Due
ragazzine sudanesi di sette e dodici anni, traboccanti di vita e di
gioia, passeggiano attraverso i campi giocando. La natura, il futuro,
tutto sorride loro in questa primavera della vita. Nulla lascia
presagire un evento tragico. Fermandosi a raccogliere delle erbe per
la cucina, scorgono improvvisamente due uomini che si avvicinano a
loro. Uno dei due si rivolge alla più grande, e le chiede come un
servizio di lasciar andare la più piccola nel bosco per cercare un
pacchetto dimenticato. La piccola, nella sua innocenza, fa quello che
le viene chiesto e parte verso il bosco con i due uomini. Arrivata
nel bosco, si rende conto che non c'è nessun pacchetto. I due uomini
si avvicinano e la minacciano, uno con un coltello, l'altro con una
pistola: «Se gridi, sei morta! Vieni, seguici». Terrorizzata, la
bambina cerca di gridare, ma non ci riesce. Più avanti, i rapitori
le chiedono il suo nome; pietrificata dalla paura, non è in grado di
rispondere. «Bene, dicono, ti chiameremo Bakhita (che significa
«fortunata»), perché sei veramente fortunata». Agli occhi di
quegli uomini, c'era ironia nel chiamare «fortuna» quella che era
una disgrazia. Ma agli occhi di Dio, che dirige tutti gli avvenimenti
per il bene degli eletti, era davvero una fortuna inaudita per
Bakhita.
Bakhita
nacque nel Sudan verso il 1869 in una famiglia che conterà otto
figli, della tribù nubiana dei Dagiù; trascorre i suoi primi anni a
Olgossa, piccolo villaggio del Darfur nei pressi del Monte Agilerei.
È ancora molto piccola quando la sua sorella maggiore viene
rapita da trafficanti di schiavi – non è mai ritornata. Tocca ora
a Bakhita essere trascinata per lungi giorni, in una marcia forzata
su un percorso difficoltoso, con altre persone che, come lei, saranno
vendute come schiave. Per cinque volte verrà acquistata e poi
rivenduta sui mercati di El Obeid e di Khartoum; servirà diversi
padroni per una dozzina d'anni, in mezzo a sofferenze indicibili.
Presso uno di loro, particolarmente crudele, Bakhita viene picchiata
ogni giorno a sangue; da un altro, viene sottoposta al tatuaggio
riservato agli schiavi. L'operazione consiste nel tracciare con una
lama di rasoio dei disegni sul petto e l'addome; le piaghe aperte
sono poi riempite di sale per impedire la cicatrizzazione. Di tutti
questi maltrattamenti, conserverà per il resto della sua vita
centoquarantaquattro cicatrici.
Dentro
di me
Nonostante
i maltrattamenti, Bakhita si comporta con lealtà verso i suoi
padroni. Non si serve mai a loro spese, nemmeno quando è affamata.
Si sforza inoltre di eseguire fedelmente tutti gli ordini ricevuti,
per quanto duri e ingrati possano essere. In seguito, quando le verrà
chiesto se agisse così per obbedire a Dio, risponderà: «Non
conoscevo Dio, allora. Facevo così, perché sentivo dentro di me che
era in quel modo che bisognava fare». Bakhita obbediva alla sua
coscienza illuminata dalla legge naturale inscritta nel cuore di ogni
uomo: «Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è
lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire, spiega il Concilio
Vaticano II. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il
bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità
del cuore: «fa questo, evita quest'altro». L'uomo ha in realtà una
legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa
dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il
nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con
Dio, la cui voce risuona nell'intimità» (Gaudium et spes, n.
16).
Qualche
mese dopo il tatuaggio, il suo padrone, ufficiale dell'esercito
turco, deve rientrare nel suo paese. Non potendo portare con sé i
suoi schiavi, decide di venderli. Provvidenzialmente, Bakhita viene
acquistata, nel 1883, dal Console d'Italia a Khartoum, Callisto
Legnani. Ella racconterà: «Il nuovo padrone era assai buono e
si affezionò a me« Non ricevetti più rimproveri, percosse,
punizioni, per cui, di fronte a tutto questo, esitavo ancora a
credere a tanta pace e tranquillità ». Per la prima volta dal
giorno del suo rapimento, Bakhita non teme più lo staffile; anzi
viene trattata in modo affabile e cordiale. Nella casa del Console,
conosce la serenità, l'affetto e momenti di gioia, anche se ancora
velati dalla nostalgia della sua famiglia, persa per sempre.
