Vi
do una notizia un po’ riservata. Vi rivelo un segreto; ma, mi
raccomando, resti tra noi. La notizia è questa: grande è la fortuna
di noi credenti. Grande è la fortuna di chi è «cristiano»; cioè
appartiene, sa di appartenere, vuole appartenere a Cristo. Grande è
la fortuna dei credenti in Cristo. Però non andate a dirlo agli
altri: non la capirebbero. E potrebbero anche aversela a male:
potrebbero magari scambiare per presunzione il nostro buon umore per
la felice consapevolezza di quello che siamo; potrebbero addirittura
giudicare arroganza la nostra riconoscenza verso Dio Padre che ci ha
colmati di regali. C’è perfino il rischio di essere giudicati
intolleranti: intolleranti solo perché non ci riesce di omologarci –
disciplinatamente e possibilmente con cuore contrito – alla cultura
imperante; intolleranti solo perché non ci riesce di smarrirci, come
sarebbe «politicamente corretto», nella generale confusione delle
idee e dei comportamenti.
Conoscere
il senso di ciò che si fa
È
già una fortuna non piccola e non occasionale – che ci viene dalla
nostra professione di fede – quella di conoscere il senso di alcune
piccole consuetudini e di alcune circostanze occasionali. Per
esempio, tutti mangiamo il panettone a Natale, ma solo i credenti
sanno perché lo mangiano. Non è che il loro panettone sia
necessariamente più buono di quello dei non credenti: è
semplicemente più ragionevole. Un altro esempio: un po’ d’anni
fa eravamo tutti eccitati e in tripudio per il suggestivo traguardo
del Duemila che ci sarebbe stato dato di raggiungere: ma l’emozione
e la festa dei credenti erano meglio motivate. Noi non ci sentivamo
emozionati e in festa soltanto per la rotondità della cifra
(duemila!); eravamo presi e allietati dal forte ricordo di un evento
che è centrale e anzi unico nella storia: il ricordo del
bimillenario dall’ingresso sostanziale e definitivo di Dio nella
vicenda umana. Quell’anno appunto ci veniva più intensamente
richiamata la memoria dell’Unigenito del Padre che è divenuto
nostro fratello e si ravvivava in noi con vigore singolare la grande
speranza che duemila anni fa ha incominciato ad attraversare la
terra. Come si vede, tutta l’umanità festeggiava il Duemila; ma la
nostra festa era innegabilmente più consistente e più razionalmente
fondata.
Credenti
e creduloni
Coloro
che si affidano a Cristo – che è «Luce da Luce», cioè il Logos
sostanziale ed eterno di Dio – sono inoltre abbastanza difesi dalla
tentazione di affidarsi a ciò che è inaffidabile. Anche questa è
una fortuna non da poco. È stato giustamente notato come il mondo
che ha smarrito la fede non è che poi non creda più a niente; al
contrario, è indotto a credere a tutto: crede agli oroscopi, che
perciò non mancano mai nelle pagine dei giornali e delle riviste;
crede ai gesti scaramantici, alla pubblicità, alle creme di
bellezza; crede all’esistenza degli extraterrestri, al new age,
alla metempsicosi; crede alle promesse elettorali, ai programmi
politici, alle catechesi ideologiche che ogni giorno ci vengono
inflitte dalla televisione. Crede a tutto, appunto. Perciò la
distinzione più adeguata tra gli uomini del nostro tempo parrebbe
non tanto tra credenti e non credenti, quanto tra credenti e
creduloni.
La
conoscenza del Padre
Chi
è «di Cristo» riceve in dotazione anche la certezza dell’esistenza
di Dio. Ma non di un Dio filosofico, che all’uomo in quanto uomo
non interessa granché; non di un Dio che viene chiamato in causa
solo per dare un cominciamento e un impulso alla macchina
dell’universo, e poi lo si può frettolosamente congedare perché
non interferisca e non disturbi; non di un Dio che, dopo il misfatto
della creazione, parrebbe essersi reso latitante. Questa è, press’a
poco, la concezione «deistica», e non ha niente a che vedere né
con l’insegnamento del Signore né con la nostra vita.
C’è anzi da dire che tra il deismo e l’ateismo, per quel che personalmente ci riguarda, la differenza non è poi molta. Il nostro Dio è «il Padre del Signore
nostro Gesù Cristo », come amava ripetere san Paolo. E lo si incontra, incontrando Gesù di Nazaret e il suo Vangelo: «Nessuno conosce il Padre se non
il Figlio – lo ha detto lui esplicitamente – e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).
C’è anzi da dire che tra il deismo e l’ateismo, per quel che personalmente ci riguarda, la differenza non è poi molta. Il nostro Dio è «il Padre del Signore
nostro Gesù Cristo », come amava ripetere san Paolo. E lo si incontra, incontrando Gesù di Nazaret e il suo Vangelo: «Nessuno conosce il Padre se non
il Figlio – lo ha detto lui esplicitamente – e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).
