San Paolo scrisse questa Seconda lettera a Timoteo da Roma, dove era prigioniero. Predicando il santo Vangelo tra i pagani in quella fastosa capitale dell’impero romano, fu fatto mettere in carcere da Nerone, per aver convertito alla fede una concubina di quell'imperatore, come racconta San Giovanni Crisostomo.
Il significato letterale di questo capitolo.
San Paolo, com'era solito fare, comincia la sua lettera annunciandosi apostolo di Gesù Cristo per volere di Dio, per annunciare la promessa della vita che si ha in Cristo Gesù. Con queste parole egli vuol dare forza e autorità alle sue esortazioni, perché, Dio stesso lo aveva eletto all'apostolato, e con questa elezione gli aveva dato l'autorità di proclamare il compimento della promessa della vita, la redenzione, annunciata dai profeti per la salvezza degli uomini caduti nel peccato, e meritare loro la vita eterna per Gesù Cristo.
Nella Prima lettera a Timoteo, san Paolo si era chiamato bestemmiatore, persecutore ed oppressore . Questo poteva diminuire nell'anima di Timoteo l'efficacia delle parole che gli aveva rivolto e che in questa seconda lettera gli voleva rivolgere, e perciò, psicologicamente, nel parlargli, si presenta con una rettifica, anche se inconscia, alle espressioni che aveva usato nella prima lettera, parlando di sé, in un impeto di umile riconoscenza alla misericordia di Dio, e si annuncia apostolo per volere di Dio, non solo, ma ha parole di giustificazione per la sua condotta passata, facendo notare la rettitudine delle sue intenzioni e la purezza della sua coscienza, pur errando per inconsulto zelo.
Nella prima lettera disse di aver operato per ignoranza, perché era infedele; in questa seconda invece ringrazia Dio di averlo servito, ad imitazione dei suoi progenitori, cioè dei patriarchi e dei profeti del popolo ebreo dal quale discendeva, con pura coscienza.
È profondamente psicologico: chi si dichiara peccatore, infatti, innanzi a quelli che deve ammaestrare e guidare, lascia sempre in loro un'ombra di disistima, che può nuocere all'apostolato che esercita per il bene delle anime. Un sacerdote che, senza una vita esemplare e santa e senza un profondo senso di soprannaturale umiltà, dice alle anime: Io sono un peccatore, fa supporre e sospettare di avere molto errato nella vita con peccati gravi, e può generare il dubbio, soprattutto, sulla sua vita morale e pura. Lo si controlla con l'esperienza, giacché il popolo, a quella espressione di umiltà, pensa e molte volte dice: «Chissà quanti peccati avrà fatto», e spontaneamente può pensare: «Come ora vuole parlarci di purezza e di virtù»
San Paolo nella Prima lettera a Timoteo aveva esorbitato nelle sue espressioni per magnificare la misericordia di Dio in lui; in questa lettera si corregge; si era chiamato bestemmiatore, persecutore ed oppressore, perché infedele, equiparandosi quasi ai pagani. Questi, infatti bestemmiavano Gesù Cristo come un malfattore crocifisso; perseguitavano i cristiani mettendo a morte ed opprimevano la Chiesa, riguardandola come nemica dell'impero romano. Ora ci tiene a dire che egli non era stato infedele, ma era discendente del popolo ebreo, autentico israelita, discendente da Abramo, da Isacco, da Giacobbe e dagli antichi patriarchi, che chiama perciò suoi progenitori, e che, lungi dal bestemmiare, aveva servito Dio con pura coscienza, e lo ringrazia, perché riconosce che gli fu fedele per grazia sua. Rettificando ciò che aveva scritto nella prima lettera, non ricorda che era stato persecutore ed oppressore, perché già aveva dichiarato di averlo fatto per ignoranza. È anche profondamente psicologico, che san Paolo, rivolgendosi a Timoteo affettuosamente, a distanza di tempo dalla prima lettera che gli aveva scritto, frapponga alle espressioni affettuose questa parentesi di giustificazione e di rettifica, perché quando si è lontani da una persona che si stima, è facile un certo raffreddamento di stima, anche inconscio, che può dare luogo a qualche interna critica sulla condotta della persona cara. Quando si è vicini, la calorosa affettuosità fa rilevare solo la bontà della persona amata, ed esclude ogni ricordo antipatico sulla sua vita passata. Quando si è lontani, o a distanza di tempo, quei ricordi possono facilmente affiorare. L'affettuosità è come un dolce risucchio che, spumeggiando, non fa vedere più il fondo sabbioso ed i relitti contorti che vi si addensano.
