso avesse fatto qualcosa di male; ma l'Angelo gli disse.
- Sono il tuo
Angelo e ora dovrai darmi la mano...
E cosí, come
se andasse con fra Battesimo per i piccoli antichi sentieri, o come
se passeggiasse con quel buon uomo di fra Pappetta, Marcellino segui
l'Angelo e presto ambedue si inoltrarono per una nuova strada ancor
piú luminosa della prima e proseguirono cosí per moltissimo tempo.
Ad un tratto il bambino vide venire da lontano un altro essere
risplendente (benché meno luminoso dell'Angelo che lo conduceva);
a mano a mano che gli si avvicinavano sentiva il cuore balzargli in
petto, poiché credeva di aver delle visioni.
- È il Padre
Superiore? - domandò all'Angelo. Ma questi gli sorrise e non
rispose.
La verità
era, che la figura che si stava loro avvicinando (benché non si
muovesse), era quella di un frate, di un frate vero con tanto di
tonaca, di sandali, di cappuccio e di cordone.
Quando
Marcellino gli giunse molto vicino con il suo Angelo, allora
solamente si rese conto che quegli era un frate sconosciuto, sebbene
perfettamente eguale agli altri. Ed il frate, che era magrissimo e
con una gran barba e i cui occhi brillavano di felicità e di amore,
come se la voce gli uscisse dagli abiti mal rattoppati, cosí gli
parlò
- Sii
benvenuto, Marcellino Pane e Vino. Io sono quel fratello portinaio
che tu non hai conosciuto, ma che ti raccolse alla porta del nostro
convento; il Signore ha voluto che, come allora fui io il primo della
casa a vederti, ancora adesso sia io il primo a venirti incontro,
nella Sua Casa, dove ora tu stai...
Marcellino
guardava stupefatto il fratello portinaio e cercava di vedere la
Casa di cui egli parlava. Il frate allora lo benedisse; intanto si
andava avvicinando un'altra ombra, anche questa luminosa, ma sempre
meno dell'Angelo.
- Ecco qui, -
prosegui il fratello portinaio, - il nostro buon Sindaco, quello che
ci diede il permesso di fondare il convento e che per questa e per
altre buone azioni compiute in vita, meritò di salire quassú nel
Cielo.
Marcellino
guardò il buon sindaco e lo vide tanto grasso e vestito tanto
similmente ai contadini della sua terra, a fianco dell'Angelo che gli
faceva compagnia, che a momenti scoppiava in una sonora risata. E
certamente cosí sarebbe accaduto se là intorno non ci fossero
stati tanti Angeli.
L'Angelo
continuava ad andare avanti e Marcellino dietro, inondato dalla luce
che proveniva da tutti i lati e soprattutto dall'Angelo
medesimo. Ad un certo momento Marcellino non seppe più
pazientare e domandò
- La vedrò
su bito mia madre? L'Angelo si limitò a rispondere:
- C'è ancora
molta strada da fare.
Nei nuovi
sentieri lungo i quali l'Angelo conduceva Marcellino, la luce
cresceva e gli astri mutavano; se ne vedevano infatti di nuovi,
diversi da quelli di prima. Marcellino se n'era ben accorto e qualche
volta s'era rivolto indietro, senza che l'Angelo vi facesse caso.
Aveva cosí osservato che laggiú, lontano, parevan seguirli due
piccole luci: tra sé pensava fossero le ombre luminose del fratello
Portinaio e del buon Sindaco.
Per quanto
Marcellino si sforzasse di nasconderlo, seguitava a pensare alle cose
viste e udite. Inoltre, la presenza dell'Angelo che aveva al fianco
gli era in breve diventata tanto familiare e abituale, che non poté
fare a meno di alzare la sua vocina e domandargli:
- Sei stato
tu a dirmi di tapparmi le orecchie per non sentire il Diavolo?
L'Angelo non
rispose nulla, però volse dolcemente il capo e lo guardò negli
occhi in un modo che il fanciullo credette gli avesse sorriso.
- E devi
essere stato pure tu colui che ha lottato contro il Demonio e lo ha
vinto. L'ho visto proprio io: hai spinto quel fuoco rosso, come il
vento spingeva le nubi laggiù sulla terra.
L'Angelo però
continuò il cammino in silenzio, mentre Marcellino almanaccava la
maniera di poterlo far parlare in qualunque modo, magari soltanto per
riudire la sua voce dolcissima.
- Allora è
vero che quello che gemeva fu la colpa di tutto ?
Senza
guardarlo, l'Angelo rispose:
- Proprio
cosí, Marcellino.
Il Bambino
affrettava il passo per avvicinarsi di più all'Angelo, ma questi
manteneva sempre la stessa distanza ed il ragazzo non riusciva
mai neppure a toccargli le ali.
- Il Diavolo
diceva che quel bandito uccise molti uomini, - ripeteva il bambino,
parlando quasi a se stesso.
L'Angelo
camminava, camminava, sempre in silenzio, e la luce cresceva
lentamente ma di continuo. Marcellino allora volle dir qualcosa che
certamente l'Angelo avrebbe molto gradito di udire:
- Certo, gli
hai dato una bella lezione: s'è dissolto nell'aria come una bolla di
sapone...
-- Non sono
stato io, - questa volta l'Angelo rispose, con severa dolcezza:
- ma il Signore che ha vinto, come sempre.
Marcellino lo
guardava e tornava a guardarlo e a riguardarlo e provava
una strana sensazione: stava benissimo con lui, lo guardava con
piacere egli sembrava di conoscerlo già da molto tempo.
Per questo
soggiunse ancora
- Ma non
sarai tu per caso il mio Angelo Custode? L'Angelo senza indugiare
rispose
- Tu ora
l'hai detto, Marcellino.
Allora il
ragazzo coraggiosamente e con prontezza replicò
- Le
cattiverie che mi lasciavi compiere, dunque... Avendo udito ciò,
l'Angelo si volse un poco verso di lui, gli sorrise più
affettuosamente che mai e gli disse:
- Non potevo
impedirle, Marcellino; cercavo solamente che tu mi dessi ascolto
e comprendessi quello che dovevi fare, invece di quello che facevi...
Marcellino, a
queste parole, borbottò qualcosa tra sé; poi decise che sarebbe piú
prudente dir subito una cosa che gli pesava, ed esclamò:
- Ora, però,
non vorrai mica raccontare a qualcuno le brutte cose che ho fatto....
Per la prima
volta l'Angelo scoppiò in un riso argentino, che all'orecchio
di Marcellino risuonò come una musica divina: una musica comunque
ben diversa da quella di frate Merlo. Quando terminò di ridere,
l'Angelo disse
- Il Signore
già sa tutto, Marcellino; conosce ogni cosa prima che accada, mentre
accade e dopo che è accaduta.
Andavano,
cosí camminando, Marcellino e l'Angelo, senza stancarsi e senza mai
fermarsi, per una strada che diventava sempre piú ampia e
risplendeva come un diamante. Ma l'Angelo non amava parlare e
Marcellino si immerse ancora nelle sue riflessioni.
Tra le cose
che si riprometteva di dire al Signore, il bambino, riordinando le
idee, ne aveva pronte due, una piú importante dell'altra. La prima
era quella del Cielo degli animali, e l'altra quella di far riunire
quanto prima, insieme al Signore, i frati, ed anche Emanuele. Il
tutto, naturalmente, se Gesù avesse mantenuta la promessa di fargli
rivedere prima sua madre.
