Miei
cari Amici,
un’anima
d’orazione, vivamente cosciente della trascendenza divina, e della
solitudine in cui essa ci immerge, mi ha detto: “Nell’ora della
morte sarò sola di fronte a Dio: cerco di abituarmi a questo fin da
quaggiù.”
Anch’io
ho pensato a lungo che nell’ora della morte saremo inesorabilmente
soli... per scoprire oggi che avevo torto: scrivo questa lettera per
spiegarmi!
Non
appena l’anima si separa dal corpo, evidentemente, non è più
sola: è in presenza della Corte celeste, in particolar modo della
Santa Vergine, dell’Angelo custode, del nostro santo patrono, ecc.
Sono presenti anche le anime del Purgatorio e, per i reprobi... i
demoni!
Ma
ciò che chiamiamo morte corrisponde piuttosto agli ultimi istanti
della nostra vita, generalmente definiti agonia, con tutte le sue
sofferenze fisiche e morali. È soprattutto in quel momento che
pensavo sarei stato solo. Ma, rileggendo il Vangelo e la Bibbia, ho
scoperto il mio errore...
“Ai
piedi della Croce stavano Maria e il discepolo che Gesù amava.” La
Chiesa è rimasta affascinata da queste parole e da secoli canta lo
Stabat Mater per contemplare la Compassione di Maria, in occasione
della Settimana Santa e della festa della Madonna dei Sette Dolori.
La Chiesa è talmente consapevole dell’importanza di questa
presenza da richiederla con insistenza nella salutazione angelica:
“Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte.”
Maria
conta così tanto per Gesù che, in quell’ora suprema, le rivolge
ancora la parola, così come a Giovanni: “Donna, ecco tuo Figlio...
ecco tua madre.” Parla anche al Buon Ladrone (che dunque non è
morto “solo”): “Questa sera sarai con me in Paradiso.” Se
Gesù si lamenta della solitudine, lo fa piuttosto con il Pa- dre:
“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”
Tutto
questo sconvolge le nostre corte vedute sulla solitudine e sulla
morte. La Chiesa ci offre San Giuseppe come patrono della buona
morte. Giuseppe non è morto solo davanti all’infinito metafisico,
ma “circondato” da Maria e da Gesù, il Verbo Incarnato in
Persona. Maria era una creatura, e anche Gesù nella sua umanità:
questo è il modello della “buona morte,” quella che noi dobbiamo
domandare.
È
un po’ come se Dio, in quell’istante critico, volesse quasi
scusarsi d’essere infinito, e volesse offrirci i limiti della
creatura per proteggerci da quella voragine intollerabile. Dipende
solo da noi approfittarne, volgendoci verso Maria e l’umanità di
Gesù. Se ce lo propone la Chiesa, ce lo propone anche Dio. E Dio non
propone niente per ridere: la Chiesa circonda i morenti cantando
“Parti, anima cristiana...” con la gioia silenziosa e raggiante
della casa dei moribondi di Madre Teresa!
Già
nell’Antico Testamento, certe morti sono solidali molto più che
solitarie. Nel Libro dei Martiri d’Israele, ad esempio, una madre
esclama: “Figlio, abbi pietà di me che ti ho portato in seno nove
mesi, che ti ho allattato per tre anni... Non temere questo carnefice
ma, mostrandoti degno dei tuoi fratelli, accetta la morte, perché io
ti possa riavere insieme con i tuoi fratelli nel giorno della
Misericordia.” Immagine di tanti altri nella Chiesa, a cominciare
dalle Carmelitane di Compiègne che si presentarono in gruppo al
patibolo cantando il Veni Creator.
Teresa
del Bambino Gesù proclama, molto meglio di quanto sappia fare io:
Come
si può dire che sia più perfetto allontanarsi dai propri cari? Si è
mai rimproverato a dei fratelli di combattere sullo stesso campo di
battaglia, si è mai fatto loro rimprovero di volare insieme per
cogliere la palma del martirio? Senza dubbio si è giudicato con
ragione che essi si facevano coraggio a vicenda, ma altresì che il
martirio di ciascuno diventava il martirio di tutti. Così accade
nella vita religiosa che i teologi chiamano un martirio. Dandosi a
Dio, il cuore non perde la sua tenerezza naturale, anzi, que- sta
tenerezza cresce divenendo più pura e più divina. (Storia di
un’anima, 283)
Così,
noi non siamo mai soli di fronte a Dio... se non appunto a causa del
peccato: è il peccato che ci isola, non la trascendenza divina.