San Paolo, padre e maestro di Timoteo
San Paolo scriveva ad un discepolo prediletto con autorità di maestro, e si annuncia proclamando il titolo della sua autorità: Paolo, per volere di Dio apostolo di Gesù Cristo, per annunciare la promessa della vita che si ha in Cristo Gesù. E subito, al ricordo tenero del discepolo che paternamente ama: Al mio diletto figlio Timoteo grazia, misericordia, pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signor nostro. Augurio di benedizione e di pace, a cui segue la parentesi di giustificazione, che continua nell'affettuoso ricordo. Avendo detto che serviva Dio con tutta coscienza, la sua anima si riporta, per associazione di idee, alle adorazioni e preghiere che effondeva innanzi a Dio, nelle quali ricordava continuamente il suo diletto Timoteo, e perciò continua: Come pure di continuo mi ricordo di te nelle mie preghiere notte e giorno. Pregando per lui, ricorda le lacrime che versò quando dovette separarsi da lui. La dolorosa separazione avvenne probabilmente quando l'Apostolo fu fatto prigioniero ad Efeso, per essere condotto a Roma. Il ricordo di quelle lacrime commuove il tenero cuore di san Paolo ed acuisce naturalmente in lui il desiderio di rivederlo, e per questo dice: Ho grande desiderio di rivederti al fine di essere ripieno di gioia, rinnovando il ricordo della fede, che è in te così schietta, che ti fu trasmessa da tua nonna Loide e da tua madre Eunice, nelle quali ebbe dimora, perché ne erano ripiene ed era la loro vita, ed avendoti educato cristianamente, sono certo che abita anche in te. Timoteo, di carattere timido e pacifico, perché educato da due sante donne nella tranquillità della vita casalinga, facilmente si doveva smarrire nelle difficoltà e nelle pene del suo ministero. Non è una supposizione, ma è un'illazione psicologica dell'educazione avuta. Non essendoci uomini in casa perché il padre era morto, la pace domestica era più profonda, per la bontà della nonna e della madre, che sbrigavano serenamente tutte le faccende familiari. Timoteo perciò non ne era minimamente turbato. Riceveva in pieno l'educazione alla fede ed alla pietà, che erano le sante occupazioni della sua giornata, e delle quali le sante donne lo facevano interessare. Fatto discepolo di san Paolo, gli si era attaccato come figlio al padre, e si faceva guidare da lui in ogni passo. Sicuro quando stava con lui, era naturalmente inceppato quando doveva operare da solo, e mancava di iniziative e di pronte risoluzioni nelle difficoltà della vita. E un fatto che si verifica e può controllarsi in quei giovani che, educati nella tranquilla pace familiare, rimangono sempre un po' fanciulli. Ogni avvenimento straordinario o insolito può sconcertarli; ogni dolore o contraddizione che esca fuori dall'ambito familiare, può generare in loro uno smarrimento e una preoccupazione tormentosa; soprattutto quando si tratta di aver che fare con le pubbliche autorità o con la legge. Un pubblico ufficiale li fa tremare, una carcerazione li sgomenta, quando avviene ad una persona di famiglia o in qualunque modo familiare e cara. In tali casi che diventano penosissimi e che producono un'agonia nell'anima, solo la grazia di Dio, la fiducia in Lui e la preghiera possono sostenere l'anima e darle coraggio.
Che Timoteo ravvivi «il dono di Dio»...
