Mc 1, 40-45
In questa guarigione di un lebbroso raccontata
dall'evangelista Marco potremmo vedere le condizioni per venire
infallibilmente guariti da Gesù. Esse sono: 1 - La consapevolezza
della gravità della propria malattia (il lebbroso era dolorosamente
consapevole di essere tale). 2- Il desiderio della guarigione. 3 - La
consapevolezza che Dio solo potrà veramente guarirci. 4 - Andare da
Gesù. 5 - Supplicarlo in ginocchio. 6 - Attendere con fiducia di
sentire il suo tocco e la sua parola di salvezza.
Osservazioni
Dopo il tocco e la parola di Gesù la guarigione del
lebbroso è immediata. Ciò che non è immediato ma carico di lunghe
e amare tribolazioni è la caduta nella malattia, la presa di
coscienza della sua gravità, l'inutile lotta per cercare di venirne
fuori, l'esperienza dell'esclusione sociale, della solitudine,
dell'impotenza; la tentazione della disperazione e del suicidio.
In questo buio profondo e angosciante è tuttavia
possibile constatare la presenza di un'aspirazione, di un grido, di
un gemito inesprimibile verso una guarigione e una salvezza. Si sente
che la condizione disastrata in cui ci si trova non è normale, si
sente che siamo fatti per la vita e per la gioia, non per la morte. È
in questa situazione che l'orecchio si fa attento e sensibile alle
voci di coloro che raccontano di uno che ha il potere di guarire e di
risolvere anche i casi più disperati. Si cerca allora di sapere se
le voci e i fatti uditi sono veramente affidabili, di ciarlatani e di
venditori di fumo è pieno il mondo, mettersi nelle loro mani
servirebbe solo a peggiorare la situazione.
Una volta verificate e approfondite, per quanto
possibile, queste notizie, può sorgere la decisione di andare a
chiedere la propria guarigione, e allora ci si mette in cammino.
Lungo il cammino per incontrare personalmente il Salvatore ci
potranno ancora essere degli alti e bassi, tentazioni e
scoraggiamento, perché, nonostante le assicurazioni, non si è
ancora incontrato il Salvatore, tuttavia, se si persevera, prima o
poi il Salvatore si farà trovare ed allora dalla sua parola e dal
suo tocco seguirà immediata la guarigione.
Cosa centra questa storia con la nostra
Che cosa centra la storia di questo lebbroso con la
nostra vita quotidiana? Io non sono mica lebbroso, non sono escluso
dalla società, non vivo come un mendicante ai suoi margini, non sono
deforme, puzzolente e ripugnante, e allora?… Evidentemente questa
pagina di vangelo non è per me. Per rispondere a questi
interrogativi bisogna considerare che c'è una malattia grave o
lebbra del corpo e c'è una malattia grave o lebbra dell'anima.
L'inizio della lebbra si ha quando certe parti del corpo,
apparentemente sane, diventano insensibili al caldo e al freddo, ai
graffi, al dolore. A questa insensibilità segue a poco a poco la
corruzione e la putrefazione della carne e delle ossa. Allo stesso
modo, anche la nostra anima, pur apparendo vitale e in salute, può
essere affetta da svariate insensibilità che a poco a poco la
corrompono rendendola deforme e ripugnante fino ad escluderla dalla
società dei viventi.
Proviamo tuttavia a considerare il caso di una
persona il cui comportamento rivela una certa bontà, onestà,
correttezza, perfettamente inserita nel contesto sociale, viva e
attiva. Ancora una volta ci chiediamo: perché la storia del lebbroso
dovrebbe riguardare questa persona? Per rispondere bisogna
considerare che le migliori qualità o disposizioni morali non sono
un qualche cosa di statico, ma sono inevitabilmente destinate ad
evolversi; a crescere o a diminuire, a consolidarsi o a indebolirsi,
a perfezionarsi nel bene o a corrompersi nel male. L'esito finale di
questa evoluzione sarà la santità o un'irrimediabile perversione
che comporterà l'esclusione dalla società dei beati.
Così, come il tocco e la parola del Signore hanno
guarito immediatamente il lebbroso, allo stesso modo, è sempre
mediante l'ascolto della sua Parola e la fruizione dei suoi
sacramenti che noi veniamo immediatamente preservati dal cadere in
svariate malattie dell'anima che ci renderebbero a poco a poco
orribili e ripugnanti come il lebbroso, escludendoci dalla società
dei credenti e dei viventi.