Intanto
pensava anche al fatto di non potere implorare misericordia per
quel povero capo dei banditi che soffriva sotto il potere del
Demonio: come del resto era successo in altra occasione anche a Gesú,
che aveva sofferto sotto Ponzio Pilato: Anche questo lo diceva il
Credo, e il Signore non poteva averlo dimenticato.
Quando
Marcellino, immerso nei suoi pensieri, tornò ad osservare ciò che
accadeva intorno a lui, per la terza volta vide delinearsi laggiú,
lontano, alcune figure umane che rapidamente si avvicinavano. Quando
furono vicine, l'Angelo annunziò la presenza del fanciullo in questo
modo:
- Questi che
viene con me, è Marcellino Pane e Vino.
La luce si
era duplicata ed era due volte smagliante e bella, (come già era
avvenuto prima con il fratello Portinaio e (il buon Sindaco) perché
dentro, pur avendo al fianco un solo Angelo, vi brillava una persona
di particolare splendore. E questa persona non era come gli uomini
che Marcellino aveva visto tante volte, ma un po' piú somigliante
agli Angeli, con i lunghi capelli spioventi sulle spalle. Il ragazzo
vide che indossava una specie di lungo abito bianco e gli parve
dovesse trattarsi di una donna.
Allora la
donna, o quel che fosse, si avvicinò a Marcellino e sollevando le
sue braccia nude al Cielo esclamò con grande contentezza:
- Tu dunque
sei il figlio del mio povero fratello e adesso Elvira potrà
rivederti!...
Marcellino
rimase incantato a guardarla e non capiva davvero chi potesse essere
quella Elvira; per questo le rispose:
- Io non so
chi sia Elvira, come tu dici.
La donna
fissò i suoi occhi, che erano bellissimi, negli occhi di Marcellino
e subito continuò
- Elvira è
il nome di tua madre, povero piccolo. Ma ora finalmente sei felice e
lo sarai ancora di più fra poco.
A Marcellino
piacque la parola Elvira, mai udita fino ad allora, e gli parve un
bel nome per una mamma, bella come doveva essere la sua (almeno a
credere quanto Gesù gli aveva raccontato di tutte le mamme) e rimase
per un momento soprappensiero.
- Mamma tua è
qui, ma mio fratello non sappiamo dove si trovi, - soggiunse la bella
fanciulla.
Tutti intanto
camminavano e Marcellino e l'Angelo andavano più in fretta. Allora
il ragazzo volle domandare:
- E chi sei
tu che mi parli cosí ?
- Sono
Michela, sorella di tuo padre, che si chiama Claudio e zia tua; io ti
vidi in braccio a tua madre, quando essi si davano alla fuga e poi
non seppi piú nulla di voi, finché non giunsi qui e mi ritrovai con
Elvira; chissà che ne è di Claudio... non lo vedemmo piú...
- Io neppure
l'ho visto, - disse allora Marcellino: - ma ho visto un tale che
ha colpa di tutto e soffre molto... a sentir quel che dice.
Intanto
Marcellino e l'Angelo andavano separandosi da Michela, la quale
da lontano fece udire ancora la sua voce:
- Ti benedico
di nuovo, piccolo caro, come quando eri nelle braccia di tua madre...
I due
proseguirono il loro cammino. Marcellino, tanto per cambiare discorso
e per parlare al suo Angelo, osservò:
- Questa luce
che ci trapassa non è come quella della terra.
Allora
l'Angelo lo prese di nuovo per mano, e camminando di pari passo,
cominciò a spiegargli che quella luce non era come l'altra, perché
quella della terra era molto imperfetta, quasi un abbozzo della luce
celeste. La luce terrestre del sole era densa di particelle oscure,
poiché la luce del mondo si compone di tanti corpuscoli luminosi
separati fra loro; tra gli uni e gli altri non c'è la luce ma
solamente il suo riflesso; mentre in Cielo dappertutto è luce
purissima e non c'è in essa neppure una sola parte nera.
Spiegò
ancora che tutta la luce proviene da Dio e che Egli non permette
ce ne sia di piú, perché diversamente nessuna anima, nessun
Angelo, nessun Santo, per grande che sia, potrebbe sopportarla.
Se ne
andavano cosí conversando e l'Angelo spesso sorrideva per le domande
o le risposte di Marcellino, quando all'improvviso il bambino fu
colpito da una luce ben piú viva di quelle osservate in precedenza,
che meravigliosamente brillava di lontano; stringendo la mano
della sua guida gli domandò:
- Che è
quello che si vede brillare tanto, laggiú ?
L'Angelo però
a questa domanda non rispose e proseguirono la loro marcia finché a
poco a poco Marcellino poté vedere che c'era una figura molto
risplendente, attorniata nientemeno che da tre Angeli, ed il
gruppo somigliava ad una brace d'oro rutilante che si muoveva e
tremolava come se respirasse.
Come già le
altre volte, l'Angelo alzò la sua voce e melodiosamente annunciò
- Questi che
viene con me e Marcellino Pane e Vino; - ed aggiunse: - l'amico del
Signore.
Subito dopo
accadde qualcosa di nuovo che Marcellino non si aspettava,
estasiato come stava di fronte a quella straordinaria fonte di luce.
L'Angelo, poggiandogli le mani sulle spalle, gli suggerí:
- In
ginocchio, ora, Marcellino; ecco il tuo Santo che è venuto a
vederti... - e inclinando con grazia il Suo capo bellissimo, salutò
colui che veniva.
Marcellino
guardava, guardava, ma non riusciva a vedere nulla che, per lui, non
fosse semplice e naturale. Era un vecchio dall'aspetto venerabile con
una barba bianca e lunga e un gran manto rosso intorno al quale,
immobili e sorridenti, stavano i tre Angeli. Il vecchio ricambiò
l'inchino all'Angelo di Marcellino e, avvicinandosi, cosí
parlò:
- Io sono
Marcellino Vescovo di Roma e Papa della Santa Chiesa. Dio mi ha
inviato da te perché tu sei forse il piú piccolo Marcellino che
abbia scelto per se il Signore, dal mondo di laggiú.
Marcellino
seguitava a stare in ginocchio, ma il suo buon Santo lo sollevò;
così si avviarono insieme, preceduti dall'Angelo del bambino e
seguiti dagli altri tre Angeli. Marcellino faceva le meraviglie alla
vista del suo santo tutto vestito di rosso. Ma quel che lo
sbalordiva di piú era la palma che portava in mano, e allora,
approfittando del silenzio, chiese:
- Perché
porti appresso questo ramo?
Il Santo, che
brillava quasi quanto gli Angeli, sorrise e disse
- Questa è
la palma del martirio, Marcellino; dovrai infatti sapere che io
regnai in quel periodo di tempo che si chiamò l'era dei martiri,
quando per dieci anni consecutivi, sotto l'Imperatore Diocleziano, si
perseguitò molto la gente di Dio...
Marcellino
ascoltava attentamente sforzandosi di capire. Allora il Santo,
che lesse nell'animo del fanciullo questa inquietudine, narrò in
termini più comprensibili
- I pagani
non credevano nel nostro Dio e ci perseguitavano. I soldati che
dichiaravano di essere cristiani erano espulsi dall'esercito; i
sacerdoti dovevano consegnare ai loro carnefici i libri sacri; le
chiese venivano distrutte e le comunità disperse. Se tu fossi
nato in quel tempo, non saresti stato raccolto in nessun convento ed
anche se persone pie ti avessero custodito, sarebbero poi state
costrette ad abbandonarti di nuovo...
