«Oh
quant’è bello e quanto è soave che i fratelli abitino insieme
nella concordia!» (Sal 133,1). Nelle pagine seguenti rifletteremo su
alcune indicazioni e regole che ci vengono date dalla sacra Scrittura
per la vita comune nell’ubbidienza alla Parola.
Non
è affatto ovvio che al cristiano sia consentito vivere in mezzo ad
altri cristiani. Gesù Cristo è vissuto in mezzo a gente a lui
ostile. Alla fine fu abbandonato da tutti i discepoli. Sulla croce si
ritrovò del tutto solo, circondato da malfattori e da schernitori.
La sua venuta aveva lo scopo di portare la pace ai nemici di
Dio. Quindi anche il posto del cristiano non è l’isolamento di una
vita claustrale, ma lo stare in mezzo ai nemici. Lì si svolge il suo
compito e il suo lavoro. «Il Regno si compirà in mezzo ai tuoi
nemici. E chi non vuol sopportare questo, non vuol appartenere
al Regno di Cristo, ma preferisce restare in mezzo ad amici, fra rose
e gigli, non vuol stare vicino ai malvagi, ma alla gente pia. Oh,
bestemmiatori di Dio e traditori del Cristo! Se Cristo avesse fatto
come voi, chi mai si sarebbe salvato?» (Lutero)1.
«Io
li voglio disperdere fra i popoli, e voglio che essi, nelle remote
regioni, si ricordino di me» (Zc 10,9). Secondo la volontà di Dio i
cristiani sono un popolo disperso, disseminato in tutte le direzioni,
«per tutti i regni della terra» (Dt 28,25). È la loro maledizione
e la loro promessa. In paesi remoti,
fra gli increduli, deve vivere il popolo
di Dio, ma così esso diverrà il seme del regno di Dio in tutto il
mondo.
«Li
chiamerò a raccolta, perché li voglio riscattare», «e
ritorneranno» (Zc 10,8. 9). Quando sarà? È già avvenuto in
Gesù Cristo, morto «per raccogliere insieme i dispersi figli di
Dio» (Gv 11,52), e risulterà visibile alla fine dei tempi,
quando gli angeli di Dio raduneranno gli eletti da tutte le
direzioni, da un capo all’altro del cielo (Mt 24,31). Fino a quel
momento il popolo di Dio è destinato a restare disperso, e il suo
unico vincolo unitario è Gesù Cristo, la sua unica forma di unità,
nella disseminazione in mezzo ai non credenti, è il far memoria di
Gesù Cristo nei luoghi più remoti.
Quindi
nel tempo fra la morte di Cristo e il giudizio finale si ha solo una
specie di anticipazione per grazia delle cose ultime, se è data la
possibilità ad alcuni cristiani di vivere già qui in comunione*
visibile con altri cristiani. È grazia di Dio il costituirsi
visibile di una comunità in questo mondo intorno alla Parola di Dio
e al sacramento. Non tutti i cristiani partecipano di questa
grazia. I carcerati, gli ammalati, coloro che sono isolati e privi di
ogni legame, i predicatori del vangelo in terra pagana si trovano
soli. Sanno che è grazia una comunione visibile. Pregano con il
salmista: «Infatti io volevo procedere con la folla, andare con
loro fino alla casa di Dio fra voci di giubilo e di lodi, in mezzo a
una moltitudine in festa» (Sal 42,5). Ma ora sono soli, seme
disperso in paesi remoti, secondo la volontà di Dio. Ciò però che
è loro negato nell’esperienza sensibile, essi afferrano tanto
più appassionatamente nella fede. Così Giovanni, discepolo del
Signore, l’autore dell’Apocalisse, nell’esilio e nella
solitudine dell’isola di Patmos, celebra con le sue comunità
la liturgia celeste «in spirito, nel giorno del Signore» (Ap 1,10).
Vede i sette candelabri, cioè le sue comunità, le sette stelle,
cioè gli angeli delle comunità, e al centro, al
di sopra di tutto, il Figlio dell’uomo, Gesù Cristo, nella suprema
gloria del risorto. Dalla sua parola riceve forza e consolazione. È
la comunione celeste, a cui partecipa l’esiliato, nel giorno della
risurrezione del suo Signore.
La
vicinanza fisica di altri cristiani è fonte d’incomparabile gioia
e ristoro per il credente. L’apostolo Paolo in carcere ha grande
desiderio che venga da lui Timoteo, «suo diletto figlio nella
fede»2;
lo chiama, nei suoi
ultimi giorni di vita lo vuol rivedere e avere vicino. Le lacrime che
Timoteo aveva versato al momento dell’ultima separazione, non
sono state dimenticate da Paolo (2 Tm 1,4). Pensando alla comunità
di Tessalonica, Paolo prega «giorno e notte, con maggior
ardore, perché mi conceda di poter rivedere la vostra faccia» (1 Ts
3,10), e il vegliardo Giovanni sa che la sua gioia sarà piena solo
quando potrà recarsi di persona dai suoi e parlare a voce con loro,
anziché per mezzo di lettere e inchiostro (2 Gv 12). II desiderio di
guardare direttamente in viso altri cristiani non è per il credente
motivo di vergogna, come se fosse ancora troppo legato alla carne.