Questo vale per una persona viva e attiva credente,
ma cosa dire di una persona viva, attiva, non credente? Bisogna dire
che questa ha un'insensibilità diffusa in tutto il suo essere per le
cose di Dio, per il suo progetto e per il suo amore; questa
insensibilità, a lungo andare, può dare origine alle più orribili
e ripugnanti piaghe spirituali.
Che le cose siano in questi termini è perfettamente
chiaro nella mente di Dio, ma non lo è altrettanto nella nostra,
anzi, il mondo è pieno di lebbrosi che non sanno di essere tali e
vivono giulivi e spensierati senza accorgersi di essere sfigurati e
ripugnanti come la morte.
Riassumendo potremmo dire che la storia del lebbroso
ci riguarda tutti in uno dei seguenti casi: 1 - Essa è l'immagine di
ciò che siamo spiritualmente se non siamo ancora stati guariti da
Gesù. 2 - È l'immagine di ciò che spiritualmente diventiamo se ci
allontaniamo dal tocco e dalla parola di Gesù. 3 - In fondo, il
lebbroso è andato da Gesù e l'ha supplicato per sfuggire alla
morte, ma anche per noi arriveranno giorni in cui la malattia ci
condurrà alle soglie della morte; allora questa storia ci dice che,
se sapremo supplicare Gesù, anche se dovremo passare attraverso la
morte, sfoceremo finalmente nella vera vita (ogni guarigione operata
da Gesù tende a farci apprendere il mistero pasquale). 4 - La storia
del lebbroso mostra ciò che succede quando una persona ammalata e
disastrata va da Gesù e umilmente invoca il suo soccorso, ma ci
mostra anche cosa sarebbe successo se il lebbroso non fosse andato da
Gesù; in questo caso sarebbe stato sconfitto dal suo male, sarebbe
morto fra i tormenti ed escluso dalla società; ma questo è anche
l'esito della vita di coloro che non vogliono venire da Gesù per
essere salvati.
Alcune nostre insensibilità
Abbiamo osservato prima come all'inizio della
malattia della lebbra ci sia in alcune parti del corpo
un'insensibilità al dolore. Potremmo allora tentare di riflettere su
alcuni tipi di insensibilità spirituali che possono col tempo
rendere l'anima deforme e orribile come un lebbroso. Proviamo a
considerare le nostre insensibilità rispetto alla Verità, rispetto
al Bene, rispetto al Bello.
L'insensibilità rispetto alla Verità
L'insensibilità nei confronti della verità inizia
fin da piccoli e, se viene trascurata, produrrà nei singoli e nella
società enormi disastri materiali e spirituali. È tipico dei
bambini mentire per fare i propri comodi. Così dicono di avere mal
di pancia o mal di testa per non andare a scuola o al catechismo.
Quando perdono al gioco vorrebbero a tutti i costi cambiarne le
regole perché non riescono ad accettare la sconfitta. Chi è
stato a rovesciare il vaso? È stato mio fratello. Quando
combinano guai non vogliono ammettere la loro responsabilità perché
giustamente seguirebbero riprovazione e castigo. Il grande guaio è
quando i genitori e gli educatori trascurano o minimizzano questa
tendenza a mentire e di conseguenza non mettono tutta la vigilanza e
l'impegno per correggerla. Non si rendono conto che se uno mente da
piccolo mentirà anche da grande, se uno mente nelle piccole cose
mentirà anche nelle cose di maggiore importanza. La parola del
Signore è chiarissima a questo riguardo: Chi è fedele nel poco è
fedele anche nel molto, chi è disonesto nel poco è disonesto anche
nel molto (Lc 16, 10).
Non combattere la menzogna fin da piccoli e fin
nelle più piccole cose ha come conseguenza il proliferare delle
piaghe della corruzione, delle simulazioni, delle ipocrisie, della
diffidenza, della sfiducia reciproca. Non si è mai sicuri di quanto
è solido e affidabile quanto ci viene detto. Il sì può diventare
un no e un no un sì a seconda delle circostanze o delle convenienze.