San Paolo, che conosceva bene l'indole ed il carattere di Timoteo, e che sapeva per propria esperienza le difficoltà e le pene che incontrava nell'apostolato, e che supponeva quale sgomento avesse dovuto portare nell'anima di lui il saperlo carcerato, dopo avergli mostrato il suo compiacimento per la sua fede schietta, ricevuta da Loide e da Eunice, lo esorta al coraggio, con l'unico mezzo che glielo poteva dare, ossia la grazia di Dio. Egli perciò gli scrive: Ti raccomando di ravvivare il dono di Dio, che è in te per le imposizioni delle mie mani.
Il dono di Dio era il carattere sacerdotale ed episcopale ricevuto nella sacra Ordinazione, Carattere indelebile impresso per lo Spirito Santo. Quello che può intiepidirsi e languire nel ministro di Dio sono i carismi ricevuti dallo Spirito Santo nell'Ordinazione, apportatori di grandi grazie di stato, per il compimento del proprio ufficio. Questi carismi hanno bisogno di essere ravvivati ed alimentati dal ministro di Dio con la preghiera, la penitenza e la vita integralmente santa. Nell'attuale disciplina della Chiesa la recita dell'Ufficio divino e della visita al Sacramento, nonché la recita del Rosario, comandata ai sacerdoti, è il mezzo giornaliero per ravvivare il dono di Dio. Il mezzo straordinario sono i santi esercizi spirituali. La mancanza di questi mezzi o la negligenza nel servirsene spiega oggi perché tanti sacerdoti decadono nel fervore, o addirittura traviano. Rimane in loro il carattere sacerdotale, ma, per l'assenza dei carismi, rimane come quell'albero di fico che portava solo foglie, e che Gesù maledisse, condannandolo alla sterilità. Eppure era certamente un albero vivo, perché ricco di foglie. Il sacerdote è vivente, come tale per il suo carattere indelebile, ma se non ravviva i carismi ricevuti nell'Ordinazione e non ricava da essi i frutti che Gesù attende da lui, decade e può diventare un albero maledetto nella sterilità. A Timoteo che era di carattere timido, san Paolo raccomanda, logicamente, di ravvivare in lui il dono della fortezza con parole incisive: Dio non ci ha conferito uno spirito di timidezza, ma di fortezza, d'amore e di sobrietà. Tre parole che determinano il carattere della fortezza, dono dello Spirito Santo, che deve ravvivare in lui: fortezza d'animo, non di irruenza, di nervi, fortezza nella carità, e perciò trasfusa d'amore soprannaturale; fortezza che sia prudente, che sappia mantenersi nei limiti, e perciò fortezza con spirito di sobrietà. Sii forte, perciò, nel confessare e nel diffondere la fede, e sii forte, ora che io sono carcerato, nell'avvalorare i precetti e le esortazioni fatte da me. San Paolo esprime questo pensiero con parole che rivelano due stati dell'anima di Timoteo, e bisogna saperle intendere. Egli dice: Non ti vergognare di rendere testimonianza al Signore nostro. Avendo prima lodato la fede schietta di Timoteo, questi non poteva certo essere decaduto fino al punto da vergognarsene. L'Apostolo dunque vuol dire: Non essere restio per timidezza, a diffondere la fede che io ho predicata, credendo prudente tacere, ora che l'essere io carcerato può svalutarla, perché, anzi, la mia prigionia sofferta per amore di Gesù, è conferma della verità della mia predicazione. Per questo soggiunge: non ti vergognare di me prigioniero per amore di Gesù. E psicologico, infatti, è naturalissimo un senso di disistima e di diffidenza profonda che viene nell'anima, al sapere che uno è carcerato, per qualunque ragione. Anche se si apprezza la persona carcerata, tuttavia passa nell'anima una nebbia, che la fa vedere diminuita innanzi alla società. È inconscio, senza dubbio, quando si tratta di persone buone, le quali sono prese, alla superficie dell'anima, da un sentimento di compassione e anche di venerazione; ma innanzi alla società, nel fondo dell'anima viene sempre un certo senso d'impaccio nel sapere uno carcerato e nel trattare con lui o di lui pubblicamente. Quando si è carcerati per un ideale, nel tempo nel quale si accanisce contro di esso la persecuzione, anche allora quelli che lo seguono si fanno naturalmente guardinghi, ed evitano di mostrarsene apertamente seguaci, per prudenza. San Paolo, conoscendo la timidezza di Timoteo, lo incoraggia a non temere e non vergognarsi di lui, prigioniero per amore di Gesù, proprio nel senso di non temere di essere imprudente nell'apostolato, ma anzi di essere anche lui pronto a sostenere travagli per amore del Vangelo, confidando sulla virtù di Dio, sulla forza cioè che Egli dà nelle tribolazioni, e pensando alla grandezza del ministero affidatogli da Dio. Egli ci ha salvati, infatti, e ci ha chiamati con vocazione santa, gratuitamente, non per le nostre opere, non per merito nostro, ma secondo il suo buon proposito e la sua grazia. Il buon proposito divino non è altro che un decreto eterno, col quale Dio, non in vista di opere o meriti precedenti, ma per sua misericordia, in seguito alla sua prescienza, ha stabilito di chiamare qualcuno all'apostolato. Però questa decisione gratuita di Dio, tanto alla fede che all'apostolato di quelli che elegge, dopo il peccato di Adamo è subordinata alla redenzione fatta da Gesù Cristo agli uomini, senza la quale non ci può essere né grazia né salvezza.
