Nei
primi decenni del 1800 a Riese, piccolo paese della campagna
trevigiana, nel quale l’agricoltura era l’attività
predominante, vivevano due sposi: Giambattista Sarto cursore comunale
e proprietario di un piccolo appezzamento di terreno, della casa che
abitava e di una mucca; e Margherita Sanson cucitrice, ma, come la
maggior parte delle donne di allora, illetterata, vuol dire cioè
che non sapeva nè leggere nè scrivere. In questa famiglia di
condizioni modeste, ma non misere, il 2 giugno 1835 nacque Giuseppe
Sarto, il futuro S. Pio X. Il giorno dopo la nascita, e cioè il 3
giugno, i genitori lo portarono al fonte Battesimale dove gli furono
imposti i nomi dei nonni: Giuseppe e Melchiorre. Egli crebbe, assieme
agli altri otto fra fratelli e sorelle, arrivati dopo di lui ad
allietare la casetta dei Sarto, come tutti i bambini di allora,
dividendo il suo tempo fra la chiesa, la casa e aiutando il papà
nel lavoro dei campi e nella consegna di qualche missiva alla gente
del luogo.
Dai
sette ai nove anni frequentò la scuola del paese, dove il maestro
Francesco Gecherle impartiva le più rudimentali nozioni di lettura,
scrittura e calcolo. Nel frattempo, però il Parroco di Riese, Don
Tito Fusarini e il cappellano, Don Pietro Iacuzzi, vista la buona
volontà e l’intelligenza del ragazzo, completarono la sua
preparazione culturale in modo tale ch’egli potesse frequentare il
ginnasio di Castelfranco. Questa scuola distava km.7 da Riese e il
nostro studentello per ben tre anni li percorse a piedi, con la
cartella di tela, preparata dalla mamma, a tracolla e, nella bella
stagione, anche scalzo per non consumare le scarpe. Solo nell’ultimo
anno il papà, avendo deciso che anche il fratello Angelo
frequentasse tale scuola, gli procurò un asinello e un calessino.
Pur
studiando a Castelfranco, Bepi, così lo chiamavano, continuava a
frequentare la parrocchia e a istruirsi nella dottrina cristiana.
A
10 anni, l’1 settembre 1845, ricevette la Santa Cresima dal Vescovo
G. Battista Canova ad Asolo e il 6 aprile 1846 fu ammesso per la
prima volta alla Santa Comunione nella chiesa parrocchiale del paese
natio.
Vicino
a Riese c’era, e c’è ancora, un santuario dedicato alla Madonna
Assunta. Lì mamma Margherita aveva portato il suo figliolo fin da
piccolo a pregare la Mamma Celeste e lì lui si recava spesso, da
solo o con gli amici nei momenti liberi dagli impegni scolastici.
Tornando, saliva su uno degli alberi che c’erano ai lati del
Curiotto (piccola strada campestre) e istruiva i suoi compagni sulle
verità della fede o intesseva le lodi della Madonna. Un giorno,
tornato da una di queste visite all’amato santuario, si avvicinò
alla mamma e, con gli occhi sfavillanti di gioia, le disse: «Voglio
farmi prete. Ho capito che questa è la mia strada oggi mentre
pregavo all’altare della Madonna». Farsi prete! Era un problema.
Come avrebbe potuto suo padre, con quella nidiata di figli che aveva
da mantenere, pagare la retta del seminario? Bepi non si scoraggiò.
Pregò tanto e il Signore venne in suo aiuto. Era in quegli anni
Patriarca a Venezia il Card. Iacopo Monico, anch’egli nativo di
Riese.
Questi
gli procurò un posto gratuito nel seminario di Padova, dove potè
entrare il 13 novembre 1850. Tutto procedeva bene. I superiori lo
stimavano e lo consideravano uno studente modello. Ma il 4 maggio
1852 la morte bussò alla porta della casetta di Riese e si portò
via il padre. Bepi tornò in famiglia per partecipare ai funerali.
La costernazione di mamma Margherita fu grande. Rimaneva sola,
privata della modesta paga del marito, con i figli da mantenere.