L’uomo è stato creato come corpo, nel corpo si è mostrato il
Figlio di Dio sulla terra per amor nostro, nel corpo è stato
risuscitato, nel corpo il credente riceve Cristo Signore nel
sacramento, e la risurrezione dei morti attuerà la perfetta
comunione delle creature di Dio, anime e corpi. Perciò il credente,
attraverso la presenza fisica del fratello, celebra Dio creatore,
riconciliatore e redentore, Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Il
carcerato, il malato, il cristiano nella diaspora ritrovano
nella prossimità del fratello cristiano un segno corporale,
dato dalla grazia della presenza del Dio trinitario. Chi visita e chi
riceve la visita sono, nella solitudine, reciproca testimonianza del
Cristo che è presente fisicamente, si accolgono e s’incontrano
come s’incontra il Signore, nel rispetto, nell’umiltà e nella
gioia. Accolgono la reciproca benedizione come benedizione del
Signore Gesù Cristo. Se dunque un solo incontro del fratello con il
fratello procura tanti motivi di gioia cristiana, quale inesauribile
ricchezza sarà messa a disposizione di coloro che per volontà di
Dio son ritenuti degni di vivere in comunione quotidiana di vita con
altri cristiani! Indubbiamente può capitare che il destinatario
di questa grazia quotidiana sottovaluti e calpesti ciò che a chi si
trova solo appare una grazia indicibile. Si dimentica facilmente che
la comunione dei fratelli cristiani è un dono di grazia del
Regno di Dio, un dono che ci può sempre esser tolto, e che forse tra
breve ci ritroveremo nella più profonda solitudine. Chi dunque
finora ha potuto vivere una vita cristiana comune con altri
cristiani, celebri la grazia divina dal profondo del cuore,
ringrazi Dio in ginocchio e riconosca: è solo per grazia che oggi ci
è ancora consentito vivere nella comunione di fratelli cristiani.
È
differente la misura nella quale Dio fa il dono della comunione
visibile. Al cristiano che si trova isolato basta una breve visita
del fratello cristiano, una preghiera comune e la benedizione
fraterna per consolarlo; anzi, gli basta una lettera scritta dalla
mano d’un cristiano per ricevere forza. Infatti nelle epistole di
Paolo i saluti scritti di suo pugno erano uno dei segni di questa
comunione3.
Altri ricevono in dono la comunione domenicale del culto. Altri
ancora possono vivere una vita cristiana nella comunità familiare.
Alcuni giovani teologi ricevono il dono di una vita comune con i
fratelli per un certo tempo prima dell’ordinazione. Oggi si fa
sempre più sensibile il desiderio di alcuni cristiani, che intendono
seriamente il loro essere nella comunità, di poter condurre per
qualche tempo, nei periodi di libertà dal lavoro, una vita comune
con altri cristiani, secondo la Parola. Oggi i cristiani tornano a
riconoscere nella vita comune quella grazia che essa realmente è,
una condizione straordinaria, le «rose e [i] gigli» della vita
cristiana (Lutero)4.
La
comunione cristiana è tale per mezzo di Gesù Cristo e in Gesù
Cristo. Ogni comunione cristiana non è né più né meno di questo.
Solo questo è la comunione cristiana, si tratti di un unico, breve
incontro, o di una realtà quotidiana perdurante negli anni.
Apparteniamo gli uni agli altri solo per e in Gesù Cristo.
Che
significa ciò? In primo luogo, significa che un cristiano ha bisogno
dell’altro a causa di Gesù Cristo. In secondo
luogo, che un cristiano
si avvicina all’altro solo per mezzo di Gesù Cristo. In
terzo luogo, significa che fin dall’eternità siamo stati eletti in
Gesù Cristo, da lui accolti nel tempo e resi una cosa sola per
l’eternità.
Sul
primo punto: è cristiano chi non cerca più salute, salvezza e
giustizia in se stesso, ma solo in Gesù Cristo. Il cristiano sa che
la Parola di Dio in Gesù Cristo lo accusa, anche se non ha alcun
sentore di una propria colpa, e che la Parola di Dio in Gesù
Cristo lo assolve e lo giustifica, anche se non ha alcun sentimento
di una propria giustizia. Il cristiano non vive più fondandosi
su se stesso, non vive dell’accusa o della giustificazione di cui è
egli stesso soggetto, ma dell’accusa e della giustificazione di
Dio. Vive interamente della Parola di Dio pronunciata su di lui,
della sottomissione al giudizio di Dio nella fede, sia che questo lo
dichiari colpevole sia che lo dichiari giusto. Morte e vita del
cristiano non sono circoscritte dentro di lui, ma si ritrovano
solo nella Parola che sopraggiunge dal di fuori, nella Parola che Dio
gli rivolge. In questi termini si esprimono i Riformatori: la nostra
giustizia è una «giustizia estranea», una giustizia che ci
viene dal di fuori (extra
nos)5.