Un argomento difficile da chiarire
Questa grazia — soggiunge san Paolo — a noi conferita in Cristo Gesù fin dai più antichi tempi, si è ora manifestata con l'apparizione del nostro Salvatore Cristo Gesù, che ha distrutto la morte ed ha fatto risplendere la vita e l'immortalità per mezzo del Vangelo. È un argomento profondo, ma per noi difficile, per persuadere Timoteo a sostenere e propagare la fede con fortezza d'animo, anche tra pene e travagli, confidando nella forza che Dio gli dà, come soffre lui, Paolo, stando carcerato per la propagazione del Vangelo. L'argomento di san Paolo, difficile senza dubbio nella sua espressione, si riduce a questo: l'Apostolo considera la redenzione operata da Gesù Cristo, nell'eternità dei decreti e della prescienza di Dio prima dei più antichi tempi, e la considera nel suo compimento, nel tempo prestabilito da Dio. Dall'eternità, Dio aveva decretato di creare l'uomo a sua immagine e somiglianza, intelligente e libero, e per la sua prescienza aveva preveduto la sua caduta nel peccato, decretandone la riparazione per l'Incarnazione del Verbo suo, per sola misericordia e grazia. Creando tutto per il Verbo, aveva diffuso la sua bontà: manifestazione della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore, quasi meraviglioso raggio di gloria, ad extra, dell'adorabile Trinità. Il Verbo era immagine sostanziale del Padre a Lui congiunto dall'eterno Amore. Avendo Dio diffuso la sua bontà nella creazione, come Padre onnipotente, volle creare nella creazione l'uomo ragionevole a sua immagine e somiglianza. Ma, creandolo libero per meritare la felicità eterna che è in Lui, nella sua prescienza ne previde la caduta, e misericordiosamente ne decretò la riparazione per l'Incarnazione del Verbo suo. L'immagine eterna e sostanziale del Padre sarebbe venuta a compiere, con la misericordia e la grazia, nell'uomo caduto, l'immagine e somiglianza di Dio, manomessa dal peccato. Era ineffabilmente logico che la restaurazione dell'immagine di Dio nel tempo e nella carne umana fosse compiuta dall'eterna immagine divina, dal Verbo Incarnato. Ammirabile restauratore, Dio volle donare all'uomo, fatto di corpo e vivificato dall'anima, il divino modello eterno fatto uomo: Anima, Corpo e Sangue, terminati dalla divina Persona del Verbo: Anima, fatta obbediente alla divina volontà, che è l'eterno Amore; Corpo, immolato nei più atroci dolori, come ultimo termine di questa obbedienza e di questa piena accettazione della divina volontà; sangue, che doveva effondersi, lavacro di salvezza e fonte di meriti per l'uomo depauperato dal peccato. Come un restauratore dispone tutto quello che gli serve per restaurare un capolavoro avariato e dispone i colori, i pennelli e quanto serve al lavoro perché sia completo e perfetto secondo il modello, così Dio, restauratore ammirabile, fin dall'eternità decretò quali anime dovevano cooperare alla restaurazione, non per merito loro, ma per un'elezione di grazia che doveva poi realizzarsi nel tempo, su creature scelte per grazia ma nel pieno possesso della loro libertà, e quindi aventi l'obbligo di corrispondere alla grazia dell'elezione, col pericolo di essere rigettate nel caso di volontaria e peccaminosa incorrispondenza. Questa incorrispondenza in creature libere era prevista per l'infinita prescienza divina e quindi gli eletti per la grazia, sostenuti dalla grazia, dovevano solo ringraziare Dio. Tutto questo ineffabile mistero era nell'eternità