Certo, le creature possono allontanarci da Dio, e Gesù ci avverte:
“Se qualcuno non odia... Non sono venuto a portare la pace ma la
spada: il padre contro il figlio, ecc...” Ma ciò che bisogna
odiare, e talora fino al sangue, è il peccato degli altri, non la
loro anima.
Dio
è l’unica Fonte a cui dobbiamo bere per saziare la sete del nostro
cuore, Fonte del fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e
dell’amore che deve regnare tra noi. Questo amore è la nostra sola
beatitudine, non bisogna cercarne un’altra, e si deve sacrificare
tutto per raggiungerlo (“Se il tuo occhio ti scandalizza, ecc.”).
Teresa
conferma:
“Ecco
il maestro che ti do, ti insegnerà tutto quello che devi fare.
Voglio farti leggere nel libro di vita ov’è contenuta la scienza
di Amore [Parole di Gesù a Santa Margherita Maria]. La scienza
d’Amore, oh sì! La parola risuona dolce all’anima mia, desidero
soltanto questa scienza. Per essa, avendo dato tutte le mie
ricchezze, penso, come la sposa dei cantici, di non aver dato nulla.
(241)
E
insiste:
Il
mio cuore sensible e affettuoso si sarebbe dato facilmente se avesse
trovato un cuore atto a capirlo... Come ringrazio Gesù di avermi
fatto trovare “soltanto amarezze nelle amicizie della terra!” Con
un cuore come il mio, mi sarei lasciata prendere e tagliare le ali,
allora in qual modo avrei potuto “volare e riposarmi?” Un cuore
abbandonato agli affetti delle creature, come può unirsi intimamente
con Dio?... Sento che questo non è possibile. Senza aver bevuto alla
coppa avvelenata dell’amore troppo ardente delle creature, sento
che non posso ingannarmi; ho visto tante anime sedotte da questa
falsa luce, volare come povere farfalle e bruciarsi le ali, poi
ritornare verso la vera, dolce luce dell’amore che dava ad esse
nuove ali più brillanti e più leggere affinché potessero volare
verso Gesù, il Fuoco Divino “che brucia senza consumare” [San
Giovanni della Croce]. Ah, lo sento, Gesù mi sapeva troppo debole
per espormi alla tentazione! Forse mi sarei lasciata bruciare tutta
dalla luce ingannatrice se l’avessi vista brillare ai miei occhi...
Non è stato così: ho incontrato solamente amarezza là dove anime
più forti incontrano la gioia e se ne distaccano per fedeltà. Io
non ho dunque alcun merito per non essermi abbandonata
all’amore
delle creature, poiché da esso fui preservata solo per la grande
misericordia del Signore! Riconosco che, senza di Lui, avrei potuto
cadere in bas- so quanto Santa Maddalena. (118-119)
Tutto
questo è chiaro... o almeno ci sembra tale, ma è una chiarezza
pericolosa che corriamo sempre il rischio di irrigidire e perciò di
tradire. Perché, lungi dal separarci, questo amore esclusivo ci
unisce, secondo il dogma della comunione dei santi: “Amatevi gli
uni gli altri come io vi ho amati: è da questo segno che si
riconosceranno i miei discepoli.”
Così
l’amore di una creatura, se viene da Dio, può essere sacro quanto
Dio stesso: come si può disprezzare la dolcezza della comunione dei
santi? E tuttavia questo amore così umano è talmente divino che è
inaccessibile ai nostri cuori duri, impermeabili alla dolcezza
ineffabile di Gesù. Rifiutando di amare quelli che Dio ama come Lui
li ha amati, noi crocifiggiamo questo Cuore “che ha tanto amato gli
uomini e non ha ricevuto in ricompensa che la loro ingratitudine e il
loro disprezzo.”
Teresa
riconosce di aver capito queste parole solo l’ultimo anno della sua
vita: ha dovuto attendere ventitré anni! La sola possibilità di
arrivarci a nostra volta, è che il nostro cuore di pietra sia
sostituito da un cuore di carne, grazie a delle operazioni divine che
San Giovanni della Croce presenta come orribili, ma che possono
diventare dolci se sappiamo consacrarci alla Santa Vergine... come
assicura Grignion de Montfort.