La
sfortuna dell’ateo
Si
può intuire quanto sia grande a questo proposito la nostra fortuna,
soprattutto se ci si rende conto davvero della poco invidiabile
condizione degli atei. I quali, messi di fronte ai guai inevitabili
in ogni percorso umano, non hanno nessuno con cui prendersela. Un
ateo – che sia veramente tale – non trova interlocutori
competenti e responsabili con cui possa discutere dei mali
esistenziali, e lamentarsene. Non c’è nessuno contro cui
ribellarsi, e ogni sua contestazione, a ben pensarci, risulta un po’
comica. Di solito, in mancanza di meglio, finisce coll’aggredire i
credenti; ma è un bersaglio che non è molto appagante, perché i
credenti (se sono saggi) se ne infischiano di lui e non gli prestano
molta attenzione. Un ateo, se non vuol clamorosamente rinunciare a
ogni logica e a ogni coerenza, è privato perfino della soddisfazione
di bestemmiare. E questa è la più comica delle disavventure. Clave
Staples Lewis (l’autore delle famose Lettere
di Berlicche),
ricordando il tempo della sua incredulità, confessava: «Negavo
l’esistenza di Dio ed ero arrabbiato con lui perché non esisteva».
Un
Dio che ama
Gesù
poi – rivelandoci, attraverso il mistero della sua passione e della
sua gloria, che anche l’umiliazione, la sofferenza, la morte
trovano posto in un disegno d’amore che tutto riscatta e alla fine
conduce alla gioia – ci preserva anche dalla follìa di chi arriva
a ipotizzare, fondandosi sulla sua stessa personale esperienza, che
un Dio probabilmente esiste; ma, se esiste, è malvagio e causa di
ogni malvagità. È il sentimento espresso, per esempio, nella
spaventosa professione di fede di Jago nell’Otello di Verdi
all’atto secondo: «Credo in un Dio crudel che m’ha creato simile
a sé». Il Dio che ci è fatto conoscere dal Redentore crocifisso e
risorto, è un Dio che ci vuol bene e, come dice san Paolo, fa in
modo che «tutto concorra al bene per quelli che sono stati chiamati
secondo il suo disegno» (cf. Rm 8,28); tutto concorre al nostro bene
anche quando noi sul momento non ce ne avvediamo. È la verità
consolante ed entusiasmante che Gesù ci confida, quasi suprema sua
eredità, nei discorsi dell’ultima cena: «Il Padre vi ama» (Gv
16,27). Il Padre ci ama: con questa certezza nel cuore ogni
difficoltà, ogni tristezza, ogni pessimismo diventa per noi
superabile.
Chi
è l’uomo
Facendoci
conoscere il Padre, Gesù ci porta anche alla miglior comprensione di
noi stessi: ci fa conoscere chi siamo in realtà, quale sia lo scopo
del nostro penare sulla terra, quale ultima sorte ci attenda. «Cristo
– dice il Concilio Vaticano II – proprio rivelando il mistero del
Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e
gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium
et spes22).
Così veniamo a sapere – e nessuna notizia è per noi più
interessante e risolutiva di questa – che siamo stati chiamati ad
esistere non da una casualità anonima e cieca, ma da un progetto
sapiente e benevolo. Veniamo a sapere che l’uomo non è un
viandante smarrito che ignora donde venga e dove vada né perché mai
si sia posto in viaggio, ma un pellegrino motivato, in cammino verso
il Regno di Dio (che è diventato anche suo) e verso una vita senza
fine. Il dilemma tra l’essere increduli e l’essere credenti è in
realtà il dilemma tra il ritenersi collocati entro un guazzabuglio
insensato e il conoscere di essere parte di un organico e
rasserenante disegno d’amore. L’alternativa, a ben considerare,
sta fra un assurdo che ci vanifica e un mistero che ci trascende;
alternativa che esistenzialmente diventa quella tra un fatale avvìo
alla disperazione e una vocazione alla speranza. Perciò san Paolo
può ammonire i cristiani di Tessalonica a non essere malinconici e
sfiduciati come gli altri; «come gli altri – egli dice – che non
hanno speranza» (1Ts 4,13). Questa è dunque la sorte invidiabile di
coloro che sono «di Cristo»: dal momento che «conoscono le cose
come stanno», non sono costretti ad appendere ai punti interrogativi
la loro unica vita.
«Dove
c’è la fede, lì c’è la libertà»
Un’altra
grande fortuna di coloro che sono «di Cristo» è quella di essere
liberi. Abbiamo ricevuto a questo riguardo una precisa promessa: «Se
rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete
la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Il principio
di questa prerogativa inalienabile del cristiano è la presenza in
noi dello Spirito Santo: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è
libertà» (2Cor 3,17); quello Spirito che, secondo la parola di
Gesù, ci guida alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13). Vale a
dire, come abbiamo appena visto, ci chiarifica «le cose come
stanno». Sant’Ambrogio enuncia icasticamente questo caposaldo
dell’antropologia cristiana, scrivendo in una sua lettera: «Dove
c’è la fede, lì c’è la libertà».
di Giacomo Biffi - Fonte: Avvenire - Tratto da: Ascolta tua Madre
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