giovedì 25 febbraio 2016

MORIRE E RISUSCITARE - GIOIA DI CREDERE (François Varillon)




Se ci accontentassimo di quanto è stato detto finora, ci scontreremmo inevitabilmente con una temibile obiezione: essere divinizzati è impossibile, perché Dio è esattamente ciò che non si può diventare, e Dio non può l'impossibile. È un errore credere che Dio possa tutto, Dio non può far sì che due e due facciano cinque o sei, non è possibile; affermare questo significa parlare a vanvera. Quando diciamo che Dio è trascendente, diciamo precisamente che egli è tutt'altro, assolutamente altro e che tra lui e noi c'è un abisso rigorosamente invalicabile. Di conseguenza osare affermare che il senso dell'esistenza umana sta nell'essere divinizzati significa dire qualcosa che non sembra possibile.



TRASFORMAZIONE

Ecco perché vi propongo di trasformare la frase: «La nostra vocazione è quella di essere divinizzati» nella frase seguente: «La nostra vocazione è di essere divinamente trasformati». Non si diventa ciò che Dio è avanzando tranquillamente lungo un piano inclinato. Non si sfocia così come si è nella vita stessa di Dio. E’ necessaria una trasformazione radicale. Per diventare ciò che Dio è bisogna che l'uomo sia radicalmente trasformato.

E, così come il leit-motiv della prima conferenza era «NON È...CHE», ora, in questa conferenza sarà: TRANS (o TRAS). Ritroviamo questo prefisso in tras-formazione, tras-figurazione, trans-fert, tras-porto, trans-siberiana, trans-atlantico. Tutte le volte che interviene il prefisso “trans” c'è la morte di qualcosa e la nascita di qualcos'altro. Il viaggiatore che viene trasportato da Parigi a Pau muore a Parigi, alla vita parigina, per nascere a Pau. Quando sarò trasportato da Pau a Lione, morirò alla capitale del Béarn per rinascere nella mia città di Lione. N on esiste «trans» senza la morte a qualcosa e la nascita a qualcosa di nuovo. Ecco perché, se la nostra vocazione è di essere divinizzati, è ineluttabile che il nostro destino si presenti in forma di morte e risurrezione.

È importante definire questi due termini. Quando parlo di morte, in tutto questo capitolo, non mi riferisco semplicemente alla morte che sta alla fine della vita, all'atto dell'esalare l'ultimo respiro. Mi riferisco alla morte a se stessi, la morte al proprio egoismo che si chiama sacrificio. Quando parlo di risurrezione non intendo il ritorno, dopo la morte, alla vita che si possedeva prima di morire. Risuscitare significa passare a una vita completamente diversa.

Quello che vorrei mostrarvi è che il passaggio o il transfert alla vita divina, alla vita stessa di Dio che avviene non solo dopo la morte, ma lungo tutta la vita, implica sempre una morte e una nuova nascita o risurrezione. Scegliamo gli esempi prendendoli dalla vita quotidiana, più semplice. Dobbiamo capire che una crescita non è mai un ingrandire, ma sempre una trasformazione. L'ingrandimento esiste solo nell'ordine dei minerali. Appena si ha

a che fare con un organismo vivente, anche se animale, c'è trasformazione. Prenderò tre esempi, elementari ma, secondo me, molto eloquenti.



BAMBINA CHE DIVENTA DONNA

La donna non è una grossa bambina: una donna che fosse una grossa bambina sarebbe un mostro. Essa diventa tale solo trasformandosi, cioè morendo al suo stato per nascere alla situazione, allo stato di donna adulta.

Tocchiamo qui qualcosa di fondamentale. Se chiedo a una bambina cosa potrei fare per farla contenta, lei risponderà spontaneamente: vorrei essere grande, grande come la mamma. Senza pensare nemmeno per un istante però che questo comporterebbe la rinuncia alle sue bambole, alla sua vita spensierata per passare a qualcosa di assolutamente nuovo, che non può avvenire senza sofferenza. Essa non sa che, per diventare donna, deve morire al suo stato di infanzia per nascere allo stato di adulta.

L'osservazione può sembrare insignificante; in realtà si spinge molto lontano perché contiene un aspetto di ciò che, nel mondo moderno, si chiama il mito. Uno degli aspetti essenziali del mito è che l'uomo ha sempre la tendenza a proiettare nel futuro il presente così com'è, senza trasformazione.

In questo senso possiamo dire che nella Bibbia, a livello dell'espressione, c'è del mito. La Bibbia infatti ci rappresenta la vita eterna come un riposo; e noi tendiamo a immaginare la vita eterna sulla linea di quel riposo a cui aspiriamo, nella nostra vita terrena, quando siamo stanchi. Quando lasciamo le briglie sciolte alla nostra immaginazione, senza correggerla con la riflessione, ci rappresentiamo questa vita eterna come una specie di dolce, eterno far niente. La liturgia, mi direte, ci incoraggia perché, nell'ufficio dei morti, recitiamo: l'eterno riposo dona loro, o Signore. Soltanto che la liturgia presuppone che noi siamo intelligenti, ovviamente!

Un altro modo di rappresentarci la vita eterna è il banchetto, il pranzo di festa perché, nella vita presente, il pasto preso in comune è il segno della fraternità, della pace e della gioia. Parlandoci di banchetto eterno, siamo invitati a proiettare nel futuro il presente così com'è. Questo è tipico del mito, e bisogna riconoscere che la Bibbia, il vangelo stesso, la liturgia hanno aspetti mitici che devono essere sottoposti a seria critica.

Non scandalizzatevi quando vi dico che l'espressione biblica deve essere sottoposta al vaglio della critica. La parola di Dio è una parola umana, Gesù si rivolgeva agli uomini del suo tempo e, nel desiderio di farsi capire, usava i vecchi miti a loro accessibili e comprensibili. Lo specifico della teologia è criticare nel senso buono del termine, cioè di fare la critica, di riflettere, di comprendere cosa sta sotto il mito, in modo tale che la nostra immaginazione non ceda alla tentazione tipicamente infantile di proiettare nel futuro il presente così com'è, senza trasformazioni.

Abbiamo quindi la tendenza a immaginarci la felicità del cielo come un ingrandimento di ciò che quaggiù chiamiamo felicità (il riposo, il banchetto, ecc.), mentre in realtà la felicità del cielo è la felicità stessa di Dio. Essere divinizzati, andare in cielo (come dice il catechismo) non è come scalare una montagna, non è andare in un luogo: è invece partecipare alla vita divina. E Dio non è altro che amore; quindi la vita eterna consiste unicamente nell'amare, nell'uscire da sé, nel non pensare a se stessi, nel non chiudersi e ripiegarsi su se stessi, nel far passare gli altri prima di noi. Questa è la felicità del cielo.



BRUCO CHE DIVENTA FARFALLA

La farfalla non è un grosso bruco, perché la crescita non è mai un ingrossamento. Ma se il bruco avesse una coscienza, e io potessi parlargli, come in una fiaba, gli chiederei qual è il suo sogno. E il bruco mi risponderebbe sicuramente, in modo mitico, che vorrebbe essere il bruco più grosso di tutta la foresta, il re, l'imperatore dei bruchi che, grazie alle sue dimensioni e al suo peso, potesse regnare su tutti gli altri bruchi della foresta.

Questo meccanismo viene chiamato volontà di potenza; e non è altro che l'amplificazione di ciò che si è, senza trasformazione. Il bruco non sa che, per diventare ciò che è destinato ad essere, deve liberarsi dal suo corpo di bruco e deve rivestirsi di un corpo nuovo. Esso esiste, infatti, solo per diventare farfalla: è questa la sua vocazione. Solo quando sarà diventato farfalla sarà veramente quello che deve essere.



CHICCO DI FRUMENTO CHE DIVENTA SPIGA

E inutile dilungarci su questi esempi elementari, dal momento che Gesù Cristo si è premurato egli stesso, nel vangelo, di scegliere un esempio estremamente eloquente, nel capitolo 12 del vangelo di Giovanni: la storia del chicco di frumento. Gesù non sviluppa questa storia, ma ci è facilissimo farlo. Se qualcuno di voi possiede un po' di talento letterario, gli consiglierei davvero di scrivere la storia del chicco di frumento (una parabola). Il chicco di frumento è perfettamente felice nel suo granaio. Niente pioggia, niente umidità, i piccoli amici del mucchio di grano sono molto gentili: niente litigi, è veramente tutto perfetto. Permettetemi di dire: piccola felicità del chicco di frumento in un granaio. Fate la trasposizione: felicità dell'uomo, onesta agiatezza economica, successo negli affari, buona salute e via di seguito... Certo non dobbiamo disprezzare la felicità umana: auguro a tutti voi di essere felici di questa felicità, felicità di un chicco di frumento nel suo granaio... eppure! piccola felicità a confronto di ciò che dobbiamo essere per tutta l'eternità.

Immagino che questo chicco di frumento sia molto pio; quindi ringrazia Dio: Signore, io ti ringrazio di tutto quello che mi dai, questo benessere che fa sì che io sia così felice nel mio granaio, e mi auguro che tutto questo duri per sempre! Ha ragione di ringraziare Dio. Soltanto, attenzione! Non vorrei che questo chicco di frumento si rivolgesse a un Dio che non esiste! Ebbene io dico: un Dio che fosse soltanto l'autore e il garante della piccola felicità del chicco di frumento nel granaio, anche se questa felicità è assolutamente legittima, un Dio così non esiste, è un idolo. È esattamente il Dio negato da molti atei, nostri contemporanei. Possiamo sostenere che abbiano torto? E se il chicco di frumento si ostina a cantare le sue lodi io prendo la penna e scrivo un trattato per parlare dell'illusione dei credenti.

Un bel giorno il mucchio di grano viene caricato su una carriola e portato in aperta campagna. La campagna è ancora più bella e gradevole del granaio. E così, davanti al cielo azzurro, al sole, ai fiori, gli alberi, le pianure e le montagne, il chicco ringrazia Dio ancora di più: Signore ti ringrazio, tutto questo è talmente bello! Ha ragione, bisogna ringraziare Dio delle cose belle che ci sono quaggiù. Ma è sempre un chicco di frumento: un Dio che facesse in modo che un chicco di frumento resti un chicco di frumento, un Dio che mantenesse il chicco nel granaio, senza nessuna fecondità, un Dio simile non esiste.

Si arriva sulla terra lavorata di recente: il sacco di grano viene rovesciato sul suolo: piccolo brivido, è fresca! Oh, non importa, è una sensazione nuova, piacevole. Ma ecco che il chicco di grano viene conficcato nella terra. Non vede più nulla, non sente più nulla, l'umidità gli penetra fin nelle ossa. Il chicco di grano che, attraverso l'inevitabile morte, sta per essere trasformato, sta per diventare quello che deve essere, cioè una spiga rigogliosa, rimpiange il granaio in cui, in effetti, era tanto felice, ma di una piccola felicità umana. In questo preciso momento dice quello che milioni di uomini dicono attorno a noi: se Dio esistesse, cose simili non succederebbero. È davvero un peccato perché proprio qui siamo in presenza del vero Dio: il Dio che trasforma il chicco per farlo passare dallo stato di granello allo stato di spiga; e questo è possibile solo attraverso la morte. L'unico Dio che esiste è quello che ci fa crescere, che ci fa passare da una condizione semplicemente umana a una condizione di uomo divinizzato.

È questa la storia di tutti noi, è questa la condizione umana. Non esiste crescita senza trasformazione, non esiste trasformazione senza morte e nuova nascita. Stabilito questo, ci sono, nella storia dell'umanità, tre tipi di morte e di nascita, tre tipi di trasformazioni, tre pasque tipiche.

Il termine pasqua deriva da una parola ebraica che significa «passaggio»: pèsah in ebraico, pascha in greco, pasqua in italiano.

Nella nostra vita ci sono due passaggi.

Il primo passaggio è la nostra nascita umana: siamo passati dal nulla in cui eravamo immersi, alla situazione di neonato nella sua culla. Passaggio prodigioso già questo, passaggio dal nulla all'esistenza umana che è esistenza intelligente e libera. Ma questo primo passaggio è soltanto la condizione di un secondo passaggio.

Il secondo passaggio è quello da un'esistenza umana all'esistenza propriamente umano-divina. Questo passaggio è incommensurabile rispetto al primo: se non ne siamo convinti significa che non sappiamo quel che diciamo quando pronunciamo la parola Dio. È enorme passare dal nulla all'esistenza umana, ma è molto più enorme passare dall'esistenza umana all'esistenza umano-divina. Il primo passaggio avviene senza il nostro consenso; non ci viene chiesta la nostra autorizzazione per metterci al mondo. Il secondo passaggio non può avvenire senza di noi, e si compie lungo tutta la vita.

Se si dovesse tradurre in termini spaziali la differenza tra questi due passaggi, direi che la distanza tra il nulla e l'esistenza umana è paragonabile alla distanza che c'è tra il pavimento e questo tavolo; e che la distanza tra l'esistenza umana e l'esistenza umano-divina è

paragonabile alla distanza che c'è tra la terra e il sole. Ma il mio paragone sarebbe molto sbilenco, perché la distanza tra la terra e il sole è misurabile e misurata, mentre la distanza con Dio non è misurabile.

Colgo l'occasione per dirvi, di sfuggita, che, secondo il cristianesimo, l'esistenza umana è veramente sublime. Diventare ciò che Dio è: pensateci! Ma se l'esistenza umana è sublime, essa è anche tragica; ed è impossibile che sia diversamente. Non c'è via di mezzo tra essere divinizzati ed essere dannati. Il sublime non sarebbe veramente sublime se il suo contrario non fosse il tragico.