La tendenza a mentire e a manipolare i dati della realtà è una
delle cause del diffondersi della peste del relativismo. Il
relativismo è un po’ come i bambini che quando perdono vogliono
cambiare le regole del gioco, così gli adulti, per fare meglio i
propri comodi, non vogliono accettare le regole della vita, ma
sostituiscono ai dati oggettivi della realtà, regole e
interpretazioni dei fatti di loro invenzione. Da queste piaghe
orribili e ripugnanti come la lebbra solo il Signore ci può guarire.
Possiamo ancora osservare che la menzogna nasce da
due tipi di necessità: quella di sfuggire alle conseguenze
spiacevoli di un guaio che si è combinato o in cui ci si trova,
oppure la necessità di soddisfare un qualche bisogno, di acquisire
un qualche bene. Il bambino dice che non ha compiti da fare per
andare a giocare e l'adulto si finge malato per non andare a
lavorare, oppure finge di sapere cose in cui in realtà è poco
competente per essere maggiormente stimato e considerato. In fondo
mentiamo perché non vogliamo ammettere i nostri errori e le nostre
povertà oppure per cercare di soddisfare attraverso scorciatoie
disoneste la nostra fame e sete di felicità.
Conviene ancora considerare che durante il corso
della nostra vita sono attive due forze gravitazionali che tendono ad
attirarci ognuna dalla sua parte. Le azioni o gli influssi di queste
due forze fanno capo a Dio o al demonio. Gesù dice del demonio che è
omicida, menzognero e padre della menzogna (Gv 8, 44). Non combattere
la menzogna sotto qualsiasi forma si presenti, nelle piccole e nelle
grandi cose, comporta quindi la nostra deriva verso una mentalità o
uno spirito demoniaco e, conseguentemente, l'allontanamento dalla
mentalità o dallo Spirito di Dio che invece è Spirito di Verità
(Gv 14, 17).
Abbiamo fin qui considerato la menzogna come offesa
manifesta della Verità, ma vi è un'offesa della verità meno
manifesta ma altrettanto grave ed è l'indifferenza nei suoi
confronti. La vita ci pone degli interrogativi impegnativi a cui non
è facile rispondere: io esisto, prima non esistevo, un giorno
morirò, desidero essere felice ma, per quanti sforzi faccia, non
riesco a raggiungere la felicità, vorrei un mondo più giusto più
bello e più buono, invece, quante ingiustizie brutture e cattiverie
scopro intorno a me e in me!… Allora, che senso ha tutto questo?
Evidentemente la risposta a queste domande non è immediata, richiede
un certo impegno, onestà intellettuale, desiderio di conoscere la
verità. Succede purtroppo che molti trovano più comodo non
complicarsi troppo la vita, non porsi troppe domande per non farsi
venire il mal di testa o l'esaurimento, la ricerca della verità ha
tutta l'aria di essere troppo faticosa e impegnativa, molto meglio
vivere alla giornata, cercare di godere tutto quello che si può e
fin che si può, poi, si vedrà. D'altronde così fan tutti. Il
Signore potrebbe rispondere che larga e affollata è la via che
conduce alla perdizione (Mt 7, 13) e che è certamente più
comodo e veloce costruire la propria casa sulla sabbia, ma ci sarà
inevitabilmente una tempesta che manderà in frantumi quanto è
costruito sulla sabbia, solo chi avrà costruito sulla roccia reggerà
(Mt 7, 24). Cercare o non cercare la verità sulle grandi domande che
la vita ci pone non è indifferente, è una questione di vita o di
morte.
L'insensibilità rispetto al Bene
Proviamo a considerare adesso le nostre
insensibilità nei confronti del bene. Penso che esse derivino dalla
non controllata tendenza a regolare la vita secondo le nostre
convenienze, secondo quanto è più comodo e piacevole sul momento.
Un atteggiamento molto comodo è proprio quello di non farsi troppi
scrupoli, perché fermarsi a riflettere sulle conseguenze in noi e
attorno a noi delle nostre azioni e delle nostre scelte costa fatica,
il risultato è incerto e poi sembra che in fondo non ci siano grandi
differenze se ci comportiamo in un modo piuttosto che in un altro.
Questa tendenza a regolare la vita secondo il proprio comodo e il
proprio piacere, se non è controllata dalla ragione, dal desiderio
di giustizia e di verità conduce il singolo e la società al
relativismo morale il quale, per giustificare le proprie voglie,
chiama il male bene e il bene male a seconda delle convenienze (Is 5,
20). L'io e le sue voglie diventano allora l'idolo a cui tutto e
tutti devono sacrificare e servire. Il risultato, nel piccolo come
nel grande, è la guerra di tutti contro tutti.
