Senso
di colpa e peccato
Oggi
si parla molto di senso di colpa e gli psicologi dicono che vogliono
liberarci da esso. In verità, c'è un solo modo di liberarsi dal
senso di colpa, ed è quello di scoprire e riconoscere il proprio
peccato. Il complesso di colpa è una grande illusione, che consiste
nel tormentarsi per peccati che non sono veramente tali e che in ogni
caso non giustificano un tale malessere della coscienza. Ma sotto a
questa oscura, scoraggiante, e in fondo vana, sofferenza si nasconde
una verità profonda: la verità del nostro peccato, ed è questa
verità che ci libererebbe se noi la sapessimo riconoscere. -
La
maggior parte dei rimproveri che ci vengono fatti mirano a farci
diventare qualcos'altro da quello che siamo, il che è assolutamente
impossibile. Essi alimentano il nostro senso di colpa, e cioè la
vergogna di essere noi stessi. Quando scoprirete il vostro peccato,
vedrete che esso consiste precisamente nel rifiuto di essere voi
stessi, così come Dio vi ha fatto o vi vuole. Il peccato consiste
nel non essere felici, nel non cercare la felicità dove essa si
trova, e perciò nel non trovarla. Quando si comincia a capirlo,
tutto il resto non ci impegnerà più di tanto e il complesso di
colpa sparirà molto presto.
Per
parlare del peccato, bisogna dunque parlare della felicità e del
fine ultimo.
Qual
è lo scopo ultimo della vostra vita?
Non
è facile scoprirlo perché spesso le nostre motivazioni sono
mischiate, e anche perché accettiamo senza problemi questa oscurità
e questa confusione. Ora questa rinuncia a capire che cosa vogliamo
davvero nella vita è già un peccato, e molto più grave di quello
che sembra.
Ho
conosciuto un tale che nella sua vita ha cercato in modo sistematico
un'attività che gli consentisse di guadagnare bene senza lavorare
troppo: si è specializzato nel commercio del merluzzo ed è
impegnato solo una volta al mese. È un fine come un altro. Ma è un
fine ultimo?
Quando
si invitano delle persone a cercare il loro fine ultimo (non parlo
dei fanatici che credono d'averlo trovato nella lotta senza quartiere
contro ciò che essi ritengono il male), si incontrano sempre delle
resistenze notevoli, e questo, lo ripeto, è gravemente colpevole,
perché non si ha il diritto di vivere come un sonnambulo senza
domandarsi che cosa si sta a fare sulla terra. Questo peccato è una
delle forme del suicidio invisibile da cui vi ho spesso messo in
guardia, è un po' l'eutanasia della disperazione, una fuga in avanti
per non riconoscere la propria disperazione.
Se
facessi delle conferenze sull'educazione, verrebbero sicuramente
molti genitori. Ma se io dicessi loro: «Il fondamento
dell'educazione consiste nel conoscere chiaramente il fine ultimo
della vita, e in particolare della propria», rischierebbero, come i
giudei di fronte all'adultera, di andarsene alla chetichella uno dopo
l'altro, perché non avrebbero nessuna voglia di interrogarsi e di
scrutare in se stessi.
Servire
o servirsi
Forse
penserete che vi parlo di fine ultimo per parlarvi di Dio. E mi
obietterete che non è possibile farsi un'idea chiara del fine ultimo
della vita quando non si è neanche certi che Dio esiste.
Non
avete tutti i torti, state attenti però che questi due problemi sono
nettamente distinti. Si può dubitare dell'esistenza di Dio ed essere
nello stesso tempo disposti a dare la propria vita per valori che
sono di fatto divini: la bellezza, la verità, la giustizia, il
servizio del prossimo. La questione essenziale è questa: vivrò per
servire o per servirmi? Non è indispensabile credere nell'esistenza
di Dio per rispondere che si vuole servire, basta lasciar parlare il
proprio cuore ed essere se stessi. Se uno si accorge che vive non per
servire, ma per servirsi, deve ammettere che questo è immorale:
ammissione dura e penosa quanto volete, ma altrettanto liberatrice.
Se
invece desiderate servire, siete di fatto alla ricerca di qualcosa
che meriti di essere servito, e che dovrà essere qualcosa di più
grande di voi, perché altrimenti la vita non avrebbe senso.
Sono
questioni molto impegnative, ma non volerle affrontare significa non
volere servire, anche se non lo si vuole ammettere. Dietro a questa
scelta c'è una ribellione profonda ed estremamente grave: il rifiuto
di essere al secondo posto, la scelta di Lucifero. Questa ribellione
prende spesso un'apparenza moderata, limitandosi a costruirsi un
piccolo mondo in cui si è al primo posto, senza negare
esplicitamente che possa essercene un altro, ma senza interessarsi
minimamente di esso. Gli psicologi chiamano questo narcisismo. Se è
il frutto di un atto libero, si tratta di un peccato mortale
invisibile e educato: non si vuole dare fastidio a nessuno, a patto
che nessuno ci disturbi.