La pasqua è questo secondo passaggio, e ci sono tre pasque, tre passaggi trasformatori o trasfiguranti nella storia dell'umanità.



1. La pasqua degli ebrei.

Gli ebrei erano schiavi del faraone d’Egitto. Mosè, dopo aver fatto esperienza di Dio, riceve l’ordine di mettersi alla testa del popolo di Dio e di condurlo dalla schiavitù d’Egitto alla libertà della terra promessa. Tra la schiavitù e la libertà c’era in mezzo il deserto. Gli ebrei avanzavano nel deserto come il chicco di frumento sepolto nel solco. Cominciarono a ribellarsi. Più avanzavano, più il terreno si faceva bruciato e più aumentava la tentazione di tornare indietro. Questo popolo, in cammino verso la libertà, vuol tornare indietro. Spesso si preferisce la piccola felicità del chicco di grano nel granaio, anziché la felicità del conseguimento della vera libertà.

Gli ebrei pensavano di andare verso la morte, come il chicco di grano che soffoca nel solco, ma in realtà il popolo andava verso la libertà, come il chicco verso la spiga. Non si può essere trasformati senza passare attraverso la morte. La grande libertà divina costa il sacrificio della propria felicità egoista. Per raggiungere la libertà stessa di Dio bisogna essere trasfigurati.



2. Pasqua di Cristo.

Gesù rivive nella sua pelle quello che aveva passato il suo popolo. Gesù per lasciare questo mondo e tornare al Padre deve farlo attraverso la sua morte e risurrezione. Questa non è il ritorno alla vita di prima della morte, ma è l’ingresso nel cuore stesso della Trinità. E’ diventato altro, pur rimanendo lo stesso soggetto. Il Verbo si è fatto uomo perché per lui noi vivessimo della vita di Dio. Vale la pena dare la propria vita per conoscere e possedere questa speranza.



  1. La nostra pasqua.

Tutto nella nostra vita è fatto di decisioni, ed ogni decisione è una pasqua. Ciò che nella mia vita non è decisione è segatura. Ci sono decisioni piccole e decisioni grandi, in ognuna si muore e si risorge in proporzione. Sono le nostre decisioni che costruiscono la vita eterna, perché Cristo risorto è al cuore della decisione che prendiamo.

Cristo risorto è vivo e presente nella nostra libertà, è attivo, è trasfigurante e trasfigurandoci ci divinizza, cioè, ci fa diventare quello che lui è. Questa verità più che difficile da capire è estranea alla mentalità di molti che si considerano credenti.

Precisiamo un po’ di più: Gesù conferisce alle nostre decisioni umane una dimensione divina. Umanizzare significa vivere da uomini, aprendoci al divino. Tutti i nostri gesti, specialmente quelli presieduti dalla carità, sono veramente umani e quindi veramente divini. Siamo uomini in divenire e sono le nostre decisioni a contribuire che diventiamo degli uomini. Diventiamo più uomini e più liberi operando perché il mondo sia più umano.

Tutto questo può costare sacrificio, ma quello che i non credenti non sanno è che tutte queste decisioni che ci fanno un po’ morire al nostro egoismo è un passaggio alla vita divina. Ogni decisione ha inscritta la pasqua: si muore un po' per risorgere un po'. La divinizzazione è già presente, è già operante. Quando ci si accorge di scivolare sulla dolce china dell’egoismo e si è tentati di non dare il meglio di sé per costruire un mondo più umano, bisognerebbe dire a se stesso: “Amico, Cristo risorto è vivo-presente-attivo-trasfigurante- divinizzante nel cuore delle tue decisioni umane e ti conferisce la dimensione del regno eterno”. Ciò che Cristo non può divinizzare è il peccato, perché esso non è umanizzante. Il peccato è il rifiuto della propria divinizzazione. Questo è l’egoismo, il contrario di quello che Dio è.

Giorno dopo giorno, decisione dopo decisione noi costruiamo un’eternità umano-divina e questo è possibile solo perché Cristo la costruisce con noi. Noi cristiani crediamo che questo è il senso della nostra esistenza. Se non fossimo che uomini potremmo costruire solo l’umano, come diceva Valéry: “Tutto va sotto terra e rientra nel gioco”. Ma colui che si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio è al cuore della nostra libertà, trasfigura divinamente la nostra attività umana. Dio è amore e per questo la grandezza dell’uomo è immensa, perché la sua vocazione va infinitamente al di là di quello che l’uomo potrebbe immaginare con le sole sue forze: egli è capace di amare come Dio ama.

tratto da GIOIA DI CREDERE (François Varillon)






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