Se ci accontentassimo di quanto è stato detto
finora, ci scontreremmo inevitabilmente con una temibile obiezione:
essere divinizzati è impossibile, perché Dio è esattamente ciò
che non si può diventare, e Dio non può l'impossibile. È un errore
credere che Dio possa tutto, Dio non può far sì che due e due
facciano cinque o sei, non è possibile; affermare questo significa
parlare a vanvera. Quando diciamo che Dio è trascendente, diciamo
precisamente che egli è tutt'altro, assolutamente altro e che tra
lui e noi c'è un abisso rigorosamente invalicabile. Di conseguenza
osare affermare che il senso dell'esistenza umana sta nell'essere
divinizzati significa dire qualcosa che non sembra possibile.
TRASFORMAZIONE
Ecco perché vi propongo di trasformare la
frase: «La nostra vocazione è quella di essere divinizzati» nella
frase seguente: «La nostra vocazione è di essere divinamente
trasformati». Non si diventa ciò che Dio è avanzando
tranquillamente lungo un piano inclinato. Non si sfocia così come si
è nella vita stessa di Dio. E’ necessaria una trasformazione
radicale. Per diventare ciò che Dio è bisogna che l'uomo sia
radicalmente trasformato.
E, così come il leit-motiv della prima
conferenza era «NON È...CHE», ora, in questa conferenza sarà:
TRANS (o TRAS). Ritroviamo questo prefisso in tras-formazione,
tras-figurazione, trans-fert, tras-porto, trans-siberiana,
trans-atlantico. Tutte le volte che interviene il prefisso “trans”
c'è la morte di qualcosa e la nascita di qualcos'altro. Il
viaggiatore che viene trasportato da Parigi a Pau muore a Parigi,
alla vita parigina, per nascere a Pau. Quando sarò trasportato da
Pau a Lione, morirò alla capitale del Béarn per rinascere nella mia
città di Lione. N on esiste «trans» senza la morte a qualcosa e la
nascita a qualcosa di nuovo. Ecco perché, se la nostra vocazione è
di essere divinizzati, è ineluttabile che il nostro destino si
presenti in forma di morte e risurrezione.
È importante definire questi due termini.
Quando parlo di morte, in tutto questo capitolo, non mi riferisco
semplicemente alla morte che sta alla fine della vita, all'atto
dell'esalare l'ultimo respiro. Mi riferisco alla morte a se stessi,
la morte al proprio egoismo che si chiama sacrificio. Quando parlo di
risurrezione non intendo il ritorno, dopo la morte, alla vita che si
possedeva prima di morire. Risuscitare significa passare a una vita
completamente diversa.
Quello che vorrei mostrarvi è che il passaggio
o il transfert alla vita divina, alla vita stessa di Dio che avviene
non solo dopo la morte, ma lungo tutta la vita, implica sempre una
morte e una nuova nascita o risurrezione. Scegliamo gli esempi
prendendoli dalla vita quotidiana, più semplice. Dobbiamo capire che
una crescita non è mai un ingrandire, ma sempre una trasformazione.
L'ingrandimento esiste solo nell'ordine dei minerali. Appena si ha
a che fare con un organismo vivente, anche se
animale, c'è trasformazione. Prenderò tre esempi, elementari ma,
secondo me, molto eloquenti.
BAMBINA CHE DIVENTA DONNA
La donna non è una grossa bambina: una donna
che fosse una grossa bambina sarebbe un mostro. Essa diventa tale
solo trasformandosi, cioè morendo al suo stato per nascere alla
situazione, allo stato di donna adulta.
Tocchiamo qui qualcosa di fondamentale. Se
chiedo a una bambina cosa potrei fare per farla contenta, lei
risponderà spontaneamente: vorrei essere grande, grande come la
mamma. Senza pensare nemmeno per un istante però che questo
comporterebbe la rinuncia alle sue bambole, alla sua vita spensierata
per passare a qualcosa di assolutamente nuovo, che non può avvenire
senza sofferenza. Essa non sa che, per diventare donna, deve morire
al suo stato di infanzia per nascere allo stato di adulta.
L'osservazione può sembrare insignificante; in
realtà si spinge molto lontano perché contiene un aspetto di ciò
che, nel mondo moderno, si chiama il mito. Uno degli aspetti
essenziali del mito è che l'uomo ha sempre la tendenza a proiettare
nel futuro il presente così com'è, senza trasformazione.
In questo senso possiamo dire che nella Bibbia, a
livello dell'espressione, c'è del mito. La Bibbia infatti ci
rappresenta la vita eterna come un riposo; e noi tendiamo a
immaginare la vita eterna sulla linea di quel riposo a cui aspiriamo,
nella nostra vita terrena, quando siamo stanchi. Quando lasciamo le
briglie sciolte alla nostra immaginazione, senza correggerla con la
riflessione, ci rappresentiamo questa vita eterna come una specie di
dolce, eterno far niente. La liturgia, mi direte, ci incoraggia
perché, nell'ufficio dei morti, recitiamo: l'eterno riposo dona
loro, o Signore. Soltanto che la liturgia presuppone che noi siamo
intelligenti, ovviamente!