Ci
sono dei peccati vistosi e anche orribili che sono meno gravi di
questo. Poiché non siamo padroni della nostra sensibilità, possiamo
decidere di servire e nello stesso tempo lasciarci trascinare a gesti
inconsulti: è la storia di Davide con Betsabea. Quello che voglio
farvi capire è che l'essenziale della vita non è sapersi dominare.
Non dico che dominarsi è inutile. Qualunque sia il vostro fine
ultimo, è certamente meglio sapersi dominare. Ma se non ci riuscite,
il vostro fine ultimo potrà continuare ad essere buono; mentre
potete riuscirci benissimo e avere un fine ultimo cattivo. Sono due
cose diverse.
Detto
questo, ripeto che ci sono persone che non pensano molto a Dio, e che
forse non ci pensano affatto, ma che sono in pace con Lui, perché il
loro fine non è in loro stessi. Ho ascoltato alla radio la storia di
un navigatore solitario che, dopo essere sbarcato a Marsiglia e aver
ricevuto non so quale premio, è subito ripartito. Sono riusciti a
raggiungerlo e gli hanno chiesto: «Perché sei ripartito?». A
questa domanda, egli ha risposto con un paragone: «Immaginate un
archeologo che scopre l'esistenza di un tempio misterioso che non può
essere raggiunto senza abbandonare tutto, senza abbandonare il quieto
vivere, il trantran quotidiano. Se si capisce il valore infinito
rappresentato da quel tempio, non si avrà nessuna esitazione: si
deve partire, punto e basta!».
Vedete
che qui si parla di un imperativo, il famoso «Devi!» della morale,
ma non è un obbligo, è una passione... e cioè un fine ultimo. Non
conosco i rapporti di quell'uomo con Dio, ma il tempio di cui parla è
un'immagine molto suggestiva di un qualche cosa che ci supera e che
vale la pena cercare e servire per tutta la vita.
Attenti
agli scali
Rimaniamo
in questo paragone del viaggio intrapreso alla ricerca di un tesoro,
immagine molto vicina a quella evangelica della perla preziosa.
Immaginiamo per esempio qualcuno che parte per andare a studiare le
statue dell'isola di Pasqua. Lungo il suo viaggio ci sono degli
scali. Alcuni saranno molto lunghi ed egli potrà fare conoscenza di
molte persone interessanti, con alcune delle quali farà anche
amicizia: potrà arrivare così quasi a dimenticare lo scopo del suo
viaggio, ma, al momento giusto, non avrà esitazione a ripartire: è
ciò che si chiama fedeltà.
Non
è necessario avere l'ossessione del fine ultimo. Si può gustare il
paesaggio, distrarsi, godersi i bei momenti. Ci potranno anche essere
dei peccati veniali e della pigrizia: finchè non si cade nel peccato
mortale, presto o tardi si ripartirà. Lo ripeto, tutte le debolezze
sono perdonabili: ci si fermerà un po' troppo a raccogliere dei
fiori, ci si farà ferire dalle spine, ma alla fine si rientrerà
sempre nella comitiva dei viaggiatori...
Si
potrà anche pensare che il viaggio è un po' troppo impegnativo e
che forse non ne vale la pena. È duro non avere fissa dimora, né
una pietra dove posare il capo: questa è stata precisamente la
tentazione degli ebrei nel deserto: l'Esodo è infatti il divino
modello di ogni viaggio del genere.
Ma
il peccato mortale significa un'altra cosa, vuol dire partire e poi
tornare indietro, o fermarsi e sistemarsi da qualche parte prima di
giungere alla meta. Oppure addirittura non partire, declinando
l'invito a questo viaggio, ritenuto qualcosa di facoltativo o di non
troppo urgente: è il peccato degli invitati a nozze della parabola.
Andare
in crisi non è grave, non sapere dove andare non è grave... purchè
si cerchi, si bussi e si domandi. La nozione di stupidità o di
stoltezza non riguarda i poveri di spirito, ma quelli che non
vogliono porsi le grandi domande, i quali, spesso, hanno l'illusione
di avere la risposta. La vera luce è quella di cui parlava Socrate,
quella che ci fa dire: «No, il senso della vita non è né quello,
né questo... non mi basta, non mi accontento. Per che cosa vivere
dunque? Non lo so... so però una cosa, e cioè che non bisogna
fermarsi prima di aver trovato». Rifiutare questa fatica,
accontentarsi del proprio piccolo mondo, è il peccato mortale più
grave che vi minaccia, sia che abbiate la fede sia che non l'abbiate.
Marie
Dominique Moliniè op – Tratto da “Beati gli umili”
Nessun commento:
Posta un commento