giovedì 17 ottobre 2024

Dio esige che gli rendiamo gloria, perché questo si traduce nella nostra felicità… di Don Dolindo Ruotolo

 

Le vie degli uomini sono agli antipodi di quelle di Dio, perché l'uomo guarda al proprio interesse momentaneo, e Dio guarda a quello eterno; l'uomo si preoccupa della propria gloria e Dio guarda l'esigenza della sua gloria, che diventa per le sue creature medesime diffusione di beni e di misericordie.

Il Signore non ha bisogno di noi, ma desidera i nostri omaggi, il nostro amore e la nostra dedizione a Lui, perché tutto questo si traduca nella nostra felicità. La sua gloria, diffusa nell'universo, ce lo fa conoscere e ci avvicina a Lui; la sua gloria, manifestata a noi, ci attrae nella sua volontà e ci fa vivere di Lui; la sua gloria, rifulgente negli atti stessi della giustizia, ci fa sentire che Egli solo è tutto e che a Lui solo dobbiamo tendere. La gloria di Dio ad intra è lo splendore della sua vita, ad extra è lo splendore della sua bontà che si diffonde. I nostri omaggi e la gloria che gli doniamo sono come nubi che si formano in alto e ricadono in pioggia sopra noi stessi. Ogni concentrazione nella nostra gloria, invece, è una perdita, più o meno grave e disastrosa a seconda della nostra stoltezza; la caduta angelica e quella umana sono la documentazione di questa verità. Dio non può avere, nel creato, delle immagini materiali che lo manifestino, ma si può dire che la sua gloria è la fulgente statua della sua realtà, come la gloria delle creature è l'idolo abietto che lo sfigura e lo rinnega.

La gloria di Dio, la gloria di Dio: quale armonia di grandezza e di felicità ha questa parola, quale sapore di sazietà ha per l'uomo che la cerca, quale segreto di elevazione ha, e come trae nel suo vortice luminoso la nostra nullità, umiliata dinanzi al Signore! L'uomo cade in un abisso di angustiante infelicità quando cerca la propria gloria e i propri interessi.

Il tratto del Vangelo che stiamo meditando ci presenta, come in un contrasto eloquente, le vedute umane e quelle di Dio, la ricerca dei propri interessi che degradano e quelli della gloria di Dio che elevano. I farisei interrogano Gesù Cristo sul divorzio perché non vedono che l'interesse della carne; vorrebbero che la Legge di Dio si adattasse alle loro passioni e che la bellezza del connubio, immagine della vita di Dio che si conosce, genera e si ama, si riducesse alla ricerca di un piacere brutale che avvilisce, isterilisce e si consuma nella discordia e nell'odio.

Gli Apostoli considerano come un fastidio i fanciulli e li allontanano da Gesù, mentre essi, nella loro innocenza, sono templi vivi della gloria divina.

Il giovane che vuol seguire Gesù cerca l'onore, ma rifugge dalla rinuncia; Pietro, che con gli Apostoli lo segue, domanda a nome suo e di tutti la ricompensa del suo sacrificio.

Eppure la via del Redentore era tanto diversa, ed Egli, per contrastare le vedute terrene dei suoi Apostoli, la ricorda loro con i fatti e con la parola: si mette in viaggio verso Gerusalemme, la città dove aveva nemici accaniti e potenti, e annuncia chiaramente che va incontro all'immolazione e al sacrificio completo. Questa è la sua via. Gli Apostoli camminano a malincuore, si stupiscono di come mai il Maestro abbia, secondo loro, l'imprudenza di andare in una città tanto pericolosa e lo seguono timorosi.

Egli li precede, va avanti a tutti perché vuol dare la vita per la gloria del Padre e per la salvezza di tutti. Com'è bella questa scena! Gesù va avanti, non teme il pericolo perché l'amore lo spinge. Gli Apostoli non capiscono ancora e stentano a seguirlo.

Il Redentore non li illude con falsi miraggi; anzi, li chiama in disparte e parla loro in tono profetico delle grandi pene che lo aspettano, della sua Morte e della sua Risurrezione. In disparte Egli può parlare loro più confidenzialmente, può effondere il suo amore e confortarli, ma gli Apostoli non approfondiscono il suo discorso e, sentendolo parlare di risurrezione, immaginano che alluda al suo regno glorioso e al suo trionfo sui nemici, e passano dallo scoraggiamento alle fantastiche speranze. Indice di questo stato d'animo è la domanda fatta da san Giacomo e da san Giovanni. Essi si fanno avanti e, come è detto in san Matteo, interpongono anche la mediazione della loro madre (cf. Mt 20,20-27), per essere più sicuri di essere esauditi, e vogliono in certo modo impegnare la parola di Gesù, dicendo: Vogliamo che qualunque cosa ti domanderemo, Tu ce lo conceda. Gesù Cristo sapeva bene quello che volevano domandargli ma li interrogò, perché avessero riflettuto a quello che presumevano di avere. Certe aspirazioni fantastiche, infatti, quando vengono espresse, perdono quel fascino particolare che hanno e quando vengono dette dinanzi agli altri possono incontrare una speciale opposizione che le sfata o, per lo meno, danno un senso di pudore.

Giacomo e Giovanni non esitarono e domandarono un posto privilegiato a destra e a sinistra nella sua gloria.

In un momento nel quale Gesù parlava della sua Passione, Egli considerava chi sarebbe stato alla sua destra e alla sua sinistra; sul Calvario, che era come il trono del suo vero regno d'amore, Egli doveva essere, ahimè, messo a livello dei malfattori e stare fra due ladri.

Forse a questo alludeva quando disse loro: Non sapete quello che domandate. Potete voi bere il calice che io bevo ed essere battezzati col battesimo col quale sono battezzato?