Nel
1885, le vicende politiche costringono il Console a tornare in
Italia; desiderosa di rimanere al suo servizio, Bakhita viene
autorizzata a seguirlo. All'arrivo del diplomatico a Genova, un amico
gli esprime il desiderio della moglie incinta di avere una domestica
per aiutarla. Avendo il Console aderito alla richiesta, Bakhita entra
in una nuova famiglia, i Michieli. Alla nascita della bambina,
Bakhita è incaricata della sua educazione; più tardi, entrambe
vengono affidate alle Figlie della Carità, dette Suore Canossiane,
dell'Istituto dei catecumeni di Venezia. Un amico offre allora a
Bakhita un crocifisso d'argento. Al momento di darglielo, lo bacia
rispettosamente spiegando che Gesù Cristo è il Figlio di Dio e che
è morto per noi. Bakhita non coglie tutta la portata di queste
parole; tuttavia, presso le Suore impara a conoscere Dio che dalla
sua infanzia sente nel proprio cuore. Scriverà un giorno: «Vedendo
il sole, la luna e le stelle, dicevo tra me: «Chi è mai il Padrone
di queste belle cose?» E provavo una voglia grande di vederlo, di
conoscerlo e di rendergli omaggio».
Un
«Paron» tutto diverso
Nella
sua enciclica sulla speranza cristiana, Spe salvi, del 30
novembre 2007, papa Benedetto XVI ha evocato il cammino spirituale di
Bakhita: «Dopo «padroni» così terribili di cui fino a quel
momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un «padrone»
totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva
imparato, chiamava «paron» il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo.
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e
la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava
utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un «paron» al di sopra
di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo
Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo
Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli
la amava. Anche lei era amata, e proprio dal «Paron» supremo,
davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto
miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo
Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere
picchiato e ora la aspettava «alla destra di Dio Padre». Ora lei
aveva «speranza» – non più solo la piccola speranza di trovare
padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente
amata e, qualunque cosa accada, io sono attesa da questo Amore.
E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa
speranza lei era «redenta», non si sentiva più schiava, ma libera
figlia di Dio» (n. 3).
Bakhita
segue le tappe del catecumenato. A questo punto, la signora Michieli,
che sta per seguire il marito che deve tornare in Africa, decide di
riprendere la sua domestica. In virtù della libertà che le
garantisce la legge italiana, Bakhita dichiara di rinunciare a
tornare nel suo paese: desidera rimanere con le Suore Canossiane per
completare presso di loro la sua formazione cristiana. «Non posso
ritornare in Africa, dice, perché, se io lo facessi, questo
significherebbe l'abbandono della mia fede in Dio. Amo molto la mia
padrona e la sua bambina, ma non posso perdere Dio. Mi sono quindi
decisa a restare». Il 9 gennaio 1890, Bakhita riceve, dalle
mani del Patriarca di Venezia, i sacramenti dell'iniziazione
cristiana: Battesimo, Cresima ed Eucaristia, con il nome cristiano di
Giuseppina. Secondo un testimone che partecipa al pranzo di festa che
segue, Bakhita è trasfigurata: «Parlava poco, ma la felicità
irradiava da tutti i suoi gesti, da tutte le sue parole». Spesso, in
seguito, si vedrà Bakhita baciare i fonti battesimali dicendo: «Qui,
sono diventata figlia di Dio!» Di giorno in giorno cresce in lei
un'immensa gratitudine verso Dio che non ha cessato di tenerla per
mano per condurla a Lui. Sperimenta la verità della parola di san
Paolo: Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio (Rm
8,28). Infatti, un'analisi superficiale degli eventi non è in grado
di spiegare il destino di Bakhita: solo la fede dà loro un senso.
Come dice ancora Benedetto XVI: «Non sono gli elementi del cosmo, le
leggi della materia che in definitiva governano il mondo e l'uomo, ma
un Dio personale governa le stelle, cioè l'universo; non le leggi
della materia e dell'evoluzione sono l'ultima istanza, ma ragione,
volontà, amore – una Persona« La vita non è un semplice prodotto
delle leggi e della casualità della materia, ma in tutto e
contemporaneamente al di sopra di tutto c'è una volontà personale,
c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore»
(Spe salvi, n. 5).
Tutta
di Dio
Dopo
il suo Battesimo, Bakhita prosegue la sua formazione nella fede, e
ben presto sente la voce del Signore che la chiama a consacrarsi
totalmente a Lui. Il 7 dicembre 1893, viene accolta nel noviziato
delle Suore Canossiane, e l'8 dicembre 1896 pronuncia i suoi primi
voti religiosi, con il nome di suor Giuseppina, consacrandosi a Colui
che chiama familiarmente: «el me Paron!». Prima di essere ammessa
alla professione, per certificare che chiede liberamente di
impegnarsi, viene interrogata, come di consueto, dal Patriarca di
Venezia, il cardinal Sarto, futuro papa Pio X. Dopo averla ascoltata,
il prelato le dice con un bel sorriso: «Pronunciate i vostri voti
senza alcun timore. Gesù vi ama. AmateLo e serviteLo sempre come
avete fatto finora».