di Dio, nel proposito, ossia nei suoi decreti, che san Paolo chiama proposito buono e grazia sua, perché sempre manifestazione ed effusione della sua infinita bontà e misericordia. Questo ammirabile disegno divino, che l'uomo può solo adorare, doveva compiersi nel tempo stabilito da Dio, e fatto da Lui preannunciare agli uomini dai profeti, illuminandolo con le figure ed i simboli della storia del popolo eletto. Esso cominciò a realizzarsi con la manifestazione e l'apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo, che ha distrutto la morte spirituale, liberandoci dalla schiavitù del peccato, ed ha vinto la morte con la sua risurrezione, meritandoci la risurrezione anche dalla morte corporale alla fine dei tempi, facendo in Lui risplendere la vita e l'immortalità. La sua opera, compiuta col suo sacrificio sulla Croce, continua e si sviluppa per il Vangelo, ossia per la propagazione della fede fatta da coloro che sono eletti da Dio gratuitamente nella sua Chiesa, anche tra persecuzioni e pene, che sono la continuazione in loro della Passione di Gesù Cristo.
San Paolo, in carcere, testimone di Dio
San Paolo, incoraggiando Timoteo col suo esempio, soggiunge: È per annunciare il Vangelo, che io sono stato costituito ambasciatore, apostolo e dottore dei pagani. Ed è anche per questo che io soffro questi mali, ma non ne arrossisco perché so a chi mi affido, e sono certo che Egli è potente per custodire sino a quel giorno il mio deposito. E voleva dire in sintesi: per gratuita elezione di Dio, a compimento del tempo, del suo eterno decreto di misericordia per la redenzione, io sono stato costituito ambasciatore, apostolo e dottore dei pagani: ambasciatore della divina volontà di salvare, apostolo nella propagazione della fede per il Vangelo, dottore dei pagani, ai quali lo annunciò tra sofferenze e pene umilianti, come lo stare carcerato come un malfattore. Di questa pena che soffro ora, non arrossisco, la sopporto con fierezza, perché rendo testimonianza a Dio, come suo ambasciatore di verità; sono apostolo eletto direttamente da Gesù Cristo per portare il Vangelo ai pagani, ai quali, benché in carcere quasi malfattore, mi presento come dottore, confidando pienamente in Dio e, benché io sia fragile tra le pene, pure sono certo che la grazia divina è potente a custodire in me la fede, per la quale soffro, sino a quel giorno. A quale giorno? Qui sembra che san Paolo abbia nello scrivere dei punti sospensivi. Alcuni pensano che alluda al giorno del Giudizio, ed interpretano la parola deposito come il tesoro delle virtù, dei sacrifici e dei meriti accumulati dall'Apostolo durante la sua vita di apostolato, e che nel Giudizio gli saranno ricompensati. Ma a noi sembra che l'interpretazione di quella parola indeterminata: Dio è potente per custodire il deposito che mi è stato affidato sino a quel giorno... abbia un significato più profondamente psicologico. San Paolo scriveva o dettava in carcere, legato da catene come un reo, e sentiva tutta l'umiliazione di quel luogo e di quelle catene, trattato com'era da malfattore. La sua anima nobile e fiera, vi ripugnava naturalmente, ma pensando che era là per amore di Gesù Cristo, si riprende ed esclama fieramente: Non arrossisco. Era in lui una fierezza d'amore verso Gesù, ed una fierezza di disprezzo per il carcere che subiva, perché si sentiva non solo innocente nel mondo civile, ma si sentiva forte per la sua dignità di apostolo, dottore dei pagani. Non