Egli non poteva andare nel regno della sua gloria senza passare per il Golgota, e se gli Apostoli avessero voluto stargli a destra e a sinistra nella sua gloria, avrebbero dovuto stargli vicini anche nella Passione e Morte. Essi, invece, erano tanto lontani in quel momento da volerlo seguire nel dolore! Risposero, è vero, risolutamente che potevano bere il calice del Maestro, ma non sapevano quello che significasse e forse capirono di dovergli fare da coppieri o da servi nel suo regno, dandogli la coppa per bere e l'acqua per lavarsi.

Gesù soggiunse, con un senso di tristezza, guardando il futuro, che essi avrebbero certamente bevuto il suo calice e ricevuto il suo battesimo di sacrificio quando sarebbero stati martirizzati, ma che il sedere alla sua destra o alla sua sinistra non stava a Lui concederlo, ma era per quelli ai quali era stato preparato.

Dalle meschine aspirazioni di un posto privilegiato in un regno temporale, Gesù trasporta i suoi Apostoli alla visione del regno eterno e dice che Egli non può concedere là un posto d'onore particolare a chiunque lo domanda, perché in Cielo tutto è ordine e gerarchia dipendente dalle disposizioni di Dio e non dal capriccio delle creature.

È evidente che Gesù non risponde ai due Apostoli come Dio, ma come Redentore e come Re, perché essi avevano fatto appello al suo regno; ora, come Redentore, Egli era Mediatore tra Dio e l'uomo e non poteva disporre ma intercedere; come Re, poi, in quanto uomo, Egli non poteva prescindere dalla divina Volontà. Il Padre lo avrebbe fatto Re dell'universo anche in quanto uomo, ma il suo regno sarebbe stato il regno della divina Volontà sugli uomini e su tutte le creature.

All'orgogliosa ambizione dei due Apostoli, Gesù oppone la sua umiltà e, parlando in quanto uomo, interamente sottomesso alla Volontà del Padre, dichiara che Egli non può assegnare i posti d'onore nel suo regno. Dicendo poi, com'è riferito da san Matteo, che quei posti li avrebbero avuti quelli ai quali erano stati preparati dal Padre suo, allude alla giustizia con la quale viene distribuito nel Cielo ogni premio, e che non basta desiderare un privilegio ma bisogna meritarlo con le opere buone.

Gli altri Apostoli considerarono la domanda di Giacomo e di Giovanni come una pretesa che poteva manomettere i loro diritti e contrastava le loro ambizioni; ognuno di loro aveva in cuore un desiderio e un progetto da far valere nel regno di Gesù Cristo, da loro concepito come un regno temporale, e ognuno credé di essere danneggiato dalla proposta dei due loro compagni. L'indignazione che ebbero rivela questo loro stato psicologico: quando, infatti, si prospetta da un capo la possibilità di mutamenti nell'ordine sociale, i suoi seguaci fanno immediatamente i progetti di quello che essi possono farvi e, con la fantasia, assegnano a loro stessi e a ciascuno gli uffici, proporzionandoli non al merito ma all'ambizione. In queste concezioni fantastiche tutto quello che sembra contrastarle causa un'indignazione, perché la fantasia eccitata confina con la pazzia e questa non tollera né contrasti né opposizioni.

Giacomo e Giovanni, domandando di sedere uno a destra e uno a sinistra nel regno di Gesù Cristo, pensavano di esercitare un dominio sui loro compagni, o per lo meno questi interpretarono così il loro desiderio e se ne indignarono, perciò, grandemente; si rileva dall'esortazione che loro fece Gesù per pacificarli. Ognuno presume di avere qualità eccellenti per stare a capo e ognuno aspira al comando perché, al proprio orgoglio, ripugna obbedire. Tutti gli Apostoli credevano occultamente di poter comandare sugli altri, e il vedere che due di loro pretendevano una preminenza li indignò.

Evidentemente cominciarono fra loro a discutere animatamente; perciò Gesù li chiamò a sé, evitando, con questo, che la discussione degenerasse. Li chiamò, e fece sentire loro che Egli era il loro Capo amorosissimo con quel gesto d'invito paterno, stroncando nel loro cuore, d'un tratto, quel senso d'indipendenza e di comando che li aveva presi, e manifestò quale doveva essere, nella sua Chiesa, il concetto del comando e del dominio.

Egli additava così un'altra delle sue vie contrastanti quelle del mondo: i principi della terra dominano sui loro sudditi ed esigono di essere serviti; invece i capi della Chiesa dovevano essere come servi di tutti, poiché chi comanda per beneficare e per salvare deve dare e non ricevere, deve sacrificarsi e non soggiogare, e dev'essere come immagine viva del Redentore venuto sulla terra per servire le anime e per dare la sua vita per la redenzione di molti, cioè di tutti come tesoro di meriti, e di molti, ossia di quelli che effettivamente avessero voluto usufruire del comune tesoro di salvezza.


Per chi sta a capo

Se le autorità del mondo sapessero intendere questo grande precetto, non ridurrebbero il comando ad una tirannia né avrebbero tanta ambizione di rimanere ad ogni costo al potere. Chi sta a capo è come un padre di famiglia e deve provvedere al bene degli altri; questo comporta un continuo e vero sacrificio della propria vita e un servire gli altri. Quando si ha questo concetto della propria responsabilità, invece di imporsi con orgogliosa prepotenza si cerca di conciliare i cuori con la carità, e l'autorità diventa elemento vero di ordine, di prosperità e di pace.


Sac. Don Dolindo Ruotolo - Tratto da “I QUATTRO VANGELI” Ediz. Casa Mariana Editrice – da pag. 791 a pag. 797


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