Qualche parente osò dire che sarebbe stato bene che Bepi lasciasse
il Seminario e prendesse il posto del padre: così sarebbe stato
d’aiuto alla famiglia. «Ma io voglio diventare prete» disse
piangendo il giovane chierico. «E prete diventerai. Ci aiuterà la
Provvidenza» rispose la mamma. Così lui tornò in seminario. La
brava donna aiutata dalle figlie lavorò giorno e notte da sarta
ricevendo, dalle donne del paese, compensi in natura, più che
denaro. Furono per lei e per i figli anni di duri sacrifici, ma il 10
settembre 1858 ebbero la gioia di vedere il loro caro ordinato
sacerdote, nel Duomo di Castelfranco Veneto, dal Vescovo G. Antonio
Farina. Il giorno successivo il novello prete celebrò la prima
Messa solenne nella chiesa parrocchiale di Riese. Tutta la
popolazione era in festa e, per l’occasione, venne inaugurato un
tabernacolo (capiteo) dedicato alla Vergine Immacolata. «Ora sei Don
Bepi» gli disse la madre e, per rispetto alla dignità di cui era
insignito, volle che le sorelle sostituissero il “tu”, fino
allora usato nel trattarlo, con il “voi”. Poco dopo il vescovo lo
nominò cappellano di Tombolo dove era parroco Don Antonio
Costantini, ottimo sacerdote, ma molto malato. Don Giuseppe lo
assistette con amore filiale e con il rispetto dovuto a un suo
superiore. Gli abitanti di Tombolo che, oltre a lavorare la terra,
frequentavano i mercati facendo i mediatori e i paratori di bovini,
avevano il maledetto vizio di bestemmiare. Il buon cappellano studiò
il modo di sradicare questa brutta abitudine. Molti di loro non
sapevano nè leggere, nè scrivere, nè far di conto. Egli aprì
una scuola serale dove tutti potevano essere accolti. Come ricompensa
chiese solo che smettessero di bestemmiare. Dedicava tutto se stesso
al bene del popolo. Si alzava presto al mattino, celebrava la S.
Messa, attendeva alle confessioni, poi andava in giro ad aiutare chi
aveva bisogno e, pur guadagnando pochissimo, dava generosamente ai
poveri. Non è da meravigliarsi dunque che fosse tanto benvoluto dai
Tombolani. Ma, allo scoccare del nono anno di permanenza in mezzo a
loro, dovette lasciarli perchè fu nominato Parroco di Salzano.
Vedremo in seguito che il numero 9 sarà fatidico nella vita del
sacerdozio di Don Giuseppe Sarto. Mentre i Tombolani erano desolati
per la partenza del cappellano, gli abitanti di Salzano furono poco
soddisfatti del nuovo Parroco. Abituati ad avere dei professori, dei
monsignori e dei parroci provetti, questo ex cappellano di trentadue
anni, che fece il suo ingresso il 13 luglio 1867, alla chetichella,
di sabato sera, non incontrò, sulle prime, il loro favore. Ma i
fatti successivi cambiarono le impressioni della prima ora. Don
Giuseppe si rivelò ben presto un ottimo Parroco. Instancabile
confessava, predicava, assisteva gli infermi. Il grano, la legna,
talvolta anche il suo stesso desinare erano a disposizione dei
poveri. Per il bene del popolo collaborò con l’amministrazione
comunale: fu presidente della Congregazione di Carità, direttore
delle scuole comunali e sopraintendente scolastico e anche qui, come
a Tombolo, contribuì in modo efficace a combattere l’analfabetismo.