Qualche
anno dopo, una studentessa italiana chiederà a Bakhita ciò che
avrebbe fatto se avesse incontrato per caso coloro che l'avevano
rapita. Lei risponde senza esitazione: «Se io incontrassi i
trafficanti di schiavi che mi hanno rapita e anche quelli che mi
hanno torturata, mi inginocchierei e bacerei loro le mani. Se quello
che mi è accaduto non avesse avuto luogo, come sarei diventata
cristiana e religiosa?» Lungi dal nutrire sentimenti di odio nei
confronti dei suoi persecutori, Bakhita fa di tutto per scusarli.
Come Nostro Signore sulla Croce, lei prega per loro, perché non
sanno quello che fanno (Lc 23,34). Un giorno in cui viene fatta
allusione ai suoi rapitori, dice: «Provo pietà per loro.
Probabilmente ignoravano l'angoscia che mi hanno procurata. Loro
erano i padroni, io ero la schiava. Come è naturale per noi fare il
bene, così è naturale per loro fare come hanno fatto a me. L'hanno
fatto per abitudine, non per cattiveria».
L'atteggiamento
sorprendente di questa donna testimonia la presenza amorevole di Dio
in un mondo troppo spesso ingiusto. Durante una visita sull'isola di
Gorée al largo di Dakar, in Senegal, il 22 febbraio 1992,
papa Giovanni Paolo II evocava i milioni di africani deportati per
essere venduti in America: «Durante un intero periodo della storia
del continente africano, uomini, donne e bambini neri sono stati
condotti in questo piccolo luogo, strappati dalla loro terra,
separati dai loro congiunti, per esservi venduti come mercanzia...
Essi« sono stati vittime di un vergognoso commercio, a cui hanno
preso parte persone battezzate ma che non hanno vissuto la loro fede.
Come dimenticare le enormi sofferenze inflitte, disprezzando i
diritti umani più elementari, alle popolazioni deportate dal
continente africano? Come dimenticare le vite umane annientate dalla
schiavitù? Occorre che si confessi in tutta verità e umiltà questo
peccato dell'uomo contro l'uomo, questo peccato dell'uomo contro Dio.
Com'è lungo il cammino che la famiglia umana deve percorrere prima
che i suoi membri imparino a guardarsi e a rispettarsi come immagini
di Dio, per amarsi infine come figli e figlie dello stesso Padre
celeste!»
Ancora
oggi
Ma
tali crimini non appartengono solo al passato. Ancora oggi, la
schiavitù, sotto diverse forme, è una piaga della società. Il
Concilio Vaticano II afferma con forza: «« tutto ciò che viola
l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture
inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto
ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita
subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la
schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o
ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori
sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone
libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono
certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano
coloro che così si comportano più ancora che quelli che le
subiscono e ledono grandemente l'onore del Creatore» (Gaudium et
Spes, n. 27).
Inviata
nel 1902 a Schio, nel nord d'Italia, suor Giuseppina vi assume
diverse responsabilità: cuciniera, guardarobiera, ricamatrice,
portinaia. Come cuoca, è piena di attenzioni nei confronti di tutti,
specialmente i malati, per i quali prepara piatti più appetitosi: il
suo desiderio è quello di amare e servire per amore di Cristo. Alla
portineria, si prende gran cura dei bambini, che ama benedire
affettuosamente imponendo loro la mano. Con la sua voce affabile, «La
Madre Moretta», come viene chiamata, si fa vicina ai piccoli,
accogliente per i poveri e i sofferenti, incoraggiante per tutti
coloro che bussano alla porta del convento. Fedele nel cercare Dio
negli umili lavori della vita quotidiana, ha un cuore di apostola. In
occasione della sua professione religiosa, ha composto questa
preghiera: «Signore diletto, come sei buono! Potessi volare verso
l'Africa e proclamare ad alta voce a tutto il mio popolo la tua bontà
nei miei riguardi. Quante anime ascolterebbero la mia voce e si
volgerebbero verso di Te! Concedi, Signore, che anche loro Ti
conoscano e Ti amino!». Questo spirito missionario viene
sottolineato da papa Benedetto XVI: « [Ella] cercò in vari viaggi
in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione
che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo,
sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al
maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata
per lei e l'aveva «redenta», non poteva tenerla per sé; questa
speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti» (Spe salvi,
n. 3).