Hanno inteso dire
che il cristiano può contare solo sulla Parola di Dio che gli viene
detta. Egli si orienta verso qualcosa di esterno, la Parola che gli
sopraggiunge. Il cristiano vive interamente della verità della
Parola di Dio in Gesù Cristo. Se gli si chiede: dov’è la tua
salvezza, la tua beatitudine, la tua giustizia?, non può mai
indicare se stesso, ma la Parola di Dio in Gesù Cristo, da cui gli
viene salvezza, beatitudine, giustizia. Egli cerca sempre questa
Parola, in tutti i modi. La fame e la sete continua di giustizi6
lo spingono
a desiderare continuamente la Parola redentrice. Essa può
venire solo da fuori. Preso a sé egli è povero e morto. Da fuori
deve venire l’aiuto, ed in effetti è venuto e viene ogni giorno di
nuovo nella Parola di Gesù Cristo, che ci dà la redenzione, la
giustizia, l’innocenza e la beatitudine. Ma Dio ha messo questa
Parola in bocca ad uomini, per consentire che essa venga trasmessa
fra gli uomini. Se un uomo ne viene colpito, la ridice all’altro.
Dio ha voluto che cerchiamo e troviamo la sua Parola viva nella
testimonianza del fratello, in bocca ad uomini. Per questo il
cristiano ha bisogno degli
altri cristiani che dicano a
lui la Parola di Dio, ne ha bisogno ogni volta che si trova incerto e
scoraggiato; da solo infatti non può cavarsela, senza ingannare se
stesso sulla verità. Ha bisogno del fratello
che gli porti e gli annunci
la Parola divina di salvezza. Ha bisogno del fratello solo a causa di
Gesù Cristo. Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nella
parola del fratello; il primo è incerto, il secondo è certo. Quindi
è chiaro lo scopo della comunione dei cristiani: essi si incontrano
gli uni gli altri come latori
del messaggio
di salvezza. In questo senso Dio fa in modo che si trovino insieme e
dona loro la comunione. Questa si fonda solo in Gesù’ Cristo e
nella «giustizia estranea». Potremmo dunque dire: il messaggio
della giustificazione dell’uomo per sola grazia, che ci viene
dalla Bibbia e dai Riformatori, fa nascere la comunione dei
cristiani, è il solo fondamento del desiderio
cristiano di ritrovarsi insieme.
Sul
secondo punto: un cristiano si avvicina all’altro solo per mezzo
di Gesù Cristo. Fra gli uomini c’è conflitto. «Egli è la nostra
pace» (Ef 2,14),
dice Paolo a
proposito di Gesù Cristo, in cui la vecchia umanità dilacerata ha
trovato la propria unità. Senza Cristo non c’è pace tra Dio e gli
uomini, non c’è pace tra uomo e uomo. Cristo si è posto come
mediatore e ha fatto pace con Dio e in mezzo agli uomini. Senza
Cristo, non conosceremmo Dio, non potremmo invocarlo o giungere a
lui. E senza Cristo non potremmo conoscere neppure il fratello né
accostarci a lui. È il nostro stesso io a sbarrarci la strada.
Cristo ha aperto la strada che conduce a Dio e al fratello.
Ora
i cristiani possono vivere in pace tra loro, possono amarsi e
servirsi reciprocamente, possono diventare una cosa sola. Ma sempre
e solo per mezzo di Cristo. Solo in Gesù Cristo siamo una cosa sola,
solo per suo mezzo siamo reciprocamente legati. Egli resta in eterno
l’unico mediatore.
Sul
terzo punto: il Figlio di Dio, nell’incarnarsi, per pura grazia ha
assunto il nostro essere, la nostra natura, ha assunto noi stessi
veracemente, fisicamente. Questo era l’eterno decreto del Dio
trinitario. Ora noi siamo in lui. Dove egli è, porta la nostra
carne, ciò che noi siamo. Dove è lui, lì siamo anche noi,
nell’incarnazione, sulla croce e nella risurrezione. Apparteniamo a
lui, perché in lui siamo. Per questa ragione la Scrittura ci chiama
corpo di Cristo. Se dunque prima di saperlo o di essere in grado di
volere qualcosa di simile, siamo eletti e accolti in Gesù Cristo,
noi e tutta la comunità, allora apparteniamo tutti insieme a lui in
eterno. Noi che viviamo qui nella sua comunione, un giorno saremo
presso di lui in comunione eterna. Chi guarda il suo fratello, deve
sapere che sarà unito a lui in eterno in Gesù Cristo. La comunione
cristiana è comunione per e in Gesù Cristo. Questa è la premessa
su cui si fonda ogni prescrizione o regola della Scrittura per la
vita comune dei cristiani.
«Quanto
all’amore fraterno, non c’è bisogno di scrivervi, perché voi
stessi avete imparato da Dio ad amarvi scambievolmente... Ma noi vi
esortiamo, o fratelli, ad abbondare ancora di più» (1 Ts 4,9s.).
Dio in persona si è incaricato di istruirci sull’amore fraterno;
tutto quello che gli uomini possono aggiungere in materia è il
ricordo di quell’insegnamento divino e l’esortazione ad
applicarvisi di più. Nel momento in cui Dio ha rivolto a noi la sua
misericordia, rivelandoci Gesù Cristo come fratello e conquistando
il nostro cuore con il suo amore, allora è iniziato anche
l’insegnamento all’amore fraterno. Dalla misericordia di Dio
verso di noi abbiamo potuto apprendere la misericordia nei confronti
dei nostri fratelli. Nel ricevere perdono, anziché incorrere nel
giudizio, siamo stati resi pronti al perdono dei fratelli. Ciò che
Dio ha fatto per noi, ora lo dobbiamo ai fratelli. La nostra capacità
di dare è proporzionale a quanto abbiamo ricevuto; tanto più povero
risulta il nostro amore per i fratelli, tanto meno evidentemente
siamo vissuti della misericordia e dell’amore di Dio. È Dio stesso
ad averci insegnato ad incontrarci, allo stesso modo in cui egli ci
ha incontrato in Cristo. «Accoglietevi dunque gli uni gli altri,
così come Cristo ha accolto voi, per la gloria d’Iddio» (Rm
15,7).