In quei
tempi, le milizie pagane non davano requie a noi sacerdoti e ci
imprigionavano e ci obbligavano a sacrificare all'Imperatore, come se
l'Imperatore fosse stato Dio Onnipotente Signore nostro. Per sfuggire
a queste persecuzioni dovevamo rimaner nascosti per lungo tempo nelle
catacombe; ma anche là purtroppo, alla fine eravamo scoperti e
catturati. Io (e con me molti altri), soffrii il santo martirio; per
questo il Signore si mosse a pietà di me e mi accolsi qui nel Suo
regno celeste...
Marcellino
pendeva dalle labbra del Santo e si sentiva il cuore gonfio
dalla emozione. Gli sembrava di stare ancora ascoltando
frate Male, quando gli diceva che era molto meglio morire per il
Signore, senza spada. Anche gli Angeli ascoltavano con rispetto,
in profondo silenzio.
Infine il
Santo porse a baciare la mano a Marcellino e poi lo benedisse, come
già avevano fatto le altre anime con le quali aveva parlato.
«Questa si
che è una buona benedizione», pensò in cuor suo Marcellino; e la
paragonò a quella di sua zia Michela, della quale, in verità, poco
gl'importava.
Già era sul
punto di interpellare San Marcellino sulla faccenda del Cielo degli
animali e sui frati di laggiú suoi amici e perfino sulla storia di
suo padre, quando si accorse di essere nuovamente in cammino guidato
dal suo Angelo Custode, che sentiva di amare sempre più. Il Santo e
i tre Angeli erano ormai rimasti troppo indietro.
Di tanto in
tanto altri Angeli sconosciuti incrociavano in lontananza la
luce smagliante di quella via, luccicando come polvere d'oro, e
Marcellino volle sapere dalla sua guida quali Angeli fossero.
- Sono, come
me, servi e messaggeri di Dio, - spiegò l'Angelo.
La risposta
richiamò alla mente del bambino i frati, che pure erano chiamati «
messaggeri del convento »; spesso erano i « fratelli laici », ma
quali messaggi portavano, specialmente quando nessuno moriva o
nessuno si sposava o nessuno nasceva nei paesi vicini?
Come già una
volta, anche ora gli sarebbe piaciuto diventare un messaggero; perché
doveva essere una gran bella cosa fare il « messaggero di Dio » e
poter conoscere così i misteriosi messaggi che Dio affidava
agli Angeli.
A questo
punto (poiché in lui era rimasta un po' di quella maniera di
ragionare che aveva sulla terra), pensò che la miglior cosa sarebbe
stata di sapere si il contenuto di quei messaggi, ma senza avere poi
il fastidio di trasmetterli...
L'Angelo
intanto gli andava spiegando che quelli che vedeva costituivano la
parte più piccola e più umile dei tre gradi e dei nove ordini di
cui si componeva il grande servizio di Dio; il primo di quei gradi
era formato dai Serafini, dai Cherubini e dai Troni; venivano
poi le Virtú, le Potestà, le Dominazioni; finalmente, facevano
parte del terzo grado i Principati, gli Arcangeli e, da ultimo,
gli Angeli della sua categoria.
Cammina e
cammina, Marcellino aveva ormai perduto il senso delle ore e la
cognizione dei giorni e dei mesi trascorsi da quando si era messo in
cammino, dopo aver lasciato il convento dei buoni frati. Era cosí
meraviglioso per lui quel viaggio
A volte
ricordava, senza saperne il perché, la festa della Vergine di luglio
e ancor piú l'abbondante marmellata che gli era stata data quel
giorno. A questo proposito rifletteva che già da parecchio non
provava desiderio di mangiare ne di bere e che non gli importava piú
nulla dei dolciumi di una volta (che magari non erano un gran che),
ma dei quali era tanto ghiotto...
Mentre
Marcellino cosí pensava, da lontano brillò di nuovo qualcosa; ora
capiva: era un altro essere che riluceva come lui ma molto meno del
suo Angelo; anche quegli procedeva scortato da un Angelo al suo
fianco. - Questi che viene con me è Marcellino Pane e Vino, l'amico
del Signore! - annunciò come sempre l'Angelo.
Da un lato
della strada di luce che essi seguivano, quell'ombra accesa si
diresse verso Marcellino e gli disse:
- Oh! Tu sei
il ragazzo dei frati! Mi ricordo molto bene di te; io sono quel
malato che giaceva a letto quando padre Bernardo andò a confessarlo
e tu lo accompagnavi!
Allora
Marcellino si ricordò che quegli doveva essere il famoso « eroe »
che vide con fra Battesimo. Lo osservò meglio e notò che aveva
ancora i grandi occhi incavati sotto la fronte; ma ora l'eroe, se era
lui, era infinitamente piú bello, quantunque leggermente
trasfigurato. Marcellino esclamò
- Sei l'eroe
M ?
L'eroe
sorrise commiserando quasi se stesso, e rispose:
- Tale mi
ritenevano laggiú, perché versai il mio sangue a difesa del mio
paese e lottai per molti anni armato di sciabola e di fucile; ma qui
sono uno dei tanti che hanno ottenuto la misericordia del Signore e
nulla io valgo se non per quella misericordia che splende in me. Ti
son venuto incontro perché al mio arrivo quassú seppi che anche tu
avevi pregato per me.
Marcellino,
che non si ricordava di siffatte preghiere, esultò per avere
incontrato finalmente un conoscente e stava per manifestare la
sua gioia ad alta voce, quando pensò che doveva ancora vedere molte
persone mai conosciute: prima fra tutte sua madre. Perciò, allorché
si furono alquanto allontanati dall'eroe, osò chiedere all'Angelo
- Vedrò
subito mia madre?
- Ormai manca
pochino, - rispose quegli.
Marcellino si
volse indietro e poté vedere che varie luci lo seguivano e (poiché
già l'aveva dubitato prima), si convinse ora che erano il fratello
Portinaio, il buon Sindaco, Michela, San Marcellino e, finalmente,
l'eroe. Sembrava cosí che la presenza del bambino chiamasse a
raccolta i cittadini di quel Cielo immenso e ne illuminasse
sempre piú i già sfavillanti sentieri.
Una delle
cose che Marcellino aveva appreso sulla terra e che maggiormente
l'avevano colmato di gioia, era che anche gli eroi andavano in Cielo
e che con la spada si poteva difendere non solo la Patria, ma Dio
stesso, fondatore della Patria nel piccolo cuore degli uomini.
Mentre
pensava a queste cose, camminava sempre al seguito del suo Angelo, e
si accorgeva che la luce dalla quale erano avvolti cresceva
continuamente d'intensità e di vivezza. Contrariamente a quanto
avrebbe potuto aspettarsi, gli occhi non solo non ne soffrivano, ma
sembrava che andassero incontro, sempre con maggior piacere, al loro
naturale elemento. Non poté quindi trattenersi dal domandare
all'Angelo:
- Non cesserà
mai di aumentare questa lice che ci avvolge?
L'Angelo si
volse un poco e rispose:
- Questo non
è ancora tutto, e ti ho già spiegato abbastanza intorno alla luce.
Marcellino
però non aveva finito di esprimere il suo pensiero e credette fosse
quello il momento più opportuno per insistere:
- E dove ci
stiamo dirigendo?
Infatti egli
pensava di esser diretto da sua madre, e forse anche da suo padre,
poi dalla Madonna e finalmente dallo stesso Dio; ma voleva
sapere se il luogo dove avrebbe visto tutta questa gente avesse un
altro nome da quello di « Cielo » noto a tutti.
- A vedere
Iddio! - disse l'Angelo.
- Questo lo
so, - rispose Marcellino; - vorrei sapere però come si chiama quel
luogo.
L'Angelo lo
guardò incuriosito, o cosí almeno parve al bambino.
- Non si
chiama altro che Dio, - precisò l'Angelo: - andiamo a vedere Dio in
Dio.
A Marcellino
sembrava cosa veramente grande il vedere Dio, ma credette opportuno
chiarire un particolare che egli stava molto a cuore
- Però prima
vedremo mia madre...
E subito
dopo, quasi spinto da un pensiero subitaneo, aggiunse:
- E tu, ce
l'hai la mamma?
A questo
punto l'Angelo si volse indietro e, lasciandosi raggiungere dal
piccino, spiegò:
- Noi Angeli
abbiamo solamente un Padre e nessuna madre, ma questo Padre vale
per tutti e due, e anche molto di piú. Abbiamo però la nostra
Regina, Maria.
Marcellino
non fiatò e fissò lo sguardo in avanti verso l'infinito. Sapeva che
dietro venivano gli altri suoi amici, accompagnati dagli Angeli come
in processione.
Rifletté
quindi per un momento sulla meravigliosa essenza degli Angeli, creati
da Dio molto prima dell'uomo stesso. A questo proposito si
ricordò di Adamo e di Eva e della storia del Vento, durante la
Creazione del Mondo.
- E allora, -
disse repentinamente il bambino, - vedrò anche Adamo ed Eva e tutti
i Santi e le Sante, San Francesco Saverio, Sant'Ignazio, Santa Teresa
e tutti gli Arcangeli...
- Cosí sarà,
a Dio piacendo, - disse l'Angelo.
Si riprese il
viaggio; Marcellino tornò a voltarsi indietro e notò che le luci li
seguivano sempre. Il numero delle luci era doppio di quello dei
suoi amici, ma ormai sapeva che al fianco di ogni amico vi era un
Angelo, tranne che per San Marcellino il quale ne aveva tre.
Guardò poi
il suo Angelo e gli sembrò che avanzasse cantando, soltanto che non
ne udiva la voce. Gli venne in mente che anche gli angeli, come i
frati, avevano certamente le loro ore di preghiera e che in quei
momenti l'espressione del loro volto doveva ricordare quella di chi
sta sognando o magari parlando con persone molto segrete ed
invisibili.
Spinse alla
fine lo sguardo in avanti: nuove cose e nuove meraviglie lo
affascinarono. Le luci che si avvicinavano non avevano fine e
giú, in fondo, appariva come un'immensa montagna d'oro. Prima
di tutto fissò lo sguardo nella luce piú vicina ed il cuore gli
balzò in petto come quando si era arrampicato sul secondo
gradino della scalinata che conduceva al ripostiglio e alla soffitta,
ed il legno aveva improvvisamente scricchiolato. Stringendosi
istintivamente all'Angelo, che in quel momento glielo consenti,
esclamò:
- C' e la mia
mamma!
Prima ancora
che l'Angelo potesse impedirglielo, si svincolò dalla sua mano e
tentò di correre, ma non poté; poté solo affrettare il passo. La
Luce che veniva loro incontro era una luce normale, come ad esempio
quella del fratello Portinaio e del buon Sindaco o dell'Eroe.
Per la prima volta, Marcellino precedette di alcuni passi l'Angelo e
quasi non udí il consueto annuncio:
- Questi che
porto è Marcellino Pane e Vino, l'amico del Signore.
La luce stava
ormai al suo fianco e il bambino non mormorò neppure una parola,
finché quell'ombra luminosa stese fino a lui le sue braccia e
disse:
- Figlio mio!
Marcellino
era dunque rimasto incantato ad osservarla, senza potere
spiccicar parola; vedeva che quella ombra bella aveva i capelli
sciolti sopra le spalle e indossava una tunica rosea e lo
fissava con degli splendidi occhi di una bellezza sorprendente. Poi,
pian piano il piccolino articolò, molto lentamente, una sola parola
- Elvira.
Elvira
(poiché era proprio lei) gli si accostò di più ed egli, obbedendo
ad un impulso irresistibile, le si slanciò incontro.
Allora, per
la prima volta, si rese conto che non aveva più corpo. Frenò il suo
impulso, si mise vicino vicino a sua madre e le disse solamente:
- Vorrei
baciarti.
Elvira lo
toccò con le sue mani di luce. Egli provò una sensazione
stranamente nuova e sconosciuta come, cioè, si fosse
venuto a trovare proprio dentro il cuore della madre. E cosí
rimase buono buono, sicuro che nessuno si muovesse, mentre
invece tutti continuavano a camminare.
Marcellino
aveva anche lui gli occhi oltremodo splendenti, e non si
rendeva conto di non poter piangere, e piangere di gioia, benché
lo desiderasse con tutta l'anima. Aveva tante cose da dire, ma non
riusciva a parlare. Ricordando allora i suoi pensieri e sentimenti
piú segreti, quelli che in terra conosceva solo il Padre Superiore,
le disse solamente:
- Voglio che
tu mi dica: bambino mio piccino. Ed Elvira, con il volto vicinissimo
a quello del figlio, ripeté con voce soavissima:
- Bambino mio
piccino.
Quelle parole
riempirono di felicità Marcellino, che ne ricordò subito altre,
tanto desiderate
- E anche
amor mio.
Ed Elvira
ripeté, come un'eco dalla voce velata, indicibilmente bella:
- Amor mio.
Elvira e
Marcellino avanzavano così, stretti l'una all'altro tanto che le
loro luci si confondevano e ne formavano quasi una sola. L'Angelo si
era tenuto in disparte, con un certo rispetto, come se si fosse
trovato alla presenza dell'Amore divino.
- E tesoro
della vita mia - diceva Marcellino. - Tesoro della vita mia -
ripeteva Elvira.
- Figlio
dell'anima mia - diceva Marcellino. - Figlio dell'anima mia -
ripeteva Elvira. Tutte le intenzioni e i segreti propositi serbati
per quell'occasione, venivano su a fiotti dal cuore di Marcellino
- E dimmi:
sono tua mamma e tu hai una mamma, - implorava il fanciullo.
- Sono tua
mamma; tu hai una mamma - ripeteva la madre. - Però ora dimmi
tu: « Sono tuo figlio e tu hai un figlio ».
E Marcellino
ripeteva.
- E adesso
chiamami Marcellino - insisteva il bimbetto.
Ed ella lo
chiamava « Marcellino ». - E di' Marcellino mio.
E gli diceva
« Marcellino mio ».
- Adesso, -
chiedeva ancora il fanciullo: - dimmi che mi picchierai se sarò
cattivo...
E la mamma lo
ripeteva con un dolce misterioso sorriso.
- Ordinami di
dormire, - chiedeva il piccolino chiudendo gli occhietti, come uno
che sogni.
Poi, senza
staccarsi dalla madre, Marcellino commentava:
- Però non
ho piú il corpo.
E sua madre
gli rispondeva:
- Nemmeno io,
piccolo mio, ma non importa, perché stiamo nella gloria di Dio e non
ne abbiamo alcun bisogno...
- Pensavo
sempre a te - diceva Marcellino.
- Ed io non
ho mai smesso di pensarti - diceva Elvira.
- Però non
abbiamo più corpo, - ripeteva il piccolo, pensando che avrebbe
potuto sentire la pelle della mamma, i suoi baci e le carezze delle
sue mani.
- Ma lo
riavrai, come lo riavrò anch'io, nel giorno del Signore - diceva
Elvira.
- E quando
sarà questo giorno? - diceva Marcellino, vedendolo troppo
lontano.
- Quanto hai
tardato, Marcellino mio! - diceva sua madre.
- Ma son
venuto perché l'ho chiesto a Gesú, - spiegava il bambino, senza
lasciarla, ma senza nemmeno sorreggersi a lei.
Marcellino
non si stancava di guardare la mamma. Osservava senza posa i suoi
capelli, molto più morbidi di quelli di Mochito, anche se non poteva
toccarli; ed i suoi occhi, più grandi e dolci e fissi su di lui e
piú espressivi ed amorosi di quelli della capra. Si ricordava dei
suoi tesori sotterrati sotto le pietre dell'orto e si pentiva di non
essersene portato nessuno, perché a sua madre avrebbe dato proprio
volentieri e il vetro azzurro per guardare il sole e la zampa di
gallina e persino il tre di coppe.
Ora invece
Marcellino non aveva nulla da dare a sua madre, ma si consolava al
pensiero che ella certamente avrebbe avuto da dargli qualche cosa;
soprattutto gioiva al pensiero di averla finalmente per se.
Intanto si
beava alla contemplazione dell'arco finissimo di quelle ciglia,
della luce dorata di quegli occhi, della linea ferma ed alata di
quelle labbra, del collo bianchissimo e sottile che si allungava come
una snella colonna nelle acque della tunica rosa.
Ancora non
sapeva Marcellino, che la tunica rosa e la divisa dei Beati...
Ma sapeva,
questo si, che Elvira era solamente sua e di nessun altro, madre sua
e di nessun altro e che apparteneva a lui solo oltre che a Dio, al
quale tutti apparteniamo: e ciò lo riempiva di un gaudio e di una
felicità mai provati.
Frattanto
Marcellino, che camminava quasi materialmente agganciato alla
madre, non vedeva né sentiva per il momento l'infinito succedersi di
nuove luci che solcavano i Cieli e inondavano coloro che incedevano
lungo il cammino.
Allora sua
madre cominciò a parlargli, senza lasciargli mai la mano; il
bambino non aveva occhi che per lei e pensava che durante la sua vita
terrena aveva visto molte donne nei villaggi, ma bene bene bene aveva
osservato soltanto i ritratti della Madonna, e quella sera la madre
di Emanuele e, infine, poco prima, sua zia Michela,
La madre
parlava e Marcellino ricordava in tutti i particolari quanto gli
aveva detto Gesú sulle mamme e provava la medesima emozione di
allora; anzi, ora, l'emozione era un po' piú forte perché
constatava e intuiva chiaramente che Gesù non lo aveva ingannato e
che le mamme non solo erano belle buone e capaci di dare ai loro
figli tutto ciò che serve a nutrirli e a proteggerli dalle
intemperie, ma anche molto di piú: fino al punto di sacrificare per
essi la loro vita e la luce dei propri occhi, si da rimanere brutte,
vecchie e cieche.
La voce di
Elvira risuonava sopra tutti questi pensieri come una graziosa
pura voce di bimbo, mentre la luce cresceva cresceva, quasi
fosse una musica silenziosa: ed era la stessa Gloria che
penetrava profondamente nell'anima di Marcellino.
- Né io né
tuo padre volevamo abbandonarti, figlioletto mio, eppure
andò cosí...
E Marcellino,
come ridestandosi e prendendo parte al racconto, aggiunse -
Chissâ quanto ti facesti male a cadere nel precipizio... La
madre però con voce ancora più soave e dolcissima, gli rispose: -
Nessun male, Marcellino. Oh! Dio volle che tu ti chiamassi come mio
padre. Sai, figlio mio: dal burrone nel quale ero caduta con la
nostra asina, che si chiamava « Perla », salii subito quassù...
E continuò a
raccontargli tutta la sua storia: come un giorno dovettero fuggire e
poi fossero inseguiti dai banditi e come la zia Michela avesse
consegnato a suo padre una piccola borsa in cui tintinnavano poche
monete d'argento.
- Per il
viaggio! - aveva mormorato Michela. - E Dio ti benedica, povero
piccolo! - aveva aggiunto, inchinandosi sull'involto che Elvira
sorreggeva amorevolmente fra le braccia.
Senza
profferire altre parole, Claudio, il babbo suo, aveva preso per mano
la cavezza dell'asinella, che si chiamava « Perla », perché era di
un colore grigio chiaro, e s'erano messi in cammino nella notte nera.
I banditi,
infatti, avevano giurato di uccidere Claudio e di sterminare la sua
famiglia perché prima s'era rifiutato di essere loro complice in un
grosso furto in paese e li aveva inoltre denunciati, affinché non
riuscissero nemmeno loro nel malvagio intento. Passammo molti
giorni in viaggio, - proseguiva Elvira, - dormendo di giorno in
qualche luogo appartato e camminando sempre di notte.
Ella era
estenuata dalla fatica e dalla debolezza, e faceva sforzi sovrumani
per seguire il marito e per alimentare come poteva la sua creatura.
Le poche monetine di argento stavano già per finire, perché ogni
giorno, all'imbrunire, il babbo andava a comprare l'indispensabile
per vivere: pane, formaggio, un po' di vino, o qualcosa del genere.
Un giorno,
sfiniti dalla paura e dalle sofferenze, dal terrore e dalla mancanza
di riposo, Claudio entrò come sempre in un paese, prima che
annottasse, per comprare con le ultime monete rimaste qualche cosa da
mangiare. Lasciò l'asinella nella piazza, con a cavallo madre e
figlio, ed entrò in un negozio. «Perla » cercava invano di mordere
il fango dello spiazzato e il bambino se ne stava tranquillo e
silenzioso in braccio alla madre.
Finalmente
Claudio usci dal negozio. Portava un pezzo di pane e una bottiglia di
vino ed anche delle sardine. Afferrò la cavezza e, consegnate le
provviste ad Elvira, si incamminò. Era già notte quando arrivarono
in aperta campagna. Una breve sosta per mangiare e ripresero
subito il viaggio.
I banditi
però disponevano di cavalli e non portavano appresso né donne
né bambini, perciò Claudio pensava che se avessero potuto lasciare
il bambino in qualche luogo sarebbe stato piú agevole fuggire; ma
non aveva il coraggio di dirlo a Elvira. Fu allora che lontano si
vide una specie di casolare in aperta campagna e a Claudio parve il
posto ideale per lasciarvi il piccino. Ma non conosceva quelle terre
e non vedeva l'ora di raggiungere le montagne vicine per nascondersi
meglio.
Elvira
continuava il suo racconto senza lasciare mai Marcellino, che pendeva
dalle sue labbra. Quello, dunque, che a loro era parso un casolare o
una masseria, si trasformò, man mano che si avvicinavano, in un
convento.
« Tanto
meglio », argomentò in cuor suo il padre e dette una tiratina alla
cavezza per far accelerare il passo a «Perla ». Poi, con un dire
dolce e fermo ad un tempo, si studiava di convincere sua moglie ad
abbandonare il bambino alla porta del convento, perché nessuno
meglio di quei frati o di quelle monache si sarebbe potuto occupare
di lui.
- Il mio
bambino non ha un nome; non è neppure battezzato, - obiettava la
madre con un nodo alla gola.
- Ma glielo
metteranno essi, il nome, - replicava Claudio.
- Io... io
avrei tanto desiderato di mettergli il nome di mio padre, -
singhiozzava la madre, stringendosi fortemente al petto la sua
creaturina.
Giunti vicini
al convento, Claudio provò a prendere il bambino dalle braccia della
donna, ma questa lo stringeva forte forte a se e ci volle del bello e
del buono perché cedesse alle insistenze del marito.
- Ascolta,
Elvira: La nostra vita è in grave pericolo; se ci prendono ci
uccidono ed io non voglio che uccidano il nostro bambino; neppure tu
lo vuoi, vero? E poi se ci salviamo possiamo sempre venire a
riprendercelo. Anzi, senti: potresti fermarti qui anche tu e
nasconderti col bambino ed io me ne andrò solo...
- Ma sai bene
che voglio essere con te sino alla fine, - diceva Elvira.
E cosí, di
li a poco, su « Perla » c'era soltanto la madre. Ella si gettò
bocconi sul collo della bestia, si copri il capo con la coperta che
aveva sulle spalle e dette sfogo alle lacrime.
Nel frattempo
Claudio andò a deporre con ogni cura il bambino, che dormiva
tranquillamente, ai piedi della porta del piccolo convento e poi
tornò indietro in tutta fretta. Afferrò la cavezza dell'asino e si
diresse frettolosamente in senso contrario.
- Fu allora
che mi trovò il fratello Portinaio! - interruppe Marcellino.
Ma Elvira
sorrise e continuò il suo racconto.
Per giorni e
giorni, camminando sempre di notte, Claudio davanti e lei sull'asino,
dietro, percorsero tanta tanta strada. Per sfamarsi dovettero vendere
alla gente che incontravano lungo il cammino parte della biancheria
che portavano addosso.
Furono giorni
terribili quelli: Claudio aveva stampato in volto il terrore
della morte ed Elvira era disfatta dalla stanchezza, dalla pena e
dalla malattia. Unico desiderio di Claudio era di poter raggiungere
le montagne vicine per trovare un rifugio sicuro, racimolare
qualche soldo e poi fuggire lontano, dovunque fosse.
Ci vollero
ancora sei giorni di cammino per toccare le falde della
«Sierra». Poi cominciò l'estenuante marcia in salita, per gli
anfratti del monte. Già da due giorni si erano addentrati nella «
Sierra » e cominciò a piovere. La notte fu terribile: mangiarono
solo un pezzo di pane che Elvira aveva conservato. Poi la marcia
riprese lungo sentieri sempre più tortuosi e scoscesi, sotto la
pioggia scrosciante.
Giunti vicino
ad un albero grandissimo, che faceva pensare alla bocca di una
spelonca scavata nel cielo, Claudio cambiò rotta. L'acqua aveva
reso impraticabili quei viottoli e le crepe e i burroni della
montagna rappresentavano un pericolo continuo. Elvira
si aggrappava fortemente al collo di « Perla » e Claudio, che
ora veniva dietro, sollecitava la povera bestia, con arrí! e con
manate sulla groppa.
Improvvisamente
« Perla » scivolò sulle pietre umide e lucenti del sentiero: si
udí un urlo agghiacciante e l'asina ed Elvira rotolarono
vorticosamente lungo la china brecciosa e scomparvero nella voragine.
- E di li,
come già ti ho detto, - concluse Elvira, - salii dritta quassù e
Claudio tuo padre poté salvarsi e fuggire lontano dalla Spagna e
ancora vive e prega per noi. Ha sempre te nel cuore, povero papa! Per
questo egli non è ancora qui; ora tocca a noi pregare molto per lui,
affinché continui ad essere buono ed un giorno possa raggiungerci.
- Io lo potrò
chiedere a Gesú, - disse Marcellino. Camminavano stretti l'uno
all'altra ed Elvira continuava a dirgli quanto avesse pensato a
lui e pregato per lui e come un giorno si fosse rassicurata che le
sue orazioni avevano dato un frutto veramente inaspettato. Quanto
bene gli volevano infatti i frati! Bastava vedere certe piccole
attenzioni, per convincersene. Ad esempio, si era mai accorto che
nella sua stanzetta del convento, e per essere piú precisi sul
davanzale della finestra, ogni giorno appariva un nuovo mazzo di
fiori silvestri?
Marcellino
rispose di si, che se n'era accorto; ed Elvira gli domandò allora se
sapeva chi fosse stato a portarceli, con quella costanza e premura.
Poiché il bambino faceva segno di no, che non lo sapeva, la mamma
sua aggiunse semplicemente, con amoroso sorriso:
- Era fratel
Tommaso, quello che tu chiamavi fra Pappetta.
In quel
momento l'Angelo di Marcellino intervenne e tentò di riprendere per
mano il fanciullo, mentre Elvira pian piano rimaneva indietro con gli
altri.
Marcellino
resistette, non avrebbe voluto staccarsi dalla mamma; e allora
l'Angelo gli spiegò che ormai Elvira l'avrebbe avuta sempre vicino!
Per consolarlo, gli fece un gesto come se lo accarezzasse. Poi gli
prese la mano con fermezza e disse:
- Guarda un
po' che cosa avviene, Marcellino. Avanzava infatti una luce
meravigliosa e il piccino, dopo aver guardato una o due volte verso
la madre come per assicurarsi che li seguisse, fini per fissare lo
sguardo in avanti.
Era quella
una luce infinitamente maggiore delle precedenti e Marcellino,
ammiccando un poco con gli occhi, richiamò alla mente tutte le
domande che si era proposto di fare a Gesù perché, pensava, forse
in mezzo a quella luce veniva proprio il suo Amico della soffitta. In
quel medesimo istante risuonò una dolcissima voce d'uomo. Marcellino
guardò attentamente e scorse la figura di un frate piccolo e magro,
con la barbetta, tutto vestito di porpora, che esclamava:
- Mio piccolo
fratello Marcellino!
Altri frati
seguivano quel piccolo frate e Marcellino si accorse che ciascuno
aveva il suo Angelo al fianco. Il primo frate però, che era il più
piccolo, ne aveva cinque. Nonostante che il fraticello fosse alquanto
trasfigurato da tutta quella luce, il bimbo lo riconobbe: - Tu
sei San Francesco! - gli disse.
Mentre
pronunciava queste parole, avvertí la lieve pressione delle mani
dell'Angelo sulle sue spalle; allora s'inginocchiò come già davanti
a S. Marcellino e i suoi pensieri volarono non si sa dove. Il Santo
intanto lo accarezzava e gli diceva:
- Ti ho
seguito e ti ho visto sempre da quassù, Marcellino, e il Signore sa
bene quanto avrei voluto vederti frate minore; ma è certo ancora
meglio, che tu sia l'amico del Signore...
Marcellino
non si intimoriva affatto davanti al Santo; anzi, gli sembrava uno
dei tanti frati del suo convento e, forse, rassomigliava a fratel
Dindon, che era tanto piccolo.