Per rendere più facile l’apprendimento delle verità della fede
compose il cosidetto “Catechismo di Salzano”. Si tratta di due
quaderni, scritti a mano, pieni zeppi di domande e risposte. Nel 1873
l’epidemia di colera che scoppiò nel Veneto, arrivò anche a
Salzano. Don Giuseppe corse di giorno e di notte dove maggiore era il
pericolo, a confortare, ad amministrare i sacramenti, a distribuire
sussidi. Un giorno, recatosi a prelevare un morto, dovette constatare
che, per portare il feretro, vi erano solo tre persone. Non si
scompose. Benedì la salma, recitò le preghiere e, in cotta e
stola, supplì il quarto come fosse la cosa più naturale del
mondo. Passata l’epidemia ci fu chi disse: «In quei giorni
tremendi se non ci fosse stato l’Arciprete saremmo morti di paura e
di dolore». Ma ormai erano nove anni che Don Giuseppe era Parroco di
Salzano e, come abbiamo detto già, il numero 9 segnava una svolta
nella sua vita. Venne così anche l’ora di lasciare Salzano. Il 27
novembre 1875, chiamato dal Vescovo, dovette trasferirsi in Curia, a
Treviso, dove occupò contemporaneamente tre uffici: Canonico del
Duomo, Cancelliere della Curia Vescovile e Direttore Spirituale dei
chierici del Seminario Diocesano. Tre incarichi importanti che
richiedevano impegno e sacrificio. Spesso per arrivare a tutto si
privava del passeggio e stava alzato di notte. Talvolta il cameriere,
entrando la mattina nella sua camera per rifargli il letto lo trovava
addirittura intatto. Con tutto ciò riusciva ad andare spesso a
tenere importanti corsi di predicazione nei paesi e nelle città
vicine perchè voleva obbedire all’ordine di Gesù: «Andate,
predicate il Vangelo a tutte le genti» ma anche per guadagnare
qualcosa per aiutare i poveri che non mancavano neppure a Treviso. Un
giorno gli si presentò un seminarista in lagrime: la sua famiglia
doveva pagare presto un debito, altrimenti veniva sfrattata da casa.
«Quanto ti occorre?» gli chiese. «Centocinquanta lire» rispose il
ragazzo. Per quei tempi si trattava di una grossa somma. Mons. Sarto
non l’aveva. La chiese in prestito e gliela diede. Lavorando così
per il Regno di Dio rimase anche a Treviso nove anni. Nel novembre
1884 il Vescovo di Treviso, Mons. Apollonio, lo chiamò nel suo
ufficio e gli disse: «Inginocchiatevi davanti a questo Crocifisso
perchè vi devo dire una cosa importante. Nel Concistoro del 10
scorso il Santo Padre vi ha nominato Vescovo di Mantova». Mons.
Sarto, nella sua umiltà, si sentiva indegno. Pianse, pregò,
scrisse persino alla S. Sede per essere dispensato da tale incarico,
ma alla fine dovette rassegnarsi. Il 16 dello stesso mese, a Roma,
veniva consacrato Vescovo e il 19 aprile 1885 faceva il suo ingresso
solenne nella cattedrale di Mantova. Si interessò subito del
seminario che era rimasto chiuso dal 1870 al 1880, si impegnò per
la musica sacra, tenne due visite pastorali. Benchè Vescovo si
comportava come da Cappellano e da Parroco: predicava molto,
ascoltava le confessioni, sbrigava da sè gli affari più
importanti della Curia e quasi tutta la corrispondenza. E continuava,
come sempre, ad aiutare i poveri. Un giorno gli si presentò un uomo
a chiedergli “qualche cosa” per la moglie ammalata e Lui, per far
più presto a dargli la carne, gli diede la pentola e tutto.
Nonostante ciò ci fu un disgraziato che osò scrivere, su un
giornale, un articolo cattivo contro di lui. Il Vescovo, venuto a
conoscerne il nome, non solo lo perdonò, ma disse: «Credo che quel
poveretto abbia più bisogno di preghiere che di castighi». Dopo un
po’ di tempo quel tale ebbe un grave rovescio di fortuna e cadde
nella miseria. Mons. Sarto gli venne in aiuto, ma non volle mai che
sapesse ch’era stato lui a porgergli la mano nel momento del
bisogno. Purtroppo, però, si avvicinava il nono anno da che era
Vescovo di Mantova e chi sapeva “la storia del nove” cominciava a
nutrire dei dubbi e dei timori. L’eco della virtù di Mons. Sarto
arrivò fino a Roma e il Papa, che era allora Leone XIII; il 12
giugno 1892 lo fece Cardinale e nel successivo Concistoro lo nominò
Patriarca di Venezia. Per ragioni politiche, però, non potè
entrare subito nella Diocesi assegnatagli e continuò a fare il
Vescovo di Mantova con la consueta assiduità di prima. Nel mese di
ottobre si recò a Riese per trovare la mamma. Siccome ella, essendo
malata, non potè recarsi in chiesa ad assistere alla Messa solenne
celebrata dal figlio, Lui indossò gli abiti cardinalizi in casa
soltanto perchè lei potesse vederlo. La buona donna, meravigliata,
lo guardò e gli disse: «Bepi, te si tutto rosso».