I
veri poveri
Nel
1935, la sua superiora le chiede di recarsi in diversi conventi della
congregazione per testimoniare davanti alle altre suore le meraviglie
di Dio nei suoi confronti. Timida di natura e profondamente umile,
non sente entusiasmo per questo progetto, ma accetta in spirito di
obbedienza. E la grazia non le viene a mancare. Il suo messaggio
consiste nell'incoraggiare le sue consorelle alla santità, alla
gratitudine per tanti benefici ricevuti e anche nel pregare per tutte
le anime che non hanno ancora avuto la gioia di conoscere Gesù
Cristo. Dopo aver ascoltato la sua testimonianza, le vengono espresse
talvolta delle condoglianze. Lei spiega: «Spesso la gente mi dice,
«Poveretta! Poveretta!» Io non sono povera, perché appartengo al
Padrone e vivo nella sua casa. I «poveri» sono quelli che non
appartengono interamente a Lui». Dal 1936 al 1938, madre Giuseppina
assolve le funzioni di portinaia al noviziato di Milano dove ha
l'opportunità di edificare le novizie e le loro famiglie. Per le
donne che hanno difficoltà ad accettare di veder partire le loro
figlie per un paese lontano, lei trova le parole di conforto: «Quanti
africani accetterebbero la fede se ci fossero missionari e
missionarie a predicare loro il nome di Gesù Cristo, il suo amore
per noi, il suo Sacrificio redentore per le anime!»
Nel
1943, la comunità e la popolazione di Schio celebrano i
cinquant'anni di professione di madre Giuseppina. Poco dopo, la sua
salute declina e si trova confinata in una sedia a rotelle. Un
giorno, a un prelato che le chiede che cosa faccia seduta nella sua
carrozzella, risponde: «Che cosa faccio? Esattamente la stessa cosa
di Lei: la Volontà di Dio». Un'altra volta, il medico le cita il
passo del Cantico dei Cantici (1,4; Vulg 1,5),
«Nigra sum, sed formosa1» e gliene spiega il
significato: «La mia pelle può pur essere nera, la mia anima è
bella e radiosa». Madre Giuseppina gli risponde: «Oh, se solo
Nostro Signore potesse pensare questo di me quando lo incontrerò!»
Questo incontro, lei lo desidera: «Quando si ama molto una persona,
si ha un gran desiderio di stare con lei. Perché quindi aver paura
della morte? È questa che ci conduce a Dio». E a coloro che le
suggeriscono che comunque però il Giudizio di Dio è qualcosa cosa
di temibile: «Fate ora quello che vorrete aver fatto allora. Siamo
noi stessi che prepariamo il nostro giudizio».
Questa
fiducia incrollabile la aiuta a sopportare le sofferenza degli ultimi
giorni. Nella sua agonia, rivive i terribili anni della schiavitù,
e, più volte, supplica l'infermiera che la assiste: «Allentate un
po' le catene... pesano!» Alla fine, però, la Beata Vergine viene a
liberarla definitivamente da ogni male. Le ultime parole della
morente: «La Madonna! La Madonna!», come il suo ultimo sorriso,
testimoniano il suo incontro con la Madre del Signore. Era l'8
febbraio 1947, nel convento di Schio. La comunità la circondava con
la sua preghiera; una folla di persone accorse rapidamente per vedere
un'ultima volta la «Madre Moretta» e chiederle la sua protezione
dal Cielo.
Qualche
cosa di essenziale
Il
1° ottobre 2000, madre Giuseppina Bahkita è stata canonizzata da
Giovanni Paolo II, e nel 2007, Benedetto XVI l'ha proposta come
esempio della speranza nella sua enciclica Spe Salvi. Questa
enciclica contiene tra l'altro un commento che merita una particolare
attenzione: «Vorrei aggiungere ancora una piccola annotazione non
del tutto irrilevante per le vicende di ogni giorno. Faceva parte di
una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo
fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter «offrire» le piccole
fatiche del quotidiano, che ci colpiscono sempre di nuovo come
punzecchiature più o meno fastidiose, conferendo così ad esse un
senso. In questa devozione c'erano senz'altro cose esagerate e forse
anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in
qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che
cosa vuol dire «offrire»? Queste persone erano convinte di poter
inserire nel grande compatire di Cristo le loro piccole fatiche, che
entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione
di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole
seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire
all'economia del bene, dell'amore tra gli uomini. Forse dovremmo
davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una
prospettiva sensata anche per noi» (n. 40).
Alla
luce di questo delicato suggerimento del Santo Padre, possiamo
avanzare sul cammino della vita, guidati da Maria, la stella della
speranza.
1
Bruna sono ma bella (N.d.T.)
Dom
Antoine Marie osb
"Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia
(Website : www.clairval.com)"
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