Ciò
che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria
chiarezza di idee. Tutto
è lucidamente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le
esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative
(«forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel
nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi,
dai quali sono lontanissimi
i vezzi, le civetterie, l’apparente arrendevolezza del “pensiero
debole”. Gesù
manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non
fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e
luminosità del suo insegnamento.
Pur
nella grande varietà degli argomenti toccati, non c’è
frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto
è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre
ricorrenti: quello del Padre
(un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e
quello del Regno, traguardo di ogni tensione delle creature
e del loro peregrinare nella storia.
In
lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto
nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle
piccole cose, né del superuomo
che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza
rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un
osservatore attento — anzi interessato e compiaciuto — della
realtà “feriale” nella quale siamo tutti immersi.
Le
cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni:
i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale
da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio
che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la
cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli
effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di
senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e
produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci
commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal
gregge e si perde. E questo è un elenco che si potrebbe molto
allungare.
Quanto
s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha
somiglianza alcuna con l’ideologo
che — tutto preso dalle sue grandiose teorie — non riesce più a
vedere e a prendere in considerazione le
vicissitudini
spicciole della gente comune. E proprio questa sua sensibilità per
le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle
nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche
ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un
linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben
diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi
attori della scena politica.
Gesù
si dimostra poi sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a
distoglierlo dai suoi intenti.
È libero di fronte a quelli del suo clan, i quali, dopo averlo preso
per matto (cfr. Marco 3,21), si immaginano di poter ricavare qualche
vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di
riprendere i rapporti (cfr. Marco 3,31-34).
È
libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che
cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde
seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro»
(Giovanni 5,17). Egli
riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali
nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle
invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr. Matteo 23,32). Ai
sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita
a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi
vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza
di Dio» (Matteo
22,29).
Con
il tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a
dire a quella volpe...» (cfr. Luca 13,32). Del resto, la sua
franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli
sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si
rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di
nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità
insegni la via di Dio» (Marco 12,14). Gesù
è libero perfino dalla «apparenza della virtù»;
vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e
manifestamente infondati che la gente può formulare su di lui. Egli
va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della
sua buona fama: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve,
e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei
peccatori”» (Matteo 11,19). Si direbbe che ritenga valido anche
per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando
tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr. Luca 6,26).
Sono
eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé.
È tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di
rovesciargli la barca (cfr. Marco 4,35-41), così come con
impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla
inferocita di Nazaret che si propone di ucciderlo: «Tutti nella
sinagoga furono pieni di sdegno; si
levarono,
lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal
precipizio.
Ma
egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Luca 4,28-30). Non
è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che
si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le
proprie emozioni.
Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come
per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro:
«Quando la vide piangere (...) si commosse profondamente»; anzi «si
turbò», precisa l’evangelista (cfr. Giovanni 11,33).
E
al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche
lui; tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava»
(cfr. Giovanni 11,35-36). Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla
prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando
fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se
avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”»
(cfr. Luca 10,41-42).
Ma
sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei
discepoli,
felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di
evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia (...) In
quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io
ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr. Luca
10,17-21).
Gesù
era dunque un uomo che
sapeva piangere e sapeva stare allegro.
Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è
visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce
se non altro dal piacere con cui i pubblicani — che erano di solito
gaudenti e bontemponi — l’accoglievano alla loro mensa. Quando
aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva
fattivamente a sostentarla. Ma certo non doveva avere l’abitudine
di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con
riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame
nel mondo.
Leggiamo
ora un famoso episodio della sua vita, secondo la narrazione di
Matteo: «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo,
chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio
dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri
Elia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io
sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente”.
E
Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né
il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”»
(Matteo 16,13-17). Come
si vede, Gesù stesso propone qui il “problema di Cristo”.
Ed è stimolante rilevare come Gesù sia interessato a un duplice
tipo di investigazione:
innanzitutto:
La gente chi dice che io sia? Quali sono su di me le opinioni del
mondo? Poi: Voi chi dite che io sia? Voi che siete la mia Chiesa, voi
che vi esprimete ufficialmente per bocca di Pietro, che cosa dite
agli uomini di me?
Ad
ascoltare la «gente» non si raccoglie, a proposito di Cristo, una
certezza, ma piuttosto una molteplicità di opinioni.
Passiamole un po’ in rassegna, facendone in qualche modo tre
gruppi, così da semplificare il discorso. Gesù è per molti un
mito, che ha arricchito e adornato l’esistenza, senza aver lui
l’esistenza; qualcosa come Orfeo nell’antico mondo greco e, più
modestamente, come Babbo Natale nel moderno Occidente secolarizzato.
Oppure
è un uomo leggendario che, proprio perché non è mai esistito, ha
potuto essere rivestito a poco a poco dei caratteri della divinità.
O, se si vuole, è un’idea divina, una fede, uno slancio dello
spirito, che ha
assunto progressivamente nella coscienza di una comunità di uomini
sembianza e natura di uomo. Insomma, una grandezza sovrumana, ma
irreale.
Gesù
— dicono altri — è un uomo, straordinariamente ma semplicemente
uomo, che con il
suo fascino eccezionale, la sua intelligenza sublime, la sua
meravigliosa personalità, ha impresso un corso nuovo alla storia
universale: in una parola, un genio. C’è chi dice: un genio
religioso, che, avendo intuito con chiarezza e intensità
inarrivabili l’ultima verità delle cose, ha scoperto la paternità
di Dio, il culto «in spirito e verità», la legge della carità.
C’è chi dice: un genio filosofico, che ha rivelato il valore della
coscienza soggettiva e il primato del mondo interiore su quello
esteriore. C’è chi dice: un genio sociale, che ha affermato la
sostanziale uguaglianza tra gli uomini e ha esaltato la ricerca della
giustizia. C’è chi dice: un genio politico, che ha introdotto
nella storia umana l’impegno e l’ideale della liberazione da
tutte le prepotenze e da tutte le oppressioni esteriori. Insomma, una
grandezza reale, ma non sovrumana.
Gesù
— dice una terza opinione — è un uomo certamente esistito, ma
del quale non è possibile sapere niente di certo:
i documenti in nostro possesso ci parlano tutti del Cristo che è
stato oggetto della fede, dell’amore, dell’adorazione della
comunità primitiva, ma non ci mettono in condizione di chiarire chi
sia stato veramente in se stesso il Gesù della storia. Insomma, un
enigma storico che non sarà mai risolto.
C’è
da notare che, in genere, i giudizi che circolano tra la «gente»
sono intenzionalmente positivi e benevoli:
nessuno, o quasi nessuno, parla male di lui. Istituire la critica di
queste opinioni, mostrandone sia il bagliore di verità che c’è in
ciascuna sia i suoi limiti e la sua globale inconsistenza, è un
lavoro di analisi lungo, ma non difficile, e in altra sede anche
doveroso per il
cristiano
che vuol vivere la sua fede in modo intellettualmente maturo. Ma noi
non ce lo proponiamo, in questa che vuol essere una meditazione e si
prefigge solo il confronto tra le due posizioni (quella della gente e
quella della Chiesa), per rilevare i due diversi modi di accostare il
mistero di Cristo e prendere consapevolezza della loro totale e
assoluta incompatibilità.
Questa
riflessione vuol solo inquietare, fino a estinguere, se possibile, la
coesistenza nel nostro spirito di mondo e Chiesa,
delle opinioni della gente e della conoscenza donataci dal Padre, per
crescere nella limpidità della fede e nella coerenza della vita.
Anche
se molto diverse tra loro, le opinioni della «gente» hanno in
comune il ritenere Gesù di Nazaret un “caso classificabile”:
«uno dei profeti».
È un mito? La storia è piena di miti. È un’idea che ha segnato
la vicenda umana? Sarebbe paragonabile alla gnosi del mondo antico o
al marxismo del mondo moderno. Un genio religioso? Possiamo
annoverarlo con Buddha, con Mosè, con Maometto. Un filosofo? Platone
e Aristotele lo possono prendere in loro compagnia.
Un
indagatore del sociale? Potrebbe stare con gli Enciclopedisti del
XVIII secolo e con Marx. Un agitatore? Come lui e più efficaci di
lui, ci sarebbero Spartaco, Masaniello, Bakunin. Un liberatore?
Mettiamolo con Simón Bolivar e con Giuseppe Garibaldi. Un uomo di
cui non si può sapere nulla di certo? Se ne danno altri esempi:
Omero, Pitagora, lo stesso Socrate sarebbero a lui assimilabili.
Sembrerebbe
di capire che lo sforzo inconscio della «gente», pur manifestandosi
in ipotesi molto disparate e pur esprimendosi in giudizi solitamente
benigni, sia quello di ridurre
Gesù di Nazaret a qualcosa di già contemplato, di risaputo, di
“normale”: l’importante è metterlo in qualche scompartimento
previsto dalla esperienza umana;
così, quando è sistemato in un cassetto ed etichettato, non è più
un caso unico e non può turbare più.
Se
la caratteristica del parere della «gente» è la pluralità delle
opinioni, la
connotazione della risposta ecclesiale è l’unità.
Non c’è pluralismo nella Chiesa a proposito di Gesù Cristo: la
risposta di Pietro è la risposta di tutti. L’identità della
convinzione di ciascuno di noi con la fede di Pietro è la “pietra”
di paragone che giudica la legittimità dell’appartenenza
ecclesiale. Chi altera questa fede non può avere posto nella Chiesa.
La
comunità apostolica non conosce su questo punto alcuna propensione
all’irenismo. «Se qualcuno viene a voi e non porta questo
insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo»
(2 Giovanni 10). «Vi metto in guardia dalle bestie in forma d’uomo,
che non solo voi non
dovete
accogliere, ma, se è possibile, neppure incontrare. Solo dovete
pregare per loro perché si convertano, il che è difficile»
(Ignazio, Agli
Smirnesi IV, 1).
«Sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto; voi dovete guardarvi
da costoro, che sono difficilmente curabili» (Ignazio, Agli
Efesini VII, 1).
E
mentre le “opinioni” mondane su Gesù di Nazaret tendono, come si
è visto, a renderlo classificabile, la fede ecclesiale, che si
esprime per bocca di Pietro, sottolinea la sua assoluta unicità:
Gesù di Nazaret è «il Cristo, il figlio del Vivente, il figlio di
Dio». Gesù di
Nazaret è «il»: un caso a sé del tutto imparagonabile.
Come
si è potuto vedere, il nocciolo del problema cristologico sta
proprio qui: Gesù è “uno dei...” o “il”?; è catalogabile o
è un caso a sé? la sua comparsa nel mondo è un fatto importante,
ma commisurabile con i nostri metri di giudizio, o è un evento
unico, decisivo, irripetibile?
Questa è la questione. Essere “cristiani” significa avere capito
che Gesù è “il”, che non ci sono qualifiche adeguate a lui, che
è una singolarità assoluta.
Ne
viene come conseguenza esistenziale che anche il nostro rapporto con
lui non sopporta altre connotazioni che la “unicità”.
La nostra conoscenza di lui non può essere quella che vale per le
altre cose e le altre persone, ma è una luce che ci è data
dall’alto: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma
il Padre mio che sta nei cieli». Il riconoscimento della sua
signoria non è la conclusione di un teorema, ma una docilità allo
Spirito Santo: «Nessuno può dire: Gesù è Signore, se non nello
Spirito Santo» (1 Corinzi 12,3). Il nostro amore per lui non può
tollerare confronti: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è
degno di me» (Matteo10,37). Il nostro puntare la vita per lui non
può che essere totale, assoluto, definitivo, come nessuna militanza
è ragionevole che sia: «Chi avrà perduto la sua vita per causa
mia, la troverà» (Matteo 10,39).
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