dice a caso quella parola dottore ma psicologicamente rivela la sua anima che si sentiva superiore a quelli che lo avevano carcerato. In quel nobile momento d'amore a Gesù e di disprezzo dell'umiliante pena che subiva, forse movendosi per un gesto spontaneo delle mani levate a Dio, in cui solo confidava, le catene fecero sentire il loro peso e tintinnarono tristemente. Egli aveva già il presentimento della sua morte imminente, come risulta da tutta la lettera, e quel cupo tintinnio di catene lo richiamò all'idea della morte violenta che sentiva vicina. Di fronte alla morte avvertì la sua naturale debolezza, e nella sua abituale umiltà temette di non poter essere costante nella confessione della fede sino alla fine. Ma subito l'anima sua si riprese confidando che Colui per il quale avrebbe subito la morte era potente per custodire il suo deposito sino a quel giorno... Voleva dire sino a quel giorno della morte che mi aspetta, ma non lo espresse per non angustiare Timoteo. Con la parola deposito, certamente san Paolo intendeva parlare del deposito della fede a lui affidato per predicarla e propagarla. Il pensiero dell'imminente giorno del suo martirio, espresso vagamente con una frase monca ed enigmatica: quel giorno, per non contristare Timoteo, gli fa rivolgere a lui il pensiero con tenerezza e quasi come testamento: Conserva la norma delle sane dottrine che da me hai ricevuto con la fede e la carità che si hanno in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con la virtù dello Spirito Santo che abita in noi. Anche in questa esortazione c'è un nesso psicologico con lo stato d'animo nel quale si trovava san Paolo. Sentiva vicino il giorno del martirio, nel quale doveva dare la testimonianza più valida della fede che aveva predicato. Confidava solo nella virtù di Dio di poter subire quella terribile prova confessando la fede, perché sentiva la debolezza della natura alla quale ripugnava la morte. Per il sentimento di debolezza che avvertiva, logicamente esortava Timoteo a conservare intatta la dottrina che gli aveva insegnata, con la fede e la carità che si hanno in Cristo Gesù, cioè credendo e amando la dottrina ricevuta, perché solo col cuore pieno di fede in Gesù e pieno d'amore per Lui poteva conservarla integra e pura. Era un deposito sacro di verità che gli era stato affidato, e doveva custodirlo intatto con la grazia dello Spirito Santo, che per il Battesimo e la sacra ordinazione abitava in lui. L'insistente esortazione di san Paolo a conservare intatta la dottrina della fede rivela l'intima angustia di lui che, morendo, non poteva più predicarla ed il timore che potesse in seguito essere alterata. Questa preoccupazione era profonda nella sua anima e la esprime più avanti (capitolo 3), con accorate parole. Per la luce sovrabbondante avuta direttamente da Gesù Cristo nel propagare la fede, sentendosi prossimo alla morte, era logico che si preoccupasse che fosse mantenuta integra. Esortando Timoteo lasciava quasi questa preoccupazione alla Chiesa, che in tutti i secoli ha avuto cura di conservare intatto il deposito della fede, combattendo strenuamente, con la luce dello Spirito Santo, contro gli errori che tentavano offuscarla e manometterla. Per questo, non senza ragione san Paolo si dichiarò qui Dottore dei pagani (versetto 11) costituito da Dio per annunciare le verità della fede. Per cui san Bonaventura chiama san Paolo il più grande maestro dei cristiani, dopo Gesù Cristo.
San Paolo, in carcere, rimase abbandonato: solo Onesiforo gli fu di conforto Nella sua prigionia, san Paolo ebbe una grande pena e l'esprime a Timoteo sfogandosi con lui, che amava come figlio. Non lo fa senza ragione poiché, avendolo esortato a mantenere integra la fede, vuol fargli toccare con mano con quanto impegno dovesse farlo, data l'incostanza delle anime e la loro facilità a venire meno nelle angustie e nel pericolo. Con nesso logico, perciò, a quanto gli ha scritto prima, esclama: Tu già sai che mi voltarono le spalle tutti quelli dell'Asia, tra i quali Figelo ed Ermogene. L'Asia di cui parla san Paolo era l'Asia proconsolare romana, che aveva per capitale Efeso. Le persone che no-mina erano cristiani che, forse, avevano seguito l'Apostolo fino a Roma? Così credono alcuni. Ma dato il contrappunto che san Paolo fa con Onesiforo, che per assisterlo andò a cercarlo sino a Roma, pare evidente che quei due cristiani che sono nominati: Figelo ed Ermogene, visto che san Paolo era stato carcerato, ebbero rossore di farsi conoscere per suoi discepoli, ed insieme con altri dell'Asia, gli voltarono le spalle fingendo di non conoscerlo neppure. Fu un grande dolore per l'Apostolo, e questo è il senso di quelle parole: mi voltarono le spalle tutti quelli dell'Asia. All'ordine dell'arresto, notarono un movimento insolito intorno a san Paolo, notarono anche la nave che doveva trasportarlo a Roma, e per curiosità si avvicinarono, come del resto avviene in simili casi. Ma appena si accorsero che lo dichiaravano in arresto e gli mettevano le catene, temendo per loro delle compromissioni, deboli nella fede, gli voltarono le spalle tutti quelli che si erano avvicinati, e non tutti i cristiani dell'Asia. Uno solo, Onesiforo, con la sua famiglia, gli rimase fedele; poi avendo saputo che lo portavano a Roma andò a cercarlo là, in un viaggio successivo, certamente per esortazione della sua famiglia. Questa premura della sua famiglia, che non temette di esporlo ad un pericolo pur di non lasciare san Paolo senza un aiuto ed un conforto, fu certamente significata all'Apostolo dal medesimo Onesiforo. Questi, infatti, giunto a Roma a spese della sua famiglia, dovette girare e rigirare in quella immensa città per poter trovare san Paolo ed incontrarsi con lui. Lo si rileva dalle stesse parole dell'Apostolo: Con premura cercò di me e mi ritrovò. Data la maggiore severità con la quale in questa seconda prigionia romana san Paolo era custodito, l'incontro con Onesiforo gli dovette generare sorpresa dolcissima e meraviglia e, com'è naturale supporlo, dovette dirgli: «Come hai fatto a venire sino a me tra tanti pericoli e tante difficoltà?». Onesiforo gli dovette parlare delle insistenti premure della sua famiglia, che non aveva esitato a farlo imbarcare subito per Roma. Per questo san Paolo, commosso e riconoscente per il conforto e gli aiuti avuti, esclama: Faccia il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, poiché egli spesso mi ha confortato e non ha arrossito della mia prigionia ma, venuto a Roma, con premura mi cercò e mi ritrovò. Alcuni suppongono che san Paolo si rivolge riconoscente alla famiglia di Onesiforo perché questi doveva essere morto. Ma è una supposizione arbitraria, poiché era logico che san Paolo rivolgesse parole di benedizione alla famiglia di lui, che con dispendio lo aveva mandato a Roma. Per avvalorare l'ipotesi che Onesiforo fosse morto, alcuni interpretano come preghiera di suffragio alla sua anima l'invocazione alla divina misericordia che fa per lui. Ma a noi non pare, perché quella' invocazione è fatta determinatamente per benedirlo, e perché ne abbia ricompensa eterna in quel giorno, cioè nel giorno futuro della morte e del Giudizio. Della morte con la misericordia, e del Giudizio presso di Lui, con la ricompensa eterna. D'altra parte san Paolo parla di averlo riconfortato, al presente, nel carcere, di non aver arrossito della sua prigionia, con l'amorosa spontaneità che aveva avuto sempre per lui, ricordando a Timoteo, come cosa a lui ben nota, quanti servizi gli avesse resi ad Efeso. Evidentemente queste espressioni suppongono un tempo presente, un sentimento di affettuosa gratitudine presente, e non il penoso ricordo di un benefattore morto, per il quale avrebbe avuto espressioni di rammarico.
Sac. Don Dolindo Ruotolo
Tratto da “NUOVO TESTAMENTO-Lettere di San Paolo Apostolo”
Casa Mariana Editrice – da pag. 2064 a pag. 2081
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