Per
tutta la sua vita Teresa ha cantato questa dolcezza. Se accettiamo di
lasciarci affascinare da essa, otterremo forse di entrare nella via
di cui Gesù ha detto: “Il Regno dei Cieli appartiene ai bambini e
a chi è come loro... Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto
nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai
rivelate ai piccoli... Imparate da Me, che sono mite e umile di
cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo,
infatti, è dolce e il mio carico leggero.” Dice Teresa:
Quest’anno,
cara Madre, il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cosa è
la carità; prima lo capivo, è vero, ma in modo imperfetto, non
avevo approfondito queste parole di Gesù: “Il secondo comandamento
è simile al primo...” Nell’ultima cena, quando egli sa che il
cuore dei suoi discepoli brucia ancor più di amore per lui che si è
dato ad essi nell’ineffabile mistero della Eucarestia, questo dolce
Salvatore vuole dare un comandamento nuovo. Dice loro con tenerezza
inesprimibile: “Vi do un coman- damento nuovo, di amarvi
reciprocamente; come io ho amato voi, amatevi l’un l’altro.”
(288)
A
questo punto, Teresa sottolinea che Gesù non ha amato i suoi
discepoli a causa delle loro qualità naturali (“C’era tra loro e
Lui una distanza infinita”), e aggiunge:
Ho
visto che non amavo le mie sorelle come le ama Dio... ma soprattutto
ho capito che la carità non deve restare affatto chiusa nel fondo
del cuore... non basta amare, bisogna dimostrarlo... Dico che è
diffi-cile, piuttosto dovrei dire che sembra difficile, perché il
giogo del Signore è soave e leggero; quando lo si accetta, sentiamo
subito la sua dolcezza... Non basta dare a chiunque mi chieda qualche
cosa, bisogna che io vada incontro ai desideri, che mi mostri molto
grata ed onorata di rendermi utile, e se pren- dono una cosa a mio
uso, non debbo mostrare di rimpiangerla, ma al contrario sembrar
felice di esserne sbarazzata. (289-298)
E
ancora:
C’è
un modo così garbato di rifiutare quello che non si può fare, che
il rifiuto fa piacere quanto il dono... su questa via non c’è che
il primo passi che costi... Oh, gli insegnamenti di Gesù come sono
contrari ai sentimenti della natura! Senza il soccorso della sua
grazia sarebbe impossibile non solamente metterli in pratica, bensì
anche capirli. (301)
Teresa
parla dall’alto di una vetta dove l’amore di Dio e del prossimo
sono tutt’uno, e il secondo comandamento diventa simile al primo.
Ma non appena si scende dalle altezze in cui Teresa si librava al
termine della sua vita, la concupiscenza carnale dei cuori umani
entra in conflitto con l’amore di Dio e diventa un’impurità. Ma,
a questo proposito, devo denunciare un tranello terribile che
minaccia i nostri cuori di pietra... tranello in cui cadono tanti
cristiani, persino tra i religiosi e le religiose. È un tranello
talmente infernale, talmente lontano da Teresa ch’ella non lo
sospettava nemmeno lontanamente, non immaginando (come Gesù stesso,
oso dire) che le sue parole potessero fornire un pretesto a tenebre
così spaventose...Gesù infatti dice: “Se amate quelli che vi
amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso!” E
Teresa conferma: “Si
è naturalmente felici di fare un dono a un amico, soprattutto ci
piace fare delle sorprese; ma ciò non è affatto carità, perché lo
fanno anche i peccatori” (296).
Viene
pertanto preclusa la gioia di fare dei piaceri e di ricevere dei
doni? Come direbbe San Paolo: “Absit! Lungi da me tutto ciò!”
Nella sua infanzia, Teresa non pensava a elevarsi a tali altezze, e
lasciava parlare il suo cuore così com’era: cuore di carne
amorevole, affettuoso, sensibile... anche troppo, come lei stessa
ammette, prima della grazia di Natale!
Dunque
sì, sarebbe potuta cadere, come Maddalena, nelle trappole dell’amore
umano, se non ne fosse stata preservata. Avrebbe potuto conoscere la
strada delle prostitute che varcheranno davanti a noi la porta del
Regno dei Cieli, perché almeno loro avranno lasciato parlare il loro
cuore, mentre noi chiudiamo il nostro. Per evitare i pericoli
dell’amore noi ce ne proteggiamo e questo ci preserva dalle
impurità... ma ci preserva dall’amore stesso! Il nostro cuore
allora diventa gradualmente un cuore di pietra: questo è il
risultato, ahimè quanto frequente, della nostra volontà di
“perfezione,” questo è il tranello che voglio denunciare in
questa Lettera.
È
evidente che Teresa non ha mai agito così, e che Gesù non
incoraggia in questo senso: Egli non ci rimprovera di amare quelli
che ci amano, né di riporre la nostra gioia nelle delizie e nei
tormenti dell’amore umano. Ripeto dunque con lei: “Dandosi a Dio,
il cuore non perde la sua tenerezza naturale, anzi, questa tenerezza
cresce divenendo più pura e più divina.”
Ma
come crescerà se ne diffidiamo, se la blocchiamo con il pretesto che
è impura, che ci espone a gravi pericoli... e se, in questo modo, la
facciamo morire? Mi baso qui sull’esempio di tutti i santi, a
cominciare proprio da Teresa bambina che si rifiuta di salire le
scale se sua madre non le offre una vera e propria liturgia
dell’amore – egoista, infantile, impura!... Ma gradino
indispensabile per arrivare un giorno alla grazia di Natale. Scrive
pressappoco Teresa (cap. 5): “Ero
veramente insopportabile chiedevo in continuazione a Maria di
consolarmi, di rassicurarmi, infliggendole il peso delle mie lacrime;
e dopo piangevo per aver pianto.”
Quadro
pietoso, ma cammino obbligato per non diventare un cuore di pietra, e
per orientarsi verso il cuore di fuoco che Gesù ci vuol dare. Questo
cuore di fuoco, Teresa lo ha presentito con Celina molto prima che
l’una e l’altra fossero purificate: “... mi sembra che
l’effusione delle nostre anime somigliasse a quella di Santa Monica
con suo figlio, quando al porto di Ostia restavano perduti
nell’estasi alla vista delle meraviglie del Creatore!... Mi sembra
che ricevessimo grazie di un ordine tanto elevato come quelle
concesse ai grandi santi.”
Questo
cuore che vibra in ogni occasione senza preoccuparsi di essere puro e
neanche prudente, questo cuore che funziona a proposito e a
sproposito è il solo vero cammino della perfezione: “Amami come
sei – diceva Gesù a non so più chi – se aspetti di essere puro,
non mi amerai mai!”
Ed
è quello infatti che capita a tante anime che chiudono il loro cuore
in un cassetto perché ne intuiscono la bruttura ma non la vogliono
vedere e tanto meno mostrare: e così, invece, lungi dall’essere
purificato, il loro cuore di carne si incista e muore, diventando
segretamente un cuore di pietra.
Ci
si deve allora abbandonare senza freni ai disordini della passione?
Si ha il diritto di divenire deliberatamente peccatori, con il
pretesto che le prostitute ci passeranno avanti? Non esageriamo:
lasciar parlare il proprio cuore, anche imprudentemente (ed è
inevitabile non appena ci si rifiuta di indurirsi), non espone
necessariamente al peggio. Teresa riconosce semplicemente che avrebbe
potuto “bruciarsi le ali, per poi ritornare verso la vera, dolce
luce dell’amore” per trovarvi “nuove ali più brillanti e più
leggere per volare verso Gesù.”
E
se i rischi diventano più gravi? Ebbene, mi richiamo a Giovanni
Paolo I “Rischio
di dire uno sproposito, ma lo dico ugualmente: il Signore tanto ama
l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Ma
perché coloro che li hanno commessi se ne pentano e diventino più
umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli,
quando si sa di aver peccato gravemente.”9
Sì,
l’orgoglio delle “angeliche” di Port-Royal è più grave di
quello dei peccatori come Gilles de Rais. “Preferisco i santi che
peccano (Péguy, se mi ricordo bene, prestava queste parole a Dio) ai
peccatori che non peccano...” (e che, sottinteso, non amano).
Dunque
sì, preferisco peccare nella povertà tremante di chi è umile di
cuore e accetta il rischio dei peggiori disordini, ma che rifiuta di
indurirsi – per capitare forse, giunto agli estremi, nel “rifugio”
ambito da Teresa, se le avessero chiuso le porte del Carmelo: un
rifugio in cui le anime pure si sarebbero confuse con quelle pentite,
in uno stesso amore e in una stessa gioia soprannaturale.
Era
questa l’intuizione di Padre Lataste quando ha fondato le
Domenicane di Betania: confondere le “riabilitanti” e le
“riabilitate” nella coscienza di essere tutte peccatrici
perdonate... Tra queste le più pure sono le più perdonate, come
Teresa proclamava: “In verità – diceva sul letto di morte –
sono una grande pec catrice! Mi sembra di versare lacrime di
contrizione perfetta” (Novissima Verba, 12 Agosto).
Non
c’è salvezza al di fuori di questa contrizione: la Storia di
un’anima è la storia di una grande peccatrice, così salvata fin
dall’infanzia da ricevere alla fine il privilegio di mangiare alla
tavola dei peccatori... e di ricevervi la corona suprema del
martirio.
Se
accettiamo questa prospettiva, riconoscendo che ci supera, chiederemo
aiuto e cadremo nella voragine della supplica fiduciosa. Ma se
pretendiamo di fare meglio a colpi di virtù, questa virtù sarà
peggio di un amore troppo umano, perché ci allontanerà dalla via
dei piccoli, degli umili e dei peccatori, la sola per la quale Gesù
è venuto in questo mondo: “Non son venuto a chiamare i giusti ma i
peccatori.”
Terminerò
con qualche riga tratta da La Lumiére crucifiée:
Dio
non ha mai detto prima di Gesù Cristo: “Sto alla porta e busso.
Busso alla porta del tuo cuore, e se mi apri cenerò con te, avrò
con te un nuovo tipo d’intimità. Chi cenerà con me sarà ancora
nell’oscurità della fede, ma potrà vivere “come se vedesse
l’invisibile.”
...
A partire dalla Pentecoste, infatti, l’oscurità della fede è
sempre altrettanto assoluta, ma è abitata o “minacciata” da una
prossimità, da una pressione del Cielo che fa dell’intimità con
Dio un dono nuovo, un’intimità nuova, che i mistici cristiani
descrivono con termini che sono inapplicabili al di fuori di Cristo.
...
Amare i nostri fratelli come Gesù li ha amati, è volere per loro
come per noi il beneficio dell’acqua viva, è dare la propria vita
perché essi ricevano a loro volta questa acqua e questo fuoco che
sono la nostra beatitudine fin da quaggiù. La carità fraterna è
una specialità cristiana, perché essa ama Gesù attraverso i nostri
fratelli: quelli che non Lo conoscono non possono amare in un modo
come questo, che trasfigura l’amore fraterno. Possono amare gli
altri, ma non in quel modo.
...
Non si può dire che si ama qualcuno se non si desidera per lui la
stessa felicità che si vuole per sé. Ora il dono portato da Gesù è
la vita eterna, il Cielo, che è Gesù stesso. Non si ama il prossimo
come Gesù se non si desidera per lui questa beatitudine, e non si
può desiderarla per lui se non la desideriamo in primo luogo per noi
(carità ben ordinata...). Si vede bene il legame che c’è tra
l’acqua viva e l’amore fraterno, l’amore dei poveri: Madre
Teresa non mi smentirà su questo punto.
Per
questo motivo Gesù nell’ultima Cena, ha compiuto il gesto folle di
lavare i piedi dei discepoli: “Vi ho dato infatti l’esempio.”
Gesto gratuito, gesto inutile (“Voi siete mondi”), che canta
l’amore trinitario nella follia della sua gratuità. Gesto che
lascia trasparire il fuoco che animava il cuore di Gesù, il suo
desiderio di infiammare i discepoli al calore di quel fuoco, di
abbeverarli alle fonti d’acqua viva di cui la vita trinitaria è il
germe ma di cui questo fuoco è la consumazione, l’esplosione
finale che infiammerà la terra e provocherà la Parusia.
Festa
dell’Epifania 2000 - Fr. M.D. Molinié, o.p.
9
Udienza
del 6 settembre 1978.
10
Non parlo dei suoi crimini orribili, ma del suo orgoglio che seppe
capitolare davanti alla minaccia dell’inferno.
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