Anche per questa piaga le cose iniziano a poco a
poco e fin da piccoli per poi espandersi e invadere il singolo e la
società con le brutture che ogni giorno opprimono e intristiscono la
nostra vita. Una mamma dice al suo figlioletto: Aiutami a
sparecchiare la tavola. Lui, per evitare il fastidio di questo
piccolo servizio, mentendo dice: Devo andare in bagno. Quando
torna la tavola è ormai sparecchiata e lui ha evitato la seccatura.
L'idea infantile che sta dietro questo comportamento è che il mio
bene deve corrispondere a ciò che è più comodo e piacevole in
questo momento, e quindi bisogna assolutamente evitare ciò che è
faticoso e amaro. Ora, il bene di una persona non sempre corrisponde
a ciò che è più comodo e piacevole, ma molto spesso comporta ciò
che è faticoso, amaro, doloroso. Andare a scuola, studiare, fare i
compiti, è molto più faticoso e meno piacevole che andare a
giocare, ma col tempo procurerà dei beni e delle gioie che non si
sarebbero ottenuti se uno avesse speso il suo tempo solo a giocare.
Così, per guarire, a volte bisogna prendere delle medicine amare, e
per non morire a volte si devono subire dolorose operazioni.
Bisogna inoltre considerare cosa comporta la ricerca
del mio bene e della mia comodità nei confronti delle persone che mi
stanno vicino. Molto spesso infatti il mio piacere e la mia comodità
comporta un dispiacere e un aggravio di fatica per gli altri. Marito
e moglie rientrano a casa dopo 8 ore di lavoro, lui si siede
comodamente in poltrona e riposa, mentre lei prepara la cena,
apparecchia, sparecchia, lava i piatti, stira… Lui, dopo cena esce
e, per cercare qualche nuova emozione, qualche piacere diverso dal
solito, passa la serata con una prostituta. Una vita senza comodità
e piaceri forti, che vita è?
Vediamo in questo caso che se non ci si educa ad
essere attenti e sensibili anche alle necessità e al bene
dell'altro, rinunciando quando è il caso alle nostre comodità e ai
nostri piaceri, diventiamo prima o poi orribili e ripugnanti come il
lebbroso, incapaci di relazioni mature e quindi destinati ad essere
esclusi dalla società, oppure destinati a vivere in una società di
lebbrosi. Una società in cui ognuno pensa solo a se e ai propri
comodi è una società votata alla decadenza e alla morte. Questo ci
dice che il mio bene dipende anche dalla mia attenzione per le
necessità e il bene degli altri.
Un errore comunissimo che facciamo nella ricerca dei
piaceri, della felicità o della pienezza di vita, è quello di
lanciarci senza riflettere nell'impossibile impresa di saziare la
nostra fame con le gioie che durano un momento. Per quanto ci
affanniamo, fatichiamo o ci scervelliamo nel tentativo di raggiungere
la felicità, tutto ciò che riusciamo ad ottenere e a godere prima o
poi finisce, si corrompe ed è inesorabilmente destinato a finire
nella tomba. L'acuta presa di coscienza della brevità, della
caducità, e dell'insufficienza delle nostre gioie o della felicità
che siamo riusciti a raggiungere è un fatto doloroso, ma se non
anestetizziamo questo dolore divenendo insensibili ai suoi richiami,
questa dolorosa presa di coscienza sarà l'occasione per diventare
sensibili ad altri richiami, quelli che ci annunciano l'esistenza di
uno che può e vuole donarci una gioia, una vita, una felicità che
durano eternamente.
L'insensibilità rispetto al Bello
Tutti desideriamo le cose belle e questo è il segno
che c'è in noi una certa sensibilità e connaturalità per ciò che
è bello. Questa sensibilità naturale l'abbiamo come un dono, ma se
non la coltiviamo, se non la facciamo crescere è come se stoltamente
rinunciassimo a godere tesori e splendori riservati solo a coloro che
sono disposti a fare un po' di fatica per venirne in possesso. Se non
coltiviamo il desiderio di bellezza questo a poco a poco si corrompe
fino a renderci insensibili al bello, ed allora saranno le brutture
ad invaderci. Ma l'insensibilità alla bellezza su cui conviene
riflettere non è tanto quella nei confronti dell'arte, è piuttosto
la nostra insensibilità nei confronti della bellezza delle relazioni
fra le persone.
Penso che un aspetto della bellezza e della maturità
di una relazione debba consistere nel corretto equilibrio fra il
ricevere e il dare, quando questo accade si ha lo splendore della
circolazione dell'amore. Una piccola primizia o seme di questo
splendore è quando due persone che si vogliono bene si scambiano un
bacio. Una dona all'altra un segno del suo amore e contemporaneamente
riceve in risposta lo stesso segno. La bellezza di una relazione che
è poi la bellezza dell'amore è il massimo dei beni a cui possiamo e
dobbiamo aspirare, ma questa bellezza e questo bene richiedono la
disponibilità di un certo impegno, perché amare è un'arte che va
appresa, è come una danza, un canto, una musica. Ci vogliono molti
esercizi, pazienza e costanza.
Il campo di questi esercizi sono in fondo tre
misteri: il mistero che ognuno di noi è per se stesso, il mistero di
Dio e il mistero delle persone che ci circondano. Bisogna però
considerare che i chiamati ad esercitarsi e a godere la bellezza
dell'amore non sono persone normali, ma persone ferite. In seguito
alla rottura della relazione fondamentale, che è quella con Dio, noi
siamo delle persone disgraziate, infelici, piene di nodi, di paure,
di durezze, di miopie, di stoltezze, di debolezze, di povertà. Tu
dici: "Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla",
ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e
nudo (Ap 3, 17).
Questo è il punto di partenza di chi è comunque
chiamato a godere un giorno degli splendori dell'amore trinitario. Il
guaio è che noi facciamo di tutto per allontanarci da questo punto
di partenza, facciamo di tutto per fuggire o anestetizzare l'oscuro
presentimento della nostra profonda infelicità e povertà, la loro
presa di coscienza ci terrorizza e per sconfiggere questo nemico
siamo disposti a tutto. Così, come dice il padre Molinié, la nostra
povertà e infelicità, che non sono un peccato, rendono possibile
ogni peccato.
Non sai di essere infelice, miserabile, povero,
cieco e nudo. Non ci sono alternative, la nostra salvezza o
guarigione passa per l'acuta presa di coscienza della verità sulla
nostra reale condizione. Noi facciamo di tutto per combattere e
fuggire la luce che illumina le nostre povertà, ma così facendo
fuggiamo dalla condizione necessaria per beneficiare della salvezza
che Dio ci offre e così combattiamo contro il nostro vero bene. Per
questo il Signore cerca di suggerirci: beati i poveri, beati gli
afflitti, beati quelli che hanno fame e sete, beati i lebbrosi, i
ciechi, gli storpi, gli zoppi, i paralitici… per loro è
preparato un banchetto, una festa con musica e danze, una festa che
non avrà mai fine.
Tuttavia, per quanti sforzi facciamo, non possiamo
fuggire sempre, tutti andiamo incontro a un giorno in cui le maschere
dovranno cadere e le nostre filosofie strampalate dovranno
riconoscere la loro inconsistenza. Se in quel giorno sapremo
riconoscere ed accettare la nostra povertà, se sapremo invocare il
nome del Signore, saremo salvi, altrimenti saranno guai e andremo nel
posto che la nostra cocciutaggine avrà meritato.
Evidentemente è molto più saggio cercare di
affrontare prima il mistero della nostra povertà, è molto meglio
invocare prima il soccorso e la salvezza che solo il Signore può
dare. Lui ci assicura che gli afflitti saranno consolati, quelli che
hanno fame saranno saziati, i poveri saranno arricchiti, i lebbrosi,
i paralitici, i ciechi saranno guariti. Questa guarigione è
caratterizzata da due momenti che potremmo chiamare: guarigione
fondamentale e guarigione progressiva. La guarigione fondamentale si
ha quando ci rendiamo conto che la situazione in cui ci troviamo non
ha e non può avere soluzioni umane, allora, se siamo disposti a
metterci in ginocchio e invocare umilmente il soccorso del Signore,
Lui, prima o poi si manifesterà. Sperimenteremo così che in Lui
solo possiamo trovare la pace, la consolazione, la gioia, la verità,
l'amore, il senso della vita. A questo insostituibile e decisivo
momento segue un lungo cammino di progressiva guarigione dai guasti e
dalle imperfezioni che ci sono nelle relazioni con noi stessi, con
Dio, con gli altri e con le cose.