Un altro modo di rappresentarci la vita eterna è
il banchetto, il pranzo di festa perché, nella vita presente, il
pasto preso in comune è il segno della fraternità, della pace e
della gioia. Parlandoci di banchetto eterno, siamo invitati a
proiettare nel futuro il presente così com'è. Questo è tipico del
mito, e bisogna riconoscere che la Bibbia, il vangelo stesso, la
liturgia hanno aspetti mitici che devono essere sottoposti a seria
critica.
Non scandalizzatevi quando vi dico che
l'espressione biblica deve essere sottoposta al vaglio della critica.
La parola di Dio è una parola umana, Gesù si rivolgeva agli uomini
del suo tempo e, nel desiderio di farsi capire, usava i vecchi miti a
loro accessibili e comprensibili. Lo specifico della teologia è
criticare nel senso buono del termine, cioè di fare la critica, di
riflettere, di comprendere cosa sta sotto il mito, in modo tale che
la nostra immaginazione non ceda alla tentazione tipicamente
infantile di proiettare nel futuro il presente così com'è, senza
trasformazioni.
Abbiamo quindi la tendenza a immaginarci la
felicità del cielo come un ingrandimento di ciò che quaggiù
chiamiamo felicità (il riposo, il banchetto, ecc.), mentre in realtà
la felicità del cielo è la felicità stessa di Dio. Essere
divinizzati, andare in cielo (come dice il catechismo) non è come
scalare una montagna, non è andare in un luogo: è invece
partecipare alla vita divina. E Dio non è altro che amore; quindi la
vita eterna consiste unicamente nell'amare, nell'uscire da sé, nel
non pensare a se stessi, nel non chiudersi e ripiegarsi su se stessi,
nel far passare gli altri prima di noi. Questa è la felicità del
cielo.
BRUCO CHE DIVENTA FARFALLA
La farfalla non è un grosso bruco, perché la
crescita non è mai un ingrossamento. Ma se il bruco avesse una
coscienza, e io potessi parlargli, come in una fiaba, gli chiederei
qual è il suo sogno. E il bruco mi risponderebbe sicuramente, in
modo mitico, che vorrebbe essere il bruco più grosso di tutta la
foresta, il re, l'imperatore dei bruchi che, grazie alle sue
dimensioni e al suo peso, potesse regnare su tutti gli altri bruchi
della foresta.
Questo meccanismo viene chiamato volontà di
potenza; e non è altro che l'amplificazione di ciò che si è, senza
trasformazione. Il bruco non sa che, per diventare ciò che è
destinato ad essere, deve liberarsi dal suo corpo di bruco e deve
rivestirsi di un corpo nuovo. Esso esiste, infatti, solo per
diventare farfalla: è questa la sua vocazione. Solo quando sarà
diventato farfalla sarà veramente quello che deve essere.
CHICCO DI FRUMENTO CHE DIVENTA SPIGA
E inutile dilungarci su questi esempi
elementari, dal momento che Gesù Cristo si è premurato egli stesso,
nel vangelo, di scegliere un esempio estremamente eloquente, nel
capitolo 12 del vangelo di Giovanni: la storia del chicco di
frumento. Gesù non sviluppa questa storia, ma ci è facilissimo
farlo. Se qualcuno di voi possiede un po' di talento letterario, gli
consiglierei davvero di scrivere la storia del chicco di frumento
(una parabola). Il chicco di frumento è perfettamente felice nel suo
granaio. Niente pioggia, niente umidità, i piccoli amici del mucchio
di grano sono molto gentili: niente litigi, è veramente tutto
perfetto. Permettetemi di dire: piccola felicità del chicco di
frumento in un granaio. Fate la trasposizione: felicità dell'uomo,
onesta agiatezza economica, successo negli affari, buona salute e via
di seguito... Certo non dobbiamo disprezzare la felicità umana:
auguro a tutti voi di essere felici di questa felicità, felicità di
un chicco di frumento nel suo granaio... eppure! piccola felicità a
confronto di ciò che dobbiamo essere per tutta l'eternità.
Immagino che questo chicco di frumento sia molto
pio; quindi ringrazia Dio: Signore, io ti ringrazio di tutto quello
che mi dai, questo benessere che fa sì che io sia così felice nel
mio granaio, e mi auguro che tutto questo duri per sempre! Ha ragione
di ringraziare Dio. Soltanto, attenzione! Non vorrei che questo
chicco di frumento si rivolgesse a un Dio che non esiste! Ebbene io
dico: un Dio che fosse soltanto l'autore e il garante della piccola
felicità del chicco di frumento nel granaio, anche se questa
felicità è assolutamente legittima, un Dio così non esiste, è un
idolo. È esattamente il Dio negato da molti atei, nostri
contemporanei. Possiamo sostenere che abbiano torto? E se il chicco
di frumento si ostina a cantare le sue lodi io prendo la penna e
scrivo un trattato per parlare dell'illusione dei credenti.
Un bel giorno il mucchio di grano viene caricato
su una carriola e portato in aperta campagna. La campagna è ancora
più bella e gradevole del granaio. E così, davanti al cielo
azzurro, al sole, ai fiori, gli alberi, le pianure e le montagne, il
chicco ringrazia Dio ancora di più: Signore ti ringrazio, tutto
questo è talmente bello! Ha ragione, bisogna ringraziare Dio delle
cose belle che ci sono quaggiù. Ma è sempre un chicco di frumento:
un Dio che facesse in modo che un chicco di frumento resti un chicco
di frumento, un Dio che mantenesse il chicco nel granaio, senza
nessuna fecondità, un Dio simile non esiste.
Si arriva sulla terra lavorata di recente: il
sacco di grano viene rovesciato sul suolo: piccolo brivido, è
fresca! Oh, non importa, è una sensazione nuova, piacevole. Ma ecco
che il chicco di grano viene conficcato nella terra. Non vede più
nulla, non sente più nulla, l'umidità gli penetra fin nelle ossa.
Il chicco di grano che, attraverso l'inevitabile morte, sta per
essere trasformato, sta per diventare quello che deve essere, cioè
una spiga rigogliosa, rimpiange il granaio in cui, in effetti, era
tanto felice, ma di una piccola felicità umana. In questo preciso
momento dice quello che milioni di uomini dicono attorno a noi: se
Dio esistesse, cose simili non succederebbero. È davvero un peccato
perché proprio qui siamo in presenza del vero Dio: il Dio che
trasforma il chicco per farlo passare dallo stato di granello allo
stato di spiga; e questo è possibile solo attraverso la morte.
L'unico Dio che esiste è quello che ci fa crescere, che ci fa
passare da una condizione semplicemente umana a una condizione di
uomo divinizzato.
È questa la storia di tutti noi, è questa la
condizione umana. Non esiste crescita senza trasformazione, non
esiste trasformazione senza morte e nuova nascita. Stabilito questo,
ci sono, nella storia dell'umanità, tre tipi di morte e di nascita,
tre tipi di trasformazioni, tre pasque tipiche.
Il termine pasqua deriva da una parola ebraica
che significa «passaggio»: pèsah in ebraico, pascha in greco,
pasqua in italiano.
Nella nostra vita ci sono due passaggi.
Il primo passaggio è la nostra nascita umana:
siamo passati dal nulla in cui eravamo immersi, alla situazione di
neonato nella sua culla. Passaggio prodigioso già questo, passaggio
dal nulla all'esistenza umana che è esistenza intelligente e libera.
Ma questo primo passaggio è soltanto la condizione di un secondo
passaggio.
Il secondo passaggio è quello da un'esistenza
umana all'esistenza propriamente umano-divina. Questo passaggio è
incommensurabile rispetto al primo: se non ne siamo convinti
significa che non sappiamo quel che diciamo quando pronunciamo la
parola Dio. È enorme passare dal nulla all'esistenza umana, ma è
molto più enorme passare dall'esistenza umana all'esistenza
umano-divina. Il primo passaggio avviene senza il nostro consenso;
non ci viene chiesta la nostra autorizzazione per metterci al mondo.
Il secondo passaggio non può avvenire senza di noi, e si compie
lungo tutta la vita.
Se si dovesse tradurre in termini spaziali la
differenza tra questi due passaggi, direi che la distanza tra il
nulla e l'esistenza umana è paragonabile alla distanza che c'è tra
il pavimento e questo tavolo; e che la distanza tra l'esistenza umana
e l'esistenza umano-divina è
paragonabile alla distanza che c'è tra la terra e
il sole. Ma il mio paragone sarebbe molto sbilenco, perché la
distanza tra la terra e il sole è misurabile e misurata, mentre la
distanza con Dio non è misurabile.
Colgo l'occasione per dirvi, di sfuggita, che,
secondo il cristianesimo, l'esistenza umana è veramente sublime.
Diventare ciò che Dio è: pensateci! Ma se l'esistenza umana è
sublime, essa è anche tragica; ed è impossibile che sia
diversamente. Non c'è via di mezzo tra essere divinizzati ed essere
dannati. Il sublime non sarebbe veramente sublime se il suo contrario
non fosse il tragico.
La pasqua è questo secondo passaggio, e ci sono
tre pasque, tre passaggi trasformatori o trasfiguranti nella storia
dell'umanità.
1. La pasqua degli ebrei.
Gli ebrei erano schiavi del faraone d’Egitto.
Mosè, dopo aver fatto esperienza di Dio, riceve l’ordine di
mettersi alla testa del popolo di Dio e di condurlo dalla schiavitù
d’Egitto alla libertà della terra promessa. Tra la schiavitù e la
libertà c’era in mezzo il deserto. Gli ebrei avanzavano nel
deserto come il chicco di frumento sepolto nel solco. Cominciarono a
ribellarsi. Più avanzavano, più il terreno si faceva bruciato e più
aumentava la tentazione di tornare indietro. Questo popolo, in
cammino verso la libertà, vuol tornare indietro. Spesso si
preferisce la piccola felicità del chicco di grano nel granaio,
anziché la felicità del conseguimento della vera libertà.
Gli ebrei pensavano di andare verso la morte,
come il chicco di grano che soffoca nel solco, ma in realtà il
popolo andava verso la libertà, come il chicco verso la spiga. Non
si può essere trasformati senza passare attraverso la morte. La
grande libertà divina costa il sacrificio della propria felicità
egoista. Per raggiungere la libertà stessa di Dio bisogna essere
trasfigurati.
2. Pasqua di Cristo.
Gesù rivive nella sua pelle quello che aveva
passato il suo popolo. Gesù per lasciare questo mondo e tornare al
Padre deve farlo attraverso la sua morte e risurrezione. Questa non è
il ritorno alla vita di prima della morte, ma è l’ingresso nel
cuore stesso della Trinità. E’ diventato altro, pur rimanendo lo
stesso soggetto. Il Verbo si è fatto uomo perché per lui noi
vivessimo della vita di Dio. Vale la pena dare la propria vita per
conoscere e possedere questa speranza.
- La nostra pasqua.
Tutto nella nostra vita è fatto di decisioni,
ed ogni decisione è una pasqua. Ciò che nella mia vita non è
decisione è segatura. Ci sono decisioni piccole e decisioni grandi,
in ognuna si muore e si risorge in proporzione. Sono le nostre
decisioni che costruiscono la vita eterna, perché Cristo risorto è
al cuore della decisione che prendiamo.
Cristo risorto è vivo e presente nella nostra
libertà, è attivo, è trasfigurante e trasfigurandoci ci divinizza,
cioè, ci fa diventare quello che lui è. Questa verità più che
difficile da capire è estranea alla mentalità di molti che si
considerano credenti.
Precisiamo un po’ di più: Gesù conferisce alle
nostre decisioni umane una dimensione divina. Umanizzare significa
vivere da uomini, aprendoci al divino. Tutti i nostri gesti,
specialmente quelli presieduti dalla carità, sono veramente umani e
quindi veramente divini. Siamo uomini in divenire e sono le nostre
decisioni a contribuire che diventiamo degli uomini. Diventiamo più
uomini e più liberi operando perché il mondo sia più umano.
Tutto questo può costare sacrificio, ma quello che
i non credenti non sanno è che tutte queste decisioni che ci fanno
un po’ morire al nostro egoismo è un passaggio alla vita divina.
Ogni decisione ha inscritta la pasqua: si muore un po' per risorgere
un po'. La divinizzazione è già presente, è già operante. Quando
ci si accorge di scivolare sulla dolce china dell’egoismo e si è
tentati di non dare il meglio di sé per costruire un mondo più
umano, bisognerebbe dire a se stesso: “Amico, Cristo risorto è
vivo-presente-attivo-trasfigurante- divinizzante nel cuore delle tue
decisioni umane e ti conferisce la dimensione del regno eterno”.
Ciò che Cristo non può divinizzare è il peccato, perché esso non
è umanizzante. Il peccato è il rifiuto della propria
divinizzazione. Questo è l’egoismo, il contrario di quello che Dio
è.
Giorno dopo giorno, decisione dopo decisione noi
costruiamo un’eternità umano-divina e questo è possibile solo
perché Cristo la costruisce con noi. Noi cristiani crediamo che
questo è il senso della nostra esistenza. Se non fossimo che uomini
potremmo costruire solo l’umano, come diceva Valéry: “Tutto va
sotto terra e rientra nel gioco”. Ma colui che si è fatto uomo
perché l’uomo potesse diventare Dio è al cuore della nostra
libertà, trasfigura divinamente la nostra attività umana. Dio è
amore e per questo la grandezza dell’uomo è immensa, perché la
sua vocazione va infinitamente al di là di quello che l’uomo
potrebbe immaginare con le sole sue forze: egli è capace di amare
come Dio ama.
tratto da GIOIA DI CREDERE (François Varillon)
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