E
lui, commosso: «E vu mamma si tutta bianca». Finalmente il 24
novembre 1894, essendo state risolte le ragioni politiche, potè
fare il suo ingresso trionfale a Venezia. Anche qui lavorò con zelo
per il bene del popolo che tanto amava. Fu attento ai bisogni dei
poveri cogliendo ogni occasione per far del bene. Si racconta che una
notte, vestito da semplice prete, fu visto portare il materasso del
suo letto a una povera donna malata che giaceva in un mucchio di
stracci. Ma due fatti importanti, avvenuti durante il periodo che
Egli rimase a Venezia, meritano di essere ricordati. Il primo
riguarda la salita del Patriarca, precisamente il 4 agosto 1901,
sulla vetta del Monte Grappa, sul dorso di una mula bianca, per
l’inaugurazione di un sacello e la benedizione di una immagine
della Madonna. Il secondo la caduta del campanile di S. Marco
avvenuta il 14 luglio 1902, per fortuna senza danno di persone, e la
benedizione della prima pietra di quello attuale. Il 20 luglio 1903,
moriva il Papa Leone XIII e il Cardinale Sarto dovette partire per il
Conclave (assemblea di Cardinali che si tiene a Roma per l’elezione
del nuovo Papa). Nemmeno a farlo apposta stavano per compiersi i suoi
nove anni di apostolato a Venezia. In quel Conclave, a 68 anni di
età, fu eletto Papa il 4 agosto 1903. Dopo aver scongiurato
piangendo i Cardinali a scegliere una persona più degna, disse:
«Accetto la Croce» e scelse di chiamarsi Pio, perchè così si
erano chiamati i Papi che avevano maggiormente sofferto. Questo fu il
programma del suo pontificato: «Incentrare tutte le cose in Cristo»
e per attuarlo lavorò molto. La domenica raccoglieva nel cortile di
S. Damaso i ragazzi e i bambini di Roma e spiegava loro il
catechismo. Ben presto si ebbe poi per tutta l’Italia il “Testo
unico” che fu chiamato il “Catechismo di Pio X” perchè
preparato e voluto da Lui. Ma perchè i cristiani fossero veramente
tali volle che si accostassero più spesso alla Comunione.
“L’Eucaristia è il centro e l’anima della vita cristiana e
della Chiesa” diceva. Il 20 dicembre 1905 scrisse un decreto “su
la Comunione frequente” con il quale raccomandava vivamente a tutti
i fedeli di ogni ordine e condizione di accostarsi al Banchetto
Eucaristico con frequenza, anche quotidianamente e l’8 agosto 1910
emanò un decreto che permetteva ai bambini di accostarsi presto a
Gesù e non aspettare, come succedeva allora, fino all’età di 12
o anche 13 anni. Per questo venne chiamato “Il Papa
dell’Eucaristia”. Molte sono le lettere Encicliche ch’egli
scrisse, come molto è il bene operato verso i poveri. «Ad essere
Papa ho un gran vantaggio e cioè che per aiutare i poveri non sono
costretto a fare debiti» diceva. Stette sul colle Vaticano per
undici anni. Ma quando sul cielo dell’Europa si profilò lo
scoppio della prima guerra mondiale il suo cuore non resse. Il
pensiero che i suoi figli si sarebbero uccisi gli uni gli altri gli
causò tanto dolore e il 20 agosto 1914 morì. Il giorno dopo venne
aperto il suo testamento che cominciava così: “Nato povero,
vissuto povero, voglio morire povero” e col quale esponeva il
desiderio d’essere sepolto nelle grotte vaticane.
I
Romani, gli Italiani e il mondo intero quando appresero la triste
notizia dissero: «è morto un Santo». Molte grazie, addirittura
miracoli, furono ottenuti per sua intercessione. La Chiesa lo
proclamò beato il 3 giugno 1951 e il 29 maggio 1954 lo annoverò
alla schiera dei santi.
Dal
sito www.fondazionegiuseppesarto.it/
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