In generale nelle nostre relazioni ci sono delle
disarmonie o stonature che ci rendono sgradevoli a noi e agli altri,
l'equilibrio nel dare e nel ricevere non è rispettato, pecchiamo
sempre per eccesso o per difetto, le nostre iniziative sono spesso
fuori tempo. La nostra povertà o bisogno di ricevere ci rende
egoisti, avari, aggressivi, tendiamo a sfruttare o servirci degli
altri per i nostri bisogni e se veniamo ostacolati e contrariati
diventiamo prepotenti e scontrosi. Il nostro bisogno di dare ci rende
spesso molesti e opprimenti, manchiamo di rispetto per la libertà,
la maturità, la dignità e il mistero dell'altro. Se abbiamo
responsabilità educative o dobbiamo gestire delle persone, rischiamo
di essere troppo duri o troppo arrendevoli.
Il rapporto con noi stessi può essere falsato da
un'indebita esaltazione o da disistima e disprezzo di sé. Per quanto
riguarda l'estensione delle relazioni ci limitiamo spesso a una
piccola cerchia di nostri simili escludendo tutti gli altri,
specialmente se questi altri non sono troppo simpatici o hanno delle
povertà che li rendono poco amabili. Volontariamente o
involontariamente rischiamo ogni momento di ferire o di venir feriti.
Di qui la raccomandazione del Signore di disporre il nostro cuore a
perdonare sempre. Siamo inoltre condizionati dall'epoca e dal
contesto sociale in cui ci troviamo a vivere, dall'educazione
ricevuta e dall'inclinazione del carattere. Questi condizionamenti a
volte sono positivi e a volte sono negativi, da questi ultimi
dobbiamo difenderci e se si sono radicati in noi dobbiamo venir
guariti. Un altro aspetto da considerare è l'instabilità del nostro
umore il quale, nella depressione e nell'euforia, influenza
negativamente la qualità delle relazioni.
Anche i nostri rapporti con Dio sono problematici e
necessitano di aggiustamenti. Nella nostra mente ci sono su di Lui
idee più o meno giuste che convivono con altre piuttosto sbagliate:
le prime devono crescere e le seconde diminuire. Di solito nel nostro
cuore si trovano insieme e in varia misura: l'amore di Dio e la
paura, la fede e il dubbio, la confidenza e la diffidenza,
l'aspirazione alla gioia e la paura del dramma. Ne risultano paralisi
e irrigidimenti che bloccano l'espandersi della vita. A volte
assomigliamo a dei bambini cocciuti che dicono sempre no quando la
mamma propone loro qualcosa per il loro bene. Vi sono poi alcune
lezioni che dobbiamo imparare bene. Una è che niente può riempire
veramente il nostro cuore se non Dio solo. Un'altra è quella di
fidarci di Dio anche quando ci conduce per vie che non comprendiamo,
contrarie ai nostri gusti, alle nostre inclinazioni e al nostro
sentire. Un'altra ancora è quella di imparare a non disperare anche
nelle situazioni più drammatiche e senza vie d'uscita, dobbiamo
imparare a sperare e credere che l'ultima parola non è delle tenebre
e della morte, ma della risurrezione e della vita.
Questi esempi incompleti e non approfonditi delle
nostre piaghe spirituali, dovrebbero suggerirci atteggiamenti di
pazienza e di misericordia verso noi stessi e verso gli altri, di
perseveranza e docilità nel lasciarci curare dall'unico medico in
grado di sapere come operare sull'abisso del nostro cuore. Solo il
Signore sa quali cure devono essere fatte prima e quali dopo, quali
trattamenti il nostro stato è in grado di sopportare e quali no…
Inoltre, il considerare che chi ha già incontrato il Signore rimane
in uno stato di guarigione progressiva dovrebbe aiutarci a non
stupirci delle incoerenze, delle miserie, delle imperfezioni e
debolezze che a volte riscontriamo in noi o in chi da lungo tempo
serve e segue il Signore. Che Lui ci aiuti ad essere docili per ben
collaborare alla realizzazione del progetto che ha su di noi.
Meditazione
di Eugenio Pramotton - Tratta
dal libro: "Alla ricerca dell'acqua viva" - ed. Parva
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