Fratel Dindon
però era assai meno bello, e inoltre San Francesco aveva le mani e i
piedi gloriosamente feriti: ciò gli faceva tornare alla mente le
storie che aveva ascoltato dai frati e soprattutto da fra Pappetta.
Di punto in bianco domandò allora al Santo:
- Sta qui con
te anche fra Giovan-sangiovanni? Il Santo sorrise e disse
- Certamente;
ma non è tra coloro che mi circondano: questi sono i frati che
con me fondarono l'Ordine.
Quando ormai
tutti s'erano incamminati, San Francesco gli raccontò la storia
del fratello Giovanni, che egli stesso aveva battezzato col nome di
San Giovanni e che alla fine tutti chiamarono Giovansangiovanni.
Questo frate, dunque, era di tale semplicità e santità che non
faceva altro che imitare lo stesso San Francesco e nelle chiese
restava lungo tempo impalato davanti a lui per vedere come si
comportava per poi imitarlo in tutto, proprio come avrebbe fatto una
scimmia.
La qual cosa
poteva apparire ridicola, ma in fondo in fondo era la Grazia di Dio
che lo spingeva ad agire così: perché tutto quel che faceva S.
Francesco era lodevole e da imitarsi.
Marcellino
usciva in belle risate, all'udire questa storia. Cammin facendo,
disse a San Francesco che anche lui sulla terra lo aveva pregato
tanto e si ricordava perfino che gli piacevano tanto le mandorle
zuccherate: le quali, però, piacevano molto di piú a lui.
San Francesco
sorrise di nuovo e il bambino intanto si mise a contare gli Angeli:
ma non ci riusciva poiché dietro ne venivano molti; ce n'erano ben
diciassette solo con San Francesco e con i suoi frati, e nessun
Angelo somigliava all'altro.
C'era
dappertutto un'aria strana di mistero, eppure tutto era infinitamente
dolce.
Marcellino,
ora che non aveva piú le orecchie del corpo, udiva il suo Angelo
molto meglio di quando le aveva avute belle grandi e, assai spesso,
sporchine.
Si vedeva
ora, in alto, un'altra imponente massa di luce che avanzando cresceva
a vista d'occhio.
Marcellino,
che pur sapeva di non aver pelle né ossa né sangue, aveva
l'impressione di sentir crescere in petto un desiderio piú vivo
degli altri; volse una rapida occhiata alla madre che lo seguiva,
poi, come per forza fu spinto a guardare avanti a sé.
Già San
Francesco ed i suoi erano rimasti un po' indietro e per il cielo
volavano sempre piú numerosi gli Angeli Messaggeri; allora,
sull'aria leggiera e divinamente profumata, Marcellino, fuori di
sé dallo stupore, cominciò ad ascoltare i primi cantici che
annunciavano la presenza di persone molto piú importanti di tutte
quelle già viste, messe insieme.
Era forse
Gesú? Marcellino, chiudendo gli occhi e serrando le labbra che ormai
erano solo di luce, con un grande sforzo di volontà si propose
nuovamente che, se ora avesse visto finalmente Gesú, gli avrebbe
detto in fretta e magari con gli occhi chiusi tutto ciò che per
l'innanzi era andato pensando; soprattutto, gli avrebbe parlato per
prima cosa di suo padre e poi dei frati e, infine, del Cielo dei
poveri animali.
Non era però
ancora Gesù, quello che veniva, e fu la forza stessa della luce che
costrinse il ragazzo ad aprire gli occhi.
Allora
intravvide qualcosa che lo colmò di meraviglia (e pensare che
non era « la cosa più meravigliosa » perché non era ancora Gesù).
Vide dunque un immenso Trono sul quale scaglionate si allineavano
innumerevoli schiere di Angeli e alla fine, o in mezzo o dove Dio
avesse voluto (poiché Marcellino si sentiva incapace di precisarne
in qualche modo il posto), si notava una Figura purissima, la cui
maestà superava quella di tutte le altre figure e delle altre luci.
Il bambino
sbatté più volte le palpebre abbagliato quasi dallo splendore; poi
capi che li c'era la bellissima Vergine Maria.
Ella appariva
molto in alto e al tempo stesso a portata di mano, vicina e insieme
lontanissima, e le sue vesti immacolate formavano, sfumando
dolcemente, la corolla di una rosa azzurra di bellezza
indescrivibile. Marcellino, da solo, senza il consiglio di nessuno
(benché già da un pezzo il suo Angelo avesse ripreso il suo posto
di guida), si inginocchiò estasiato: ma poco gli servivano i suoi
begli occhioni a racchiudere tanta bellezza.
Pian piano si
rendeva anche conto che alcuni di quei cantici non erano nuovi: li
aveva infatti ascoltati altre volte (naturalmente come potevano
essere cantati, laggiù sulla terra) dalla voce rude e secca dei
frati, accompagnati dal miagolio dell'armonium del convento.
Guardando sempre meglio, poiché le sue pupille già sature di luce
si andavano abituando all'inusitato fulgore, Marcellino poté
osservare che solo la Madonna era diversa da tutti gli esseri finora
veduti. La luce non l'attraversava, come attraversava tutti gli altri
sembrava invece che tutta la luce fosse diffusa, apposta per
illuminare Lei.
Infatti la
Madonna aveva anche il corpo ed era un essere completo, come lo
saremo tutti dopo il Giudizio finale.
Marcellino
rimase molto sorpreso perché non sapeva, benché forse qualche volta
i frati gliel'avessero spiegato, che la Vergine era stata Assunta in
Cielo, corpo ed anima da un grande coro di Angeli.
Confrontandosi
alla Madonna, Marcellino poté meglio comprendere cosa volesse
dire essere « senza corpo »; ma si accorse per la prima volta, che
non gli era affatto necessario.
Poi vide che
tutto quel Trono immenso e quasi ardente di luce non si muoveva piú,
forse era lui ora che, cosí inginocchiato com'era, faceva ormai
parte del dolce moto di quell'ineffabile splendore.
La Vergine,
poi, appariva vicinissima e sembrava che lo guardasse. Marcellino era
tanto emozionato che non seppe che fare o che dire, fin quando si
ricordò, per fortuna, della preghierina che le recitava sulla terra.
Però non sapeva se dovesse ripeterla, perché quella orazione
diceva: «Vergine Maria, proteggimi ché sto solo » ed ora invece,
non stava affatto solo, ma con sua madre e con altri amici, con i
Santi e gli Angeli che ormai - in assenza del Padre Superiore, di fra
Pappetta e di tutti gli altri frati - costituivano la sua famiglia; e
poi c'era anche la Madonna, che era la Madre di tutti. Meno male che
ad un certo momento gli sembrò si facesse un silenzio generale! Cosí
fecero in tempo a tornare alla sua memoria alcune parole delle
litanie del Rosario: quel Rosario che i frati recitavano spesso e al
quale ogni tanto egli pure doveva assistere a malincuore e mezzo
addormentato.
Allora disse
piano piano, come se parlasse a se stesso - Vas spirituale.
E queste
parole risuonarono invece in tutta l'immensità dei cieli.
Poi ricordò
ancora e soggiunse - Domus Aurea.
E finalmente
concluse: - Ianua coeli...
Era come se
quelle parole sapessero di latte e miele. Aveva detto «vaso
spirituale, casa d'oro, e porta del Cielo », insomma cose semplici e
belle, e la Madonna era rimasta a guardarlo fisso e a lui sembrò di
vederla anche sorridere.
Svanita la
prima emozione, il vispo bambinetto credette giunta l'ora di
domandare alla Vergine qualcosa dei frati e di suo padre, lasciando
per il momento da parte il progetto, lungamente accarezzato, sul
Cielo degli animali.
Purtroppo
però le musiche e i canti ricominciarono, ed egli rimase si con la
certezza che la Madonna lo avesse guardato con i suoi occhi
preziosissimi, ma nulla piú. Non aveva neppure sentito la Sua voce.
Ma non si sgomentò, mentre tutto l'immenso Trono si metteva in moto,
pensò che in seguito non gli sarebbe mancata l'occasione di parlare
con Lei, e che la Madonna stessa avrebbe certo avuto piacere di
rivolgergli qualche volta la parola.
Fu l'Angelo
che per primo distolse Marcellino dai suoi pensieri e, prendendolo
per mano, gli disse di alzarsi e di seguirlo. Marcellino poté allora
lanciare uno sguardo furtivo verso la madre per sincerarsi che
ancora lo seguiva, insieme a tutti gli altri Santi e agli amici
e agli Angeli e si avvide, con sua grande sorpresa, che l'enorme
Trono della Madonna non rimaneva dietro a lui ma gli andava sempre
avanti e sembrava tutt'uno con una specie di vulcano di luce, senza
principio né fine, che lentamente si avvicinava.
Allora
istintivamente Marcellino si coprí gli occhi con le mani; ma il
gesto a nulla valse, perché i fulgori e i raggi continuarono a
sfavillare ugualmente nelle sue pupille, mentre il suo cuore di luce
provava già la dolcissima apprensione di essere sul punto di vedere
il Signore e cominciava a dimenticare ogni altra cosa.
Quel mare di
luce era intanto cresciuto prodigiosamente e Marcellino ripensò
subito al sole della terra e comprese che la luce di laggiú sarebbe
parsa, al confronto, un'ombra sbiadita, come una cosa opaca.
I veli della
fede, che con la sua morte avevano iniziato a squarciarsi (come
in altri tempi sulla terra si erano squarciati quelli del tempio di
Gerusalemme), a quella vista caddero completamente a pezzi, ed il
bimbo poté rimanere in sí estatica contemplazione che la sua anima
era incapace di seguire le fasi di quella scena indescrivibile.
Vide le
infinite legioni di Angeli e tutte le Potestà del Cielo e tutti i
Serafini dalle sei ali e tutti i Santi e i Martiri, adoranti le
Persone Divine che si scorgevano lassú, inaccessibili e pur vicine:
proprio come gli era avvenuto prima con la Madonna, la quale ora
sedeva vicinissima alla Trinità di Dio.
Marcellino,
se avesse potuto e se fosse riuscito ad allontanarsi per un istante
dalla suprema grandezza di Dio, da quella smagliante bellezza e da
quello splendore irresistibile, avrebbe ricordato forse il soffitto
basso basso della modesta Cappella del suo convento e le sedie
tentennanti e anche l'armonium scordato di frate Merlo.
In mezzo a
quella luce, anzi, come se addirittura lo splendore della luce fosse
a lui soltanto rivolto tra tanta folla, udí una voce senza uguali.
Era una voce da lui già conosciuta, ma che ora risuonava diversa
nella sua Gloria: non era piú la voce di uno che ha sete, o che ha
fame; e tra quel che diceva il bambino poté afferrare soltanto
queste poche parole:
- ... perché
ebbi fame e tu mi desti da mangiare, ed ebbi sete e tu mi desti da
bere.
Allora
Marcellino, che già da molto tempo, senza accorgersene, stava in
ginocchio, alzò i suoi occhi fin verso la fonte stessa della luce e
contemplò, faccia a faccia, tra altri volti sublimi, il viso del suo
Amico della soffitta, che rifulgeva di gloria tra il quieto tumulto
degli Angeli.
Marcellino
non ne era accecato perché Gesú lo guardava sorridendo come quando,
in altri giorni, ormai cosí lontani, si abbassava dalla Croce e
mangiava senza smorfie il pane, spesso un po' insudiciato, che egli
amorosamente gli offriva.
Marcellino
però non pensava affatto a quei lontani momenti; neppure gli tornò
alla mente, ormai inebriata dalla visione, quello che prima si
era proposto di chiedere al Signore. Non pensò quindi né ai suoi
frati, né alle sue bestiole, né a suo padre e neppure a sua madre
che, essendo tra le anime beate scelte dal Signore dei Cieli, era
presente a tutto quello che accadeva. Capiva ormai, senza far
sforzi per capire (ma solo perché cosí Iddio aveva stabilito), che
nulla piú contavano quei suoi desideri e che d'ora innanzi
avrebbe potuto amar tutti, soltanto attraverso il Signore.
Cosí
Marcellino cominciò anche lui a cantare insieme agli altri e si
rese conto che il divino, e a lui sconosciuto motivo di quei canti,
lo stava imparando da solo, senza che alcuno glielo insegnasse.
In mezzo alla
forza viva di quella luce accecante e allo splendore delle anime
benedette li presenti, lo stesso Marcellino cominciava a mano a mano
ad acquistare una luce propria. Una luce che aveva il colore dei
campi in piena primavera, quando sono coperti dall'erba tenera e
fresca e sembrano piccoli cieli verdi staccati dal gran cielo azzurro
che li sovrasta.
Quello era il
colore dell'innocenza e se Marcellino Pane e Vino fosse stato solo,
avrebbe brillato come una stella verde sul mare.
Così, da
gran tempo, seppure con diversi colori, brillavano il frate
Portinaio, il buon Sindaco, Michela, l'Eroe e sua Madre Elvira, anche
se meno lucenti degli Angeli e dei Santi e di tanti altri che si
trovavano intorno al Trono di Dio.
Marcellino
non staccava gli occhi dall'altissima Maestà li presente e sentiva
tale felicità che nulla sarebbe stata qualsiasi altra cosa al
confronto.
Forse per
questo, non poté accorgersi che un vecchio frate dalla
lunga barba, anch'egli intimamente tormentato dal desiderio
infinito di Dio e accompagnato dal suo Angelo, gli passava vicino
quasi sfiorandolo. Né il frate scorgeva il bambino: ed era
quello stesso che nel convento fu l'unico a non poter vedere il
miracolo.
Era il Beato
frate Male, suo maestro, morto proprio allora, che veniva a godere la
meritata pace, e già toccava con le sue mani ossute la gloria
ben meritata del Cielo.
E ancor meno
poteva accorgersi, Marcellino, che in un altro luogo infinitamente
lontano e infinitamente piccolo, si udiva un sussurro leggerissimo
nella piccola notte dei mortali: era il sussurro della esile voce di
un uomo grasso e calvo che, guardando il cielo dalla finestra della
sua cella, attigua a quella ormai vuota del bambino, contava ad alta
voce alcune stelle rare e bellissime. Erano stelle grandi e piccine
che brillavano in cielo nella notte serena. Ed il buon frate le
enumerava dicendo
- Undici
stelle, dodici stelle, tredici stelle...
Poi d'un
tratto, si fermava e, con un gran sospiro, soggiungeva:
- Dodici stelle, e tredici con Marcellino.
JOSE MARIA SANCHEZ SILVA -
G. B. PARAVIA & C. 1956
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