È
da questa fonte che colui che Dio ha messo nella situazione di vita
comune con altri cristiani può apprendere che cosa significhi avere
fratelli. «Fratelli nel Signore» è l’appellativo che Paolo
rivolge alla sua comunità (Fil 1,14). Solo per mezzo di Gesù Cristo
si è fratelli. Sono fratello dell’altro solo per ciò che Gesù
Cristo ha fatto per me e in me; l’altro mi è divenuto fratello per
ciò che Gesù Cristo ha fatto per lui e in lui. Solo per mezzo di
Cristo siamo fratelli: questo è un fatto di incommensurabile
importanza. Il fratello con cui ho a che fare nella comunità non è
l’altro che mi si fa incontro nella sua serietà, nella ricerca di
fraternità, nella devozione, ma è l’altro che è stato redento da
Cristo, che è stato liberato dal peccato e chiamato alla fede e alla
vita eterna. La nostra comunione non può motivarsi in base a ciò
che un cristiano è in se stesso, alla sua interiorità e
devozione; viceversa, per la nostra fraternità è determinante ciò
che si è a partire da Cristo. La nostra comunione consiste solo in
ciò che Cristo ha compiuto in ambedue, in me e nell’altro, e
questo non vale solo per l’inizio, come se poi, nel corso del
tempo, si aggiungesse ancora qualcosa a questa nostra comunione, ma
resta per sempre, nel futuro e nell’eternità. Solo per mezzo di
Cristo c’è e ci sarà comunione tra me e l’altro. Via via che la
comunione si fa più autentica e più profonda, scompare tutto ciò
che si frappone ad essa, e risulta con sempre maggior chiarezza e
purezza l’unica cosa che la rende viva tra di noi: Gesù Cristo e
la sua opera. Solo per mezzo di Cristo apparteniamo gli uni agli
altri, ma grazie a questo mediatore l’appartenenza
è effettiva,
integrale, per tutta l’eternità.
Vien
così eliminata a
priori ogni
confusa aspirazione a un di più. Chi vuol aver più di quanto Cristo
ha stabilito fra di noi, non vuole fraternità cristiana, ma cerca
qualche sensazionale esperienza di comunione, altrimenti
negatagli, immette nella fraternità cristiana desideri confusi
e impuri. È questo il punto in cui la fraternità cristiana, il più
delle volte già nell’atto del suo costituirsi, corre in massimo
grado il pericolo del più sottile inquinamento, nello scambio della
fraternità cristiana con un ideale di comunità di devoti; nella
mescolanza del naturale desiderio di comunione che nasce dal
cuore devoto con la realtà spirituale della fraternità
cristiana. Perché si abbia la fraternità cristiana, tutto dipende
da una sola cosa, che deve esser chiara fin da principio: primo,
la fraternità cristiana non è un ideale, ma una realtà divina;
secondo, la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non
della psiche7.
In
moltissimi casi un’intera comunità cristiana si è dissolta, in
quanto si fondava su un ideale. E spesso è proprio il cristiano
rigoroso, che entra per la prima volta in una comunione di vita
cristiana, a portarsi dietro un’idea ben precisa del vivere insieme
tra cristiani, e a cercare di realizzarla. Ed è poi la grazia di Dio
che fa rapidamente svanire simili sogni. Dobbiamo cadere in
preda a una grande delusione circa gli altri, i cristiani in
genere e, se va bene, anche circa noi stessi, e a questo punto Dio ci
farà conoscere la forma autentica della comunione cristiana. È la
pura grazia Dio a non permettere che viviamo nell’ideale, nemmeno
per poche settimane, che ci abbandoniamo a quelle gratificanti
esperienze e a quella felice esaltazione che ci sopraggiungono
come un’ebbrezza. Dio infatti non è un Dio delle emozioni
dell’animo, ma un Dio della verità. La comunità comincia ad
essere ciò che dev’essere davanti a Dio solo quando incorre nella
grande delusione, con tutti gli aspetti spiacevoli e negativi
che vi sono connessi; solo a quel punto comincia a comprendere nella
fede la promessa che le è stata data. È un vantaggio per tutti che
questa ora della delusione circa gli individui e la comunità
sopraggiunga quanto prima. Ma una comunione incapace di
sopportare e di sopravvivere a tale delusione, per il fatto di
dipendere dall’ideale, con la perdita di questo perde anche la
promessa di una stabile esistenza che è data alla comunione
cristiana, e quindi prima o poi per forza va in rovina. Qualsiasi
ideale umano, immesso nella comunione cristiana, ne impedisce
l’autentica realizzazione, e deve esser distrutto perché possa
vivere la comunione vera. Chi ama il proprio sogno di comunione
cristiana più della comunione cristiana effettiva, è destinato ad
essere un elemento distruttore di ogni comunione cristiana,
anche se è personalmente sincero, serio e pieno di abnegazione.
Dio
odia l’abbandono alla fantasticheria, che rende orgogliosi e
pretenziosi. Chi si costruisce un’immagine ideale di comunione,
pretende la realizzazione di questa da Dio, dagli altri e da se
stesso. Nella comunità cristiana avanza esigenze sue, istituisce una
propria legge e giudica in base ad essa i fratelli e perfino Dio. Si
impone con durezza, quasi un rimprovero vivente nel gruppo dei
fratelli. Fa come se spettasse a lui solo creare la comunione
cristiana, come se fosse il suo ideale a legare insieme gli uomini.
Ciò che non va secondo il suo volere, è preso da lui come un
fallimento. Quando il suo ideale fallisce, pensa che si tratti della
rovina della comunità. E così diventa prima accusatore dei
fratelli, poi accusatore di Dio e infine si riduce a disperato
accusatore di se stesso. È Dio ad aver già posto l’unico
fondamento della nostra comunione, è Dio ad averci unito con altri
cristiani in un solo corpo, in Gesù Cristo, ben prima che
iniziassimo una vita comune con alcuni di loro: per questo la nostra
funzione nel vivere insieme ad altri cristiani non è quella di
avanzare esigenze, ma di ringraziare e di ricevere. Ringraziamo Dio
per ciò che egli ha operato in noi. Ringraziamo Dio perché ci dà
dei fratelli che vivono della sua vocazione, della sua remissione,
della sua promessa. Non reclamiamo per ciò che da Dio non ci
vien dato, ma lo ringraziamo per ciò che ci dà quotidianamente.
Forse non è abbastanza quanto ci viene dato: quei fratelli che
con noi vanno avanti e vivono nel peccato e nella miseria, e ai quali
è data tuttavia la benedizione della grazia? Forse il dono di Dio
ogni giorno, anche nel più difficile e tribolato di una fraternità
cristiana, risulta inferiore a questa realtà incomprensibile? Anche
dove la vita comune è appesantita dal peccato e dall’equivoco,
il fratello che pecca noti è pur sempre il fratello, insieme al
quale accolgo la parola di Cristo? Il suo peccato non è sempre nuova
occasione di gratitudine, per il fatto che entrambi possiamo vivere
della remissione che viene dall’amore di Dio in Gesù Cristo?
Non è forse in tal modo che proprio il momento della grande
delusione nei confronti del fratello diventa per me un impareggiabile
momento di salvezza, che mi fa capire fino in fondo che sia lui che
io non possiamo vivere in nessun modo delle nostre parole e azioni,
ma solo dell’unica parola e azione che ci unisce nella verità,
cioè la remissione dei peccati in Gesù Cristo? Nel dissolversi
delle nebbie mattutine del sogno, irrompe il giorno chiaro della
comunione cristiana.
Per
il ringraziamento nella comunità cristiana valgono le stesse
considerazioni che per altre situazioni di vita cristiana. Solo chi
ringrazia per il poco, riceve anche grandi doni. Impediamo a Dio
di farci i grandi doni spirituali che ci ha preparato, perché non
siamo grati dei doni di ogni giorno. Pensiamo di non poterci
contentare di quel po’ di conoscenza, di esperienza e di amore in
campo spirituale che ci è dato, e di dover solo aspirare
continuamente ai grandi doni8.
Lamentiamo la mancanza di certezza ferma, di fede forte, di ricca
esperienza, presumendo che Dio ne abbia fatto dono ad altri
cristiani, e pensiamo che queste lamentele siano un sintomo di
devozione. Preghiamo per grandi cose e ci dimentichiamo di
ringraziare per i piccoli (ma in effetti non piccoli!) doni
quotidiani. Ma come può Dio affidarci cose grandi, se non vogliamo
prendere dalle sue mani il poco con gratitudine? Se non ringraziamo
quotidianamente per la comunione cristiana, in cui ci troviamo, anche
nel caso che non si tratti di una grande esperienza, di una ricchezza
visibile ma piuttosto di un aggregato di debolezze, di poca fede, di
difficoltà; se anzi ci lamentiamo con Dio di tutta questa miseria e
meschinità, niente affatto rispondente a quanto ci aspettavamo,
impediamo a Dio di far crescere la nostra comunione fino a
raggiungere quella misura e ricchezza già predisposta per noi tutti
in Gesù Cristo. Ciò vale in modo particolare anche per le lamentele
che spesso si sentono da parte di pastori o di fedeli zelanti
nei confronti delle loro comunità. Un pastore non deve lamentarsi
della sua comunità, tanto meno davanti agli uomini, ma neppure
davanti a Dio; essa non gli è affidata perché se ne faccia
accusatore davanti a Dio e agli uomini. Chi perde la fiducia nella
comunità cristiana in cui si trova, e si lamenta di essa, prima di
tutto esamini se stesso, e si chieda se Dio non voglia semplicemente
distruggere il suo ideale; se è così, ringrazi Dio di averlo posto
in questa situazione di disagio. Se invece le cose stanno
diversamente, si guardi comunque dal farsi accusatore della comunità
di Dio; accusi piuttosto se stesso per la propria incredulità,
chieda a Dio di fargli conoscere la propria mancanza e il proprio
peccato specifico, preghi di non rendersi colpevole nei confronti dei
fratelli, nella conoscenza della propria colpa interceda per i
fratelli, faccia ciò che gli è stato assegnato e ringrazi Dio.
Alla
comunione cristiana vanno applicate le medesime considerazioni
che alla santificazione dei cristiani. È un dono di Dio, su cui non
possiamo avanzare pretese. Solo Dio sa come stiano le cose, sia per
quanto riguarda la nostra comunione, che per la nostra
santificazione. Ciò che a noi sembra debole e meschino, può
essere grande e splendido al cospetto di Dio. Come per il singolo
cristiano non è il caso di controllare continuamente il polso della
propria vita spirituale, così è per la comunione cristiana,
che non ci è data da Dio in dono perché continuiamo a misurarne la
temperatura. In proporzione alla gratitudine per ciò che
riceviamo quotidianamente, si avrà la crescita certa e costante
della comunione, sul piano quantitativo e qualitativo, secondo la
volontà di Dio.
La
fraternità cristiana non è un ideale che noi dobbiamo realizzare,
ma una realtà creata da Dio in Cristo, a cui ci è dato di poter
partecipare. Quanto più chiara diventa la nostra consapevolezza che
il fondamento, la forza e la promessa di tutta la nostra comunione
consistono solo in Gesù Cristo, tanto più si rasserena il nostro
modo di considerare la comunione, di pregare e di sperare per essa.
Dal
momento che la comunione cristiana è fondata solo in Gesù Cristo,
si tratta di una realtà pneumatica e non della psiche. Questo è
l’elemento che la distingue nettamente da tutte le altre forme di
comunione. La sacra Scrittura definisce pneumatico, cioè
«spirituale», ciò che è creato solo dallo Spirito santo, il quale
fa entrare nel nostro cuore Gesù Cristo Signore e Salvatore. Nella
Scrittura si chiama invece psichico, cioè «proprio dell’anima
umana», tutto ciò che viene dai naturali impulsi, dalle risorse e
disposizioni dell’anima umana.
II
fondamento di ogni realtà pneumatica è la Parola di Dio, chiara e
manifesta in Gesù Cristo. Il fondamento di ogni realtà psichica è
l’oscurità impenetrabile degli impulsi e dei desideri dell’anima
umana. II fondamento della comunione spirituale è la verità,
il fondamento della comunione psichica è la brama. L’essenza
della comunione spirituale è la luce «infatti Dio è
luce e tenebra alcuna non è in lui» (1 Gv 1,5), per cui «se
camminiamo nella luce, come egli stesso è nella luce, noi siamo in
comunione scambievole» (ibid. 1,7). L’essenza della comunione
psichica è oscurità «infatti dal di dentro, dal cuore
dell’uomo, escono i cattivi pensieri» (Mc 7,21)9.
È a notte profonda che
si stende sulle origini di qualsiasi azione umana, anche e
soprattutto sugli impulsi nobili e religiosi. La comunione spirituale
è costituita da chi è stato chiamato da Cristo, la comunione
psichica dalle anime devote. Nella comunione spirituale vive il
limpido amore del servizio fraterno, l’agape; nella comunione
psichica arde il torbido amore dell’impulso pio, ma in realtà
empio, l’eros; nella prima si ha un servizio fraterno ordinato,
nella seconda un disordinato desiderio di godere di questa comunione;
nella prima l’umile sottomissione al fratello, nella seconda la
superba sottomissione del fratello ai propri desideri, pur
nell’apparenza dell’umiltà10.
Nella comunione spirituale è solo la Parola di Dio che governa,
nella comunione psichica essa è affiancata dall’uomo dotato di
particolari risorse, ricco di esperienze, capace di esercitare una
suggestione quasi magica. Nella prima l’unico elemento vincolante è
la Parola di Dio, nella seconda ci sono anche degli uomini che legano
a sé gli altri. Nella prima si rimette allo Spirito santo ogni
potere, onore e dominio, nella seconda si cerca e si alimenta una
sfera personale di potere e di influenza: certamente, finché si
tratta di persone devote, l’intento è quello di servire la causa
dell’Altissimo e del massimo bene, ma in effetti non si fa che
togliere allo Spirito santo il suo ruolo centrale e renderlo
inefficace, tenendolo a distanza. Qui in effetti si sente solo
l’efficacia dell’elemento psichico. Se nel primo caso domina lo
Spirito, qui invece si ha la psicotecnica, il metodo; nel primo,
l’amore senza artificio, pre psicologico, pre metodico,
mosso solo dall’intento di essere disponibili al fratello; nel
secondo, l’analisi e la costruzione psicologica; nel primo il
servizio umile, semplice al fratello, nel secondo la manipolazione
dell’estraneo, con intento indagatore e calcolatore.
Ma
l’opposizione fra realtà spirituale e realtà psichica raggiunge
la massima chiarezza in base alla seguente osservazione: nella
comunione spirituale non c’è mai e in nessun modo un rapporto
«immediato» dell’uno all’altro, mentre nella comunione
psichica si alimenta un profondo, primitivo desiderio psichico
di comunione, di incontro diretto con altre anime umane, analogo al
desiderio della carne di unione immediata con un’altra carne.
Questa brama dell’anima umana cerca la completa fusione di io
e tu, sia nel senso dell’unione dell’amore, sia nel senso,
in ultima analisi identico, dell’assoggettamento dell’altro
alla propria sfera di potere e di influenza. Qui trova modo di
imporsi chi è psichicamente forte, egli si procura l’ammirazione,
l’amore o la venerazione di chi è debole. Qui i legami umani, le
suggestioni, la dipendenza sono tutto; e in questa comunione
immediata delle anime risulta completamente deformato il carattere
specifico e originario della comunione mediata da Cristo.
C’è
un tipo di conversione «psichica». Essa si presenta con tutte le
apparenze di un’autentica conversione, allorché un individuo o
un’intera comunità sono profondamente scossi e condizionati
dall’abuso inconsapevole o deliberato che un uomo dotato di
superiore autorevolezza può fare delle proprie doti. Questo è un
caso di azione immediata di un’anima su altre anime. Il più debole
è stato sopraffatto dal più forte, la resistenza del più
debole è crollata sotto l’impressione della personalità
dell’altro. È stato violentato, non è stato vinto dalla forza
della causa. Il che risulta non appena sia richiesto un impegno
per questa stessa causa, indipendentemente dalla persona cui si è
legati, o addirittura in contrasto con essa. In questo caso, colui
che si è convertito in modo psichico va incontro al fallimento;
risulta così evidente che non si trattava di una conversione per
opera dello Spirito santo, ma di un uomo, e quindi di una conversione
inconsistente.
Così
pure esiste un amore del prossimo su basi «psichiche». È un amore
capace dei massimi sacrifici, spesso supera di molto il vero amore in
Cristo dal punto di vista dell’entusiasmo nella dedizione e
dell’evidenza dei risultati, è un amore che parla il linguaggio
cristiano con eloquenza trascinante, entusiasmante. Ma è
quell’amore di cui l’Apostolo dice: «Distribuissi a bocconi i
miei ‘beni ai poveri e il mio corpo dessi a bruciare»11
cioè: se mettessi insieme i più straordinari atti di amore e
la più straordinaria dedizione «se l’amore non ho (cioè
l’amore in Cristo), niente mi giova» (1 Cor 13,2)12.
L’amore psichico ama l’altro per amor di se stesso, l’amore
spirituale ama l’altro per amore di Cristo. Per questo l’amore
psichico cerca il contatto immediato con l’altro, non lo ama nella
sua libertà, ma lo lega a sé, vuol conquistarlo, sopraffarlo con
ogni mezzo, lo opprime, vuol essere irresistibile, vuol dominare.
L’amore psichico non tiene gran conto della verità, è disposto a
relativizzarla, perché il rapporto con la persona amata non deve
essere ostacolato da niente, neppure dalla verità. L’amore
psichico ha brama dell’altro, della comunione con lui, del
contraccambio del suo amore, ma non è al suo servizio. Anzi è
ancora la sua brama a manifestarsi nelle apparenze del servizio. Due
punti, riducibili peraltro ad uno solo, mettono in luce la differenza
fra l’amore psichico e quello spirituale: il primo non è in grado
di resistere al disciogliersi di una comunione ormai inautentica, per
amore della comunione in senso vero; né è in grado di amare il
nemico, cioè colui che gli resiste sul serio e tenacemente. Il
motivo è lo stesso: l’amore psichico è per sua essenza brama, e
precisamente brama di comunione psichica. Finché riesce in qualche
modo ad appagarla, non vi rinuncia, neppure in nome della verità o
del vero amore per l’altro. E se non può più aspettarsi
appagamento di questa brama, allora è la rovina, e l’altro
diventa un nemico. Qui l’amore si converte in odio, in disprezzo e
in calunnia.
Ma
questo è proprio il punto in cui inizia l’amore spirituale. Per
questo l’amore psichico si trasforma in odio personale, quando gli
si fa incontro l’autentico amore spirituale, caratterizzato non
dalla brama, ma dal servizio. L’amore psichico ha come fine solo se
stesso, fa di se stesso opera e idolo da adorare, a cui subordina
inevitabilmente qualsiasi cosa. Non si cura d’altro, non
coltiva e non ama niente altro che se stesso al mondo. Mentre l’amore
spirituale viene da Gesù Cristo, lui solo serve, e sa di non aver
alcun accesso immediato all’altro uomo. Cristo è tra me e
l’altro. Che cosa significhi amore nei confronti dell’altro, non
è cosa che io sappia a priori in base al concetto universale di
amore nato a partire dalla mia brama di origine psichica anzi,
davanti a Cristo tutto questo può rivelarsi piuttosto come odio e
assoluto egoismo mentre solo Cristo nella sua Parola mi dirà
che cosa sia l’amore. Sarà Gesù Cristo a dirmi, contro tutte le
mie opinioni e convinzioni, come si manifesti il vero amore per il
fratello. Perciò l’amore spirituale è legato solo alla Parola
di Gesù Cristo. Quando Cristo mi dirà di mantenere la comunione
in nome dell’amore, io la manterrò, e quando la verità di Cristo
mi comanderà di scioglierla, in nome dell’amore, io la scioglierò,
nonostante le proteste dell’amore psichico che è in me. L’amore
spirituale non è brama, ma servizio, perciò ama il nemico come
il fratello. Non trae origine né dal fratello, né dal nemico,
ma da Cristo e dalla sua Parola. L’amore psichico non è mai in
grado di comprendere l’amore spirituale; infatti l’amore
spirituale è dall’alto, è una grandezza estranea, nuova,
incomprensibile per ogni amore terreno.
Tra
me e l’altro c’è Cristo, perciò non posso aspirare ad una
comunione immediata con l’altro. Solo Cristo ha potuto
parlarmi in modo da venirmi in aiuto; per la stessa ragione anche
l’altro può ricevere soccorso solo da Cristo. Il che significa
risparmiare all’altro tutti i miei tentativi di condizionarlo, di
costringerlo, di dominarlo con il mio amore. Senza dipendere da me,
l’altro vuol essere amato per come è, vale a dire come uno a
vantaggio del quale Cristo si è fatto uomo, è morto ed è risorto,
ha conseguito la remissione dei peccati e ha preparato una vita
eterna. Cristo è intervenuto in modo decisivo nei confronti del mio
fratello, ben prima che io potessi iniziare ad agire, per cui
non posso che ritirarmi, lasciando il fratello a disposizione di
Cristo, e incontrandolo solo per quello che è già in Cristo. È
questo il senso del dire che l’altro si può incontrare solo nella
mediazione di Cristo. L’amore psichico si fa una propria immagine
dell’altro, di ciò che è e di ciò che dovrà essere. Prende la
vita dell’altro nelle proprie mani. L’amore spirituale trae da
Gesù Cristo la vera immagine dell’altro, cioè l’immagine su cui
Gesù Cristo ha lasciato e vuole lasciare la propria impronta.
Perciò
l’amore spirituale si dimostra nel fatto di affidare a Cristo
l’altro, qualunque cosa dica o faccia. Non cercherà di suscitare
emozioni psichiche nell’altro, intervenendo in modo troppo
personale e immediato, ingerendosi scorrettamente nella vita
dell’altro, non si compiacerà di un eccessivo entusiasmo
devozionale di natura psichica, ma porterà all’altro
nell’incontro la limpida Parola di Dio, e sarà pronto a lasciarlo
a lungo solo con questa Parola, sarà pronto a congedarsi da
lui, in modo da consentire l’intervento di Cristo in lui. Ci sarà
rispetto del limite, che Cristo ha posto fra noi e’l’altro, e la
piena comunione sarà trovata in Cristo, l’unico legame che si
stabilisce fra noi e ci unifica. Per cui sarà preferibile parlare
con Cristo del fratello che non parlare col fratello di Cristo.
L’amore è consapevole che la via più breve verso l’altro passa
attraverso la preghiera a Cristo, e che l’amore per l’altro
dipende interamente dalla verità in Cristo. È nella prospettiva di
questo amore che Giovanni dice: «Non ho gioia più grande che sapere
come i miei figli camminino nella verità» (3 Gv 4).
L’amore
psichico vive di un’oscura brama incontrollata e incontrollabile,
l’amore, spirituale vive nella chiarezza del servizio ordinato
secondo la verità.
L’amore psichico
determina asservimento umano, vincoli di dipendenza, indurimento;
l’amore spirituale genera la libertà
dei fratelli nella
sottomissione alla Parola. L’amore psichico coltiva artificiosi
fiori di serra, l’amore spirituale produce i frutti,
che crescono perfettamente sani secondo la volontà di Dio a cielo
aperto, esposti alla pioggia, alla tempesta e al sole.
È
una questione vitale per ogni convivenza cristiana il riuscire a
esercitare al momento opportuno la capacità di distinguere fra
ideale umano e realtà di Dio, fra comunione spirituale e psichica.
Risulta decisivo per la vita e la morte di una comunione cristiana il
saper raggiungere quanto prima la chiarezza su questo punto. In altri
termini, una vita comune ordinata secondo la Parola rimarrà
sana solo se non si presenterà come movimento, come ordine
religioso, come associazione, come collegium
pietatis13,
ma comprenderà di essere un frammento dell’una, santa, universale
chiesa cristiana14,
che partecipa, nell’azione e nella sofferenza, alla miseria,
alla lotta e alla promessa di tutta la chiesa. Ogni principio
selettivo e ogni conseguente separazione che non siano
determinati da necessità obiettive di lavoro in comune, di
situazioni locali o di rapporti familiari, sono quanto mai pericolosi
per una comunità cristiana. L’idea e la pratica della
discriminazione intellettuale o spirituale fa riaffiorare di
nascosto la componente psichica, e priva la comunione della sua
forza ed efficacia spirituale nella comunità, anzi la porta al
settarismo: l’esclusione del debole, dell’insignificante,
dell’apparentemente inutile, da una comunione di vita cristiana può
addirittura equivalere all’esclusione di Cristo, che bussa
alla porta nelle vesti del fratello povero. Perciò qui dobbiamo
stare molto in guardia.
In
base a considerazioni non rigorose, si potrebbe pensare che il
massimo pericolo di confondere ideale e realtà, l’elemento
psichico e quello spirituale, si presenti in una comunione di
struttura complessa e articolata, come nel caso del matrimonio,
della famiglia, dell’amicizia, dove l’elemento psichico di per sé
già assume un significato centrale per il costituirsi stesso
della comunione, e l’elemento spirituale non è altro che
un’integrazione di quello legato alla fisicità e alla psiche.
Secondo questo ragionamento, si avrebbe solo in queste forme di
comunione un effