Il
ritratto umano del Curato d'Ars
Il
Curato d’Ars non si fece mai fotografare, pur esistendo già,al
tempo, le prime rudimentali macchine fotografiche, quei baracconi che
oggi sono pezzi di antiquariato ma che, a quei tempi, già
funzionavano. Don Vianney era troppo umile| per poter mettersi in
posa: nọn ci fu verso di convincerlo. Gli fecero parecchi ritratti,
ma tutti improvvisati, perché egli non accettò mai di mettersi in
posa. Una volta un ritrattista, fingendosi un devoto fedele, si mise
seminascosto in chiesa tra le prime file, tenendo un quaderno sotto
la giacca per dipingere il Santo mentre predicava. Il Santo,
accortosene, lo rimproverò benevolmente, e disse che se avesse
dipinto un'oca,quello sarebbe stato il ritratto del Curato d’Ars
più appropriato.
L’attenzione
andava a Dio, non a quel povero strumento che era lui stesso. L'unica
foto che si ha del Curato è quando egli ormai non poteva più fare
niente per protestare: poche ore dopo la morte, Oltre la foto, in
quella occasione gli fecero il calco facciale, dal quale ricavarono
la statua che si trova ad Ars, e che quindi possiamo a ragione
definire come il vero volto del Curato d’Ars. Ma per noi è bello
poterlo conoscere anche attraverso le descrizioni che fece chi lo
conobbe. Come era Giovanni Maria Vianney?
Era
piccolo di statura e, per via dei suoi digiuni, eccezionalmente magro
e scavato. Camminava rapido, con movimenti svelti. Il suo volto era
rugoso e incavato, e portava i capelli lunghi che gli scendevano fin
quasi sulle spalle. Aveva arcate Sopraccigliari spesse, con occhi
azzurri al tempo stesso vivaci e miti, scrutatori ed energici. Era
una di quelle persone che,quando ti guardava, ti dava l’impressione
di leggerti dentro. Lo sguardo lanciava lampi di fuoco improvvisi
quando parlava di Dio, come irradiasse scintille, mentre si velava di
una nube di malinconia quando parlava del peccato e pensava a come
Dio non fosse adeguatamente amato dagli uomini L'età e le fatiche
non tolsero alle sue membra la loro rapidità ed elasticità: sempre
vivi e pronti erano i movimenti, forse anche grazie alla vita
campestre dei primi vent’anni della sua vita. Egli conservò fino
all’ultimo momento il pieno esercizio degli organi e delle facoltà
necessarie all’adempimento della sua missione: udito, vista,
lucidità di mente e buona memoria, eppure il suo corpo era giunto a
tal grado di estenuazione che lo si credeva quasi immateriale. II
capo angoloso e pallido per le macerazioni era sempre lievemente
inclinato in avanti, forse per l’abitudine al raccoglimento, o per
la stanchezza. Era amabile, sapeva sorridere, si apriva volentieri, e
in quell’intimo conversare mostrava una vivace scioltezza, una
amabile giovialità, il dono felice di narrare sorridendo, senza la
canzonatura beffarda e sempre con carità. Il suo carattere e il suo
tratto erano di una affabilità stupenda: sempre cortese e attento,
senza la minima affettazione. Tutti erano importanti per lui, ma non
indulgeva mai a lungo con nessuno: dopo qualche minuto si congedava,
perché tutto era già stato detto. E non vi era da rimanervi male:
faceva così perché non poteva permettersi accaparramenti da parte
di alcuno, cose molto comuni quando si gode della vicinanza di un
santo. Per lui tutti gli uomini erano uguali e meritavano uguale
rispetto: che arrivasse un principe o si presentasse un pover'uomo,
il tempo a disposizione era lo stesso, i modi erano gli stessi. Il
Santo aveva un intercalare che gli era proprio, naturalmente riferito
al Signore. Il conte Gatets, che fu suo grande amico, disse che“anche
nelle sue abituali conversazioni, spesso congiungeva le mani al Cielo
dicendo: ‘Mio Dio, quanto Siete buono!’”. Nei rapporti umani
era riservato e modesto: evitava troppi toccamenti, strette di mano,
pacche sulle spalle, baci e abbracci. Con le donne era di una grande
prudenza. “Io non osavo quasi ne guardarlo, né parlargli — dice
la fedele Catherina Lassagne – mi sembra di averlo servito solo e
sempre per l’amore di Dio e senza affezione naturale. Ogni volta
che gli portavo qualche cosa, mi preparavo già ad essere congedata”.
S’intuisce ora facilmente perché non accettasse una domestica. Le
donne volontarie, che qualche volta mettevano un poco di ordine nella
canonica, non andavano mai là se egli era presente: aspettavano che
uscisse per andare a rassettare un poco. Aveva una gravità che
attirava ed al tempo stesso incuteva grande rispetto. Una delle sue
più assidue penitenti ha potuto dire di lui che “col primo sguardo
vi penetrava fino in fondo all’anima, ma poi non vi guardava più.
L'individualità per lui non esisteva: si trattava sempre di un’anima
che egli si sforzava di condurre a Dio”. “Egli stesso confessò –
testimoniò Catherine Lassagne – che non avrebbe conosciuto il male
se non fosse diventato prete e confessore: solo II confessionale gli
aveva rivelato la profonda miseria umana”.
Giovanni
Maria Vianney ebbe il singolare dono delle lacrime, che i Padri del
deserto dicono essere Segno della presenza di Dio nel cuore. Egli non
parlava mai del peccato e del peccatore Senza versare lacrime
abbondanti. Quando faceva la Via Crucis la sua parola si estingueva
rotta dai singhiozzi e spesso, anche quando distribuiva la santa
Comunione, le lacrime cadevano sulla pianeta che indossava.
Negli
ultimi anni di vita non poteva mai ritornare agli argomenti preferiti
— l’Eucaristia, la bontà e l’amore di Dio, le gioie del Cielo
– senza essere interrotto dalle lacrime. E versava ancora lacrime
davanti al più umile spettacolo della natura, se esso alla sua anima
sensibile parlava della bontà di Dio e del cuore indurito dei
peccatori. “L’altro giorno – disse in un’omelia –ritornando
da Savigneux, intesi il canto degli uccelli e sentii venirmi le
lacrime agli occhi! Pensavo: povere bestioline, il Signore vi ha
create per cantare e voi cantate, mentre l’uomo che è stato creato
per amare Dio non lo ama”.
Un
uomo umile|
Senza
umiltà non è possibile parlare di santità, perché Dio solo è
santo. Gli uomini che partecipano alla santità di Dio si ritengono
nulli e capaci solo di poter accogliere la grandezza di Dio nel loro
“vasi di creta”. Quando il Curato d’Ars vide per la prima volta
i santini sulle bancarelle con il suo volto, quando lesse il libro
delle istruzioni per i pellegrini che andavano ad Ars in cui si
esaltavano le sue virtù, ne soffrì acutamente: egli non doveva
prendere il posto di Dio, dal momento che ne era solo un povero e
inadeguato indicatore.
Il
suo primo coadiutore, don Raymond, che fu testimone della sua vita,
diceva che una delle cose che più lo aveva colpito era il fatto che
il Curato avesse resistito incolume a tutte quelle proclamazione di
Santità continue, a tutte quelle lodi di cui ora contornato. Il
Curato sapeva benissimo che tutta quella folla di gente veniva per
lui, eppure mai si lasciò sfuggire un’espressione di vanagloria,
di autoreferenza. Era troppo occupato a pensare alle anime perché
potesse soffermarsi ad ammirarsi allo specchio. C'è però un motivo
più profondo e mistico a questa umiltà: essa era anche grazia di
Dio. Il Curato infatti in gioventù aveva chiesto nella preghiera a
Dio di poter conoscere lo stato della propria anima. Un giorno
confidò a fratello Atanasio queste parole: “Non domandate a Dio di
conoscere del tutto la vostra miseria. Io ho chiesto e ottenuto
questa grazia, ma ho avuto in me tale sconcerto, che se il Signore
non mi avesse sostenuto con la Sua grazia, sarei caduto nella
disperazione. Fui così spaventato al conoscere la mia miseria, che
subito domandai la grazia di dimenticarla. II Signore mi esaudi, ma
mi lasciò però una tale sensazione della mia insufficienza, da
essere persuaso che non sono capace di nulla”. Egli dunque non
pensava di essere miserabile, non immaginava con la fantasia di
esserlo: lo Sapeva. Lo aveva visto, aveva toccato con mano, per una
grazia speciale, l’indigenza della propria anima. E ne rimase
spaventato per tutta la vita. Non avrebbe certo potuto pavoneggiarsi,
senza precipitare in un abisso dal quale non si sarebbe più
risollevato. Questo non significa che l’umiltà del Curato fu senza
sforzo, e quindi non meritoria. Ma dobbiamo immaginarci la posizione
di uno che sa perfettamente di essere miserabile anche nel momento in
cui resuscita un morto, o guarisce un malato, o scaccia un demonio,
perché la visione della propria anima è in qualche modo sempre
presente al proprio sguardo.
Era
come un uomo che sta contemporaneamente nei Cieli e negli inferi,
sull’orlo di un duplice abisso.
Sapeva
benissimo di essere uno strumento di Dio. Madre Teresa di Calcutta si
autodefiniva “la matita di Dio”, il santo Curato d’Ars invece
“la pialla di Dio”. Con matite e pialle, Dio costruisce il suo
Regno sulla terra.
Il
poeta Jasmin, recatosi come tanti ad Ars per conoscere il Curato, nel
salutarlo gli disse: “Signor Curato, non ho mai visto Dio così da
vicino. “Difatti – rispose don Vianney – non è lontano”, e
indicò il tabernacolo.
Il
giorno che gli regalarono la mozzetta,segno di dignità – era una
specie di mantellina che si consegnava ai monsignori — il Curato la
ricevette con visibile imbarazzo e subito pensò quanto potesse
valere. Dopo qualche giorno, la mozzetta sparì dalla sacrestia: il
Curato l'aveva venduta per cinquanta franchi e aveva dato i soldi ad
un povero che ne aveva bisogno. Poi, per scrupolo, scrisse informando
il Vescovo di quello che aveva fatto.
Era
impossibile scoprire sul suo volto qualche espressione di cruccio, di
noia, o la minima traccia di qualsiasi preoccupazione di lui stesso,
che rivelasse le ansietà dell’amor proprio. “Una volta ricevetti
dal postino – amava raccontare — due lettere nello stesso giorno:
nella prima si pretendeva che io fossi un grande Santo, nella seconda
che fossi un ipocrita e un ciarlatano. La prima non mi aggiungeva
niente di più, la seconda nulla mi toglieva. L’uomo è ciò che è
dinanzi a Dio, e nient’altro”.
Era
un bello spettacolo vedere il Curato quando a mezzogiorno faceva il
suo solito tragitto dalla canonica alla Casa della Provvidenza,
seguito dagli omaggi, dalla Venerazione, dall’entusiasmo della
folla. Appena egli compariva si scoprivano il capo, tutti ne
acclamavano il nome, tutte le braccia si stendevano verso di lui,
tutti i cuori gli volavano incontro. Egli, come se queste
manifestazioni fossero dirette a qualcun altro, se andava rapido
senza sembrare colpito da ciò che si faceva o si diceva intorno a
lui, solo attento alle domande delle persone che lo circondavano in
quel momento.
Facendo
l'elogio di un sacerdote da lui molto apprezzato, disse un giorno che
quel Sacerdote era un incrocio tra una rondine e un’aquila. Gli
chiesero:
“E in voi, signore Curato, che cosa c’è?”, “In me?... Per
fare il Curato d’Ars ci
vogliono
un'oca, un facchino e un gambero”,“Signor
Curato – gli chiese un tale – che bisogna fare per essere
buono?”, “Bisogna amare molto
il buon Dio”. “E come fare per amare Dio?”. “Ah, amico mio!
Umiltà, umiltà,umiltà". Amava anche ripetere: “Ci furono
dei santi che mettevano in fuga il demonio dicendo: quanto sono
miserabile!”
E
quando ad Ars arrivò da Parigi il famoso predicatore domenicano
Lacordaire, il Curato gli diede subito il posto d’onore, concedendo
a lui la predicazione domenicale. La gente fu scontenta: tutti erano
andati lì ad Ars per ascoltare il santo Curato. Alla sera il Curato
prese la parola e disse: “Voi conoscete la teoria dei due estremi
che si toccano: ebbene, si è avverata anche ad Ars sul
nostro
pulpito, ove si sono viste la più alta scienza e la più bassa
ignoranza”. Non era affettazione, egli ne era profondamente
convinto.- - - - Un giorno vide un suo ritratto, ai piedi del quale
era disegnata la sua mozzetta da canonico e la sua croce d’onore,
un’onorificenza che gli
aveva donato
il sindaco di Ars. Egli commento: “ Per completare l’opera
occorrerebbe aggiungere
sotto ancora
questa frase: Vanità, orgoglio,nulla”.
Un’altra
volta, facendosi ancora allusione alle sue diverse onorificenze,
rispose: “Sì, io sono canonico onorario per la troppa bontà del
Vescovo, cavaliere della Legione d’onore per un errore del governo
e... mandriano di un asino e di tre pecore per volontà di mio
padre”.
Nelle
sue istruzioni parlava quasi sempre dell’umiltà, e insegnava:
“Siate umili e semplici: più sarete umili e maggiore sarà il bene
che compirete” e amava aggiungere quel detto dei Padri del Deserto:
“Il diavolo apparve un giorno a san Macario, solitario della
Tebaide, e gli disse: “Tutto quello che fai tu so farlo anch'io. Tu
digiuni, ed io non mangio mai: tu vegli, e io non dormo mai. Ma vi è
una cosa che tu fai e che io non so fare . ‘Quale?”. “Umiliarmi’,
rispose il demonio”,
Un
uomo povero
Uno
dei rimproveri che i non credenti rivolgono agli uomini di Chiesa,
per giustificare se stessi,
è l'eccessivo attaccamento alle ricchezze da parte del clero. Può
succedere da parte dei sacerdoti di Scandalizzare la gente vivendo
troppo agiatamente o accumulando ricchezze, dopo aver dichiarato che
l’unica loro ricchezza è Dio. Il Curato fu un uomo povero, che amò
la povertà come segno
e testimonianza di appartenenza a Dio e per non essere di continua
offesa davanti ai poveri,
in mezzo ai quali egli viveva. La povertà del Curato era
proverbiale: aveva una tunica, che rappezzava continuamente, e
possedeva un solo ricambio. Inutile regalargli qualcosa: il giorno
dopo era tutto sparito, e finiva nelle case dei poveri. Fu degno
emulo di san Francesco d’Assisi, di cui fu nel Terz’ Ordine un
fedele discepolo. Ricco per dare agli altri, ma povero per sé, visse
in un totale distacco dai beni di questo mondo e il suo cuore
veramente libero si apriva largamente a tutte le miserie materiali e
spirituali che affluivano a lui. “Il mio segreto – egli diceva –
è semplicissimo: dare tutto e non conservare niente”. Il suo
disinteresse lo rendeva premuroso verso i poveri, soprattutto quelli
della parrocchia, verso i quali dimostrava un’estrema delicatezza,
trattandoli “con vera tenerezza, con molti riguardi, si deve dire
con rispetto”. Raccomandava che non bisogna mai mancare di riguardo
ai poveri, perché tale mancanza ricade su Dio; e quando i miseri
bussavano alla porta, egli era felice di poter loro dire,
accogliendoli con bontà: “Io sono povero come voi; sono oggi uno
dei vostri!”. Alla fine della vita amava ripetere: “Sono
contentissimo: non ho più niente e il buon Dio può chiamarmi quando
Vorrà”lo. Riceveva anche molte offerte, specialmente verso la fine
della vita, ma per questo motivo aveva fondato l’orfanotrofio della
Provvidenza apposta: lì ci vivevano anche ottanta bambine orfane,
bisognose di tutto, e lì finivano le offerte. Non si preoccupava mai
del domani: infatti il peccato della ricchezza consiste più
nell’accumulare roba che nel servirsi di mezzi costosi. Con fare
semiserio, compiangeva coloro che risparmiano per il gusto di
possedere, dicendo che non facevano che riempire
i loro sacchi di nebbia. Va da sé che i poveri pullulassero davanti
alla Sua porta. Egli però non distribuiva a casaccio: Sapevo,
anche per intuizione, chi veramente aveva
bisogno e dava loro generosamente senza calcoli. Amava i suoi poveri,
e i poveri
amavano lui. Li chiamava tutti con l’appellativo “amico mio”, e
regalava
ciò che aveva. Ovviamente non tutti i cittadini di Ars gradivano
queste
torme di mendicanti lamentosi in giro per il paese e qualcuno
protestò con il sindaco. Ma poi nessuno osò prendere posizione
ufficiale, perché tutti sapevano
quanto il loro Curato amasse questa povera gente, che per lui era
segno della presenza stessa di Dio. Una volta gli accadde
inavvertitamente di accendere la sua candela con una banconota di
diversi franchi. Quando se ne accorse, ormai era troppo tardi. Glielo
fecero notare, ed egli esclamò: “Oh, è assai meno grave che se
avessi
commesso il più piccolo peccato veniale”. Un giorno d’estate,
mentre insegnava il catechismo, vide un povero che arrancava
con due grucce:
era
sulla
soglia della chiesa e cercava
faticosamente di farsi strada e trovare un posto a sedere,
nella calca dei pellegrini. Don Vianney allora improvvisamente si
alzò
e, facendosi largo, si avvicinò a quel povero. Siccome non vi era
proprio nessun posto libero, si fermò guardandosi attorno. Alla fine
lo fece salire sulla
cattedra e lo mise a sedere nel suo seggio davanti
all’altare. Quindi, stando in piedi, riprese tranquillamente la sua
spiegazione.
Un’altra
volta entrò un ladro in canonica: trovò in un fondo di cassetto
delle posate di stagno, le prese, ed entrò poi in una camera dove
aveva trovato delle riserve di pane, che erano lì per le orfanelle
della Provvidenza. Il Curato lo colse sul fatto: “Amico mio, che
cosa state facendo?”. Il ladro rispose: “Avevo fame, signor
Curato...”. Fattagli una abbondante elemosina, il Curato, che aveva
scorto la propria “argenteria”, come egli
la
chiamava, tra le mani del ladro, aggiunse:
Salvatevi
amico
mio, salvatevi prima che vi arrestino!”. Una volta andò lui stesso
ad avvisare una donna, la quale gli aveva rubato 900 franchi, che i
carabinieri la stavano cercando. Ad un altro ladro assegnò una
pensione, perché non rubasse più.
Un prete che faceva costruire una chiesa, e
perciò era sempre a corto di denaro, gli disse un giorno: “Signor
Curato, ma come fate? Insegnatemi il vostro segreto: avete sempre del
denaro a disposizione... Mi sarebbe utilissimo saperlo
per
non lasciare a metà la mia costruzione”. Amico mio – gli rispose
– il mio segreto è semplicissimo: donare tutto e nulla
serbare”.Un’altra volta disse: “Il grappino è furibondo nel
vedere che da quello stesso denaro di cui si serve per corrompere e
perdere le anime, noi facciamo scaturire la loro salute!”.
Catherine
Lassagne un giorno credette bene di sostituire la vecchia tazza di
terra cotta per il latte del Curato con una nuova,più robusta e
certamente più bella. Egli ebbe paura di tutto quel lusso e
restituendola tazza, se ne uscì con questa espressione:“Non si
potrà dunque riuscire ad avere in casa propria un po’ di
povertà?”.
Un
uomo paziente
Una
delle cose che maggiormente colpiva in Giovanni Maria Vianney era la
pazienza. Non era paziente di carattere, anzi era piuttosto facile
allo scatto e alla ruvidezza. Per lui, diventare paziente fu una
conquista. Egli diceva di essere nato con un temperamento impetuoso
e aveva dovuto farsi violenza per divenire paziente. Eppure tutti lo
vedevano soffocato e travolto dalla folla senza che il suo volto
esprimesse la minima contrarietà.
Il
vicario don Raymond, vedendo che le folle lo assalivano continuamente
e osservando che il Curato non si spazientiva mai, un giorno gli
chiese: “Reverendo, come potete rimanere sempre calmo con la
vivacità del vostro carattere?”. Il Santo gli rispose: “Amico
mio, la virtù domanda coraggio, violenza continua a se stessi, e
soprattutto l’aiuto dall’Alto”.
La
gente lo amava per questo contegno e questa bontà vissuta con tutti.
“La vostra affabilità sia nota a tutti” (Fil 4,5) aveva esortato
la Scrittura, e il Curato fece in modo che tutti potessero coglierla
in lui per dare gloria a Dio. Vi era una donna che lo tormentava in
continuazione, perché voleva una cosa che egli non poteva
concederle, ma ella insisteva con una petulanza e ostinazione davvero
irritante. Il Santo non cedette, la sua fermezza fu pari alla sua
mansuetudine e ogni volta che questa importuna si faceva avanti, egli
la accoglieva come fosse sempre la prima volta. Altri gli dicevano
che erano rimasti delusi da lui, che si aspettavano tutt'altro e che
in effetti egli era solo un povero ignorante. Il Curato ascoltava
tutto questo con gioia e serenamente. Ovviamente era un uomo con le
sue simpatie e antipatie. Non era amorfo. Ma si dominava. “Abbiamo
osservato spesso – dice Marta Minard – che in presenza di alcune
persone doveva farsi violenza, ma non ne fece mai parola con alcuno”.
Per accorgersi delle tempeste del suo spirito, bisognava cogliere
l’espressione del suo viso e il lampo fulmineo dei suoi occhi. A
questo proposito ci è preziosa la testimonianza ancora una volta di
Catherine Lassagne: “Ho inteso dire che, nei primi anni della sua
vita fra noi, si recò da lui un uomo di Ars che gli rivolse ogni
sorta di ingiurie. Il Santo lo ascoltò senza dire parola e per
delicatezza volle accompagnarlo ed abbracciarlo, quando se ne partì.
L'atto gli fu così gravoso che a stento poté risalire alla sua
camera e, quando si gettò sul suo letto, aveva segni evidenti dello
Sforzo sostenuto. E stato osservato più volte che ascoltava con
calma un linguaggio anche rude, ma nel suo corpo passava un tremito.
La ragione la spiegò egli stesso dicendo: ‘Quando si è vinta una
passione le membra tremano”. »
Quando
la folla lo premeva da ogni parte, non era facile mantenere la calma
e la pazienza. Si sa com’è la gente: alcuni avevano fretta di
vederlo e di parlargli, altri fanatici volevano toccarlo o sottrargli
un pezzo di abito, afferrandolo per le braccia e finendo con
strattonarlo. Immaginiamoci un pover'uomo che esce più morto che
vivo dal confessionale, un uomo che non mangia, un uomo che sta in
piedi per scommessa... e capiremo la pesantezza quasi sgarbata di
queste folle scomposte. Eppure, mentre si potevano leggere nel volto
del Curato i segni della stanchezza, mai nessuno ha potuto cogliere i
segni di disappunto. Una volta in cui i pellegrini si stringevano
numerosi attorno al suo confessionale, lo si vide uscire tre volte
per dare la Comunione a tre persone, una dopo l’altra, che in
effetti avrebbero potuto anche presentarsi tutte insieme. Un
testimone di questa scena ne fu così colpito che uscì di chiesa
gridando, in modo che quei tre potessero sentire: “Sono arrabbiato
con il Curato che è troppo paziente!”. Vedendolo sempre così
calmo, don Toccanier gli disse: “Signor Curato, perfino gli angeli
al vostro posto perderebbero la pazienza. Io sarò obbligato ad
impazientirmi per voi!”. Sembrano scene tratte dai Fioretti di San
Francesco. Un’altra volta, a pochi anni dalla morte,ormai vecchio,
dopo la predica delle undici, dei pellegrini che erano venuti da
lontano gli si avvicinarono con le forbici in mano per tagliargli
pezzi di cotta, ed anche ciocche di capelli. Alcuni dei presenti,
accortisi della cosa, difesero il Curato e, indignati verso quei
pellegrini, lo redarguirono: «Reverendo, dovreste mandare a spasso
tutta questa gente!”. Ed il Santo rispose: “Dio mio, sono
trentasei anni che mi trovo in Ars e non mi sono mai arrabbiato; sono
troppo vecchio per incominciare ora...”. «Osservai da vicino il
Servo di Dio – testimoniò don Tailhades al processo per la
beatificazione – per leggere sul suo viso qualche moto
d’impazienza, ma non mi riuscì di scoprirlo, perché, anche in
mezzo alle indiscrezioni più provocanti mi parve dolce, sorridente e
sempre uguale a se stesso. Quando gliene feci parola mi rispose:“Che
devo fare? Ad adirarmi non guadagnerei nulla. Quanto è meglio dunque
che un sacerdote si offra a Dio donandogli anche i suoi disappunti!”.
I sacerdoti stessi ammiravano questa pazienza. Don Germ, parroco
della cattedrale di Grenoble, che il Curato d’Ars chiamava cugino,
rimase ore intere a contemplare lo spettacolo della pazienza e della
dolcezza del Santo importunato dalla folla.
Dunque,la
pazienza era diventata spettacolo da ammirare!
Un
uomo mortificato
Poco
si sa della salute del Curato, dal momento che egli non ne parlava
mai. Lasciava forse intuire qualcosa, ma difficilmente si sapeva come
realmente egli stesse. Si sa che aveva i reumatismi e che soffrì
molto per il mal di denti, tanto che a volte pregò il dentista di
Ars di strappargli qualche dente con le tenaglie, perché non ce la
faceva più. Si è certi che non si sedeva mai quando accoglieva
gente,
probabilmente perché, nelle interminabili sedute al confessionale,
egli aveva contratto qualche piaga nel fondo schiena... che
certamente non gli faceva piacere. Una volta la contessa di Garets
vedendo il suo stato, lo esortò a curarsi. Questa la
risposta:
“Ci mancherebbe altro che si prendesse qualcosa ogni volta che si
soffre!”. Delle penitenze del Curato si sono scritti libri e
trattati;
servivano per vincere le passioni e per ottenere grazie per i suoi
duecentotrenta parrocchiani che voleva strappare al demonio per
portarli in Cielo
e poi
per tutti coloro che andavano a confessarsi, folle impressionanti a
cui egli non si negava. Egli ripeteva: “Nella via della penitenza è
solo il primo passo che costa”. Ma per arrivare in cima ad una
vetta non basta fare
il primo passo: occorre
farli
tutti. Flagelli, catene,digiuni, urla animalesche notturne
del “compagno uncino”... Ma lo strumento di penitenza più
spaventoso si trovava in chiesa; il confessionale. Egli si crocifisse
volontariamente a quel legno. Infatti, più volte il Curato fu
tentato di scappare e di farsi monaco nella Trappa, dove nessuno
avrebbe potuto più raggiungerlo, dove non avrebbe
più confessato nessuno. Da giovane poteva
passare qualche ora nei campi, poteva camminare e andare a trovare le
famiglie di Ars... ma poi tutto questo divenne un sogno, perché
c'erano folle
oceaniche che lo cercavano per
essere
confessate.
Diciamolo: bastano alcune ore
consecutive di confessionale per estenuare
anche
il sacerdote più resistente, che ne esce
intontito, incapace di ragionare e desideroso solo di buttarsi
mezz’ora su un
letto. E tuttavia il Curato d’Ars compiva delle sedute di
confessionale che avrebbero estenuato sei confessori uno dopo
l'altro. D'estate nella piccola chiesa il caldo diventava così
soffocante che — come
anche lui a volte ammise – gli dava l'idea delle pene dell’inferno.
La gente stessa non resisteva e usciva sovente
por cercare
di respirare. L'afa,
i sudori e la temperatura creavano una miscela davvero insostenibile.
Ma il Curato rimaneva al suo posto. Per contro, d’inverno, si
battevano i denti per il freddo, poiché la chiesa non era
riscaldata. Più di una volta il Curato svenne durante la c
onfessione
a causa del freddo. Don Dubois un giorno gli chiese: “Come fate a
resistere così a lungo quando fa freddo, senza nulla per riscaldare
i piedi?”. La risposta fu: “Amico mio, la ragione è semplice:
dalla festa degli Ognissanti fino a Pasqua, io i piedi non li sento
più!”. Nella Confessione, il Curato cercava di far percepire al
penitente l’amore misericordioso di Dio, che perdona “trascinando
a valle tutti i peccati, con il torrente della sua misericordia che
passa.
nell’anima”, per usare un’espressione a lui cara. Negli ultimi
anni della sua vita egli si alzava poco dopo la mezzanotte,dopo aver
dormito due, massimo tre ore. Era così debole e indolenzito che,
Settantanne, non camminava se non trascinandosi da una sedia
all’altra, tenendosi ai muri, e talvolta anche cadendo a terra.
Chi, al posto suo,
non avrebbe ceduto alla tentazione di rimanere aletto qualche momento
in più? Ma questa tentazione non gli veniva neppure: là, oltre la
porta, lo attendevano delle anime strette nei lacci del peccato.
Una volta seduto al confessionale, verso l’una di notte, lo Spirito
Santo gli dava l’energia necessaria per arrivare fino a sera, con
delle sedute
al confessionale anche di sedici ore al giorno. Impossibile
comprendere quanto il Curato avesse
a cuore la salvezza delle anime. Egli gemeva continuamente per la
loro perdita, e diceva: “Quanto è da piangere che anime, costate
il Sangue di Nostro Signore, si perdano per l'eternità!”.
Un
giorno il sacerdote aiutante gli chiese se, per amore di Dio, avrebbe
accettato di rimanere in terra ancora tanti anni, nonostante tutti
quegli stenti. “Sì, certamente”, rispose. “In tal caso vi
levereste sempre di così buon mattino?”...“Sì, amico mio, a
mezzanotte. Sarei il più
felice
degli uomini, se non fosse per il pensiero di dover comparire davanti
al tribunale di Dio con la mia povera vita”. Il Curato aveva
deciso, fin da quando era prete novello ad Ecully con don Balley, di
non bere quando aveva sete, di non scacciare una mosca, di non
mostrare di accorgersi di odori nauseanti, di non dare segno di
disgusto o ripugnanza per qualsiasi cosa, di non lamentarsi mai di
qualsiasi cosa che fosse molesta alla sua natura e di non appoggiarsi
mai quando era inginocchio. Interrogato in proposito, egli diceva
alle due direttrici della Casa della Provvidenza: “Non avete mai
visto quelli che conducono gli orsi negli spettacoli dei circhi?
Sapete come si addomesticano le bestie feroci: usando il bastone. Non
altrimenti si doma il proprio corpo e si addomestica il vecchio
Adamo”.San Giovanni Maria Vianney, povero di beni, fu ugualmente
mortificato nella carne. “Non vi è che una maniera di darsi a Dio
nell’esercizio della rinunzia e del sacrificio –egli diceva –
darsi cioè interamente”. E in tutta la sua vita praticò in grado
eroico l’ascesi della castità. “La castità brillava
nel
Suo sguardo”, è stato detto del Curato d’Ars, realmente
chi si pone alla sua scuola è colpito non solo dall'eroismo con cui
questo sacerdote
ridusse in servitù il suo corpo
(cfr. 1Cor 9,27), ma anche dall’accento di convinzione con cui egli
riusciva a trascinare dietro di sé la moltitudine dei suo i
penitenti. Egli conosceva, attraverso una lunga pratica del
confessionale, le tristi rovine dei peccati della Carne: “Se non ci
fossero alcune anime pure per ricompensare Dio, vedreste come saremmo
puniti!”. E parlando per esperienza,aggiungeva al suo appello un
incoraggiamento fraterno: “La mortificazione ha un balsamo e dei
sapori
di cui non si può fare a meno quando li si abbia una volta
conosciuti...
In questa via quello che costa è solo il primo passo!”.
Questa
ascesi necessaria della castità, lungi dal chiudere il sacerdote in
uno sterile egoismo, rende il suo cuore più aperto e più pronto a
tutte le necessità dei suoi fratelli;“Quando il cuore è puro
- diceva ottimamente il Curato d’Ars – non Può fare a meno di
amare, poiché ha ritrovato la Sorgente dell’amore che è Dio”.
Quale beneficio per
la società avere nel suo seno uomini che, liberi dalle
preoccupazioni temporali, si consacrano completamente al servizio
divino e dedicano ai propri fratelli la loro vita, i loro pensieri e
le loro energie! Quale grazia sono per la Chiesa sacerdoti fedeli a
questa eccelsa virtù! Con Pio XI noi la consideriamo come la gloria
più pura del sacerdozio cattolico e “per quanto riguarda le anime
sacerdotali, ci sembra rispondere nella maniera
più degna e conveniente ai disegni e desideri del Sacratissimo Cuore
di Gesù”. Pensava a questo disegno dell’amore divino il santo
Curato d'Ars, quando esclamava: “Il Sacerdozio, ecco l’amore del
Cuore di Gesù!”.
Tratto da "Ho visto Dio in un uomo" - di padre Serafino Tognetti
Nessun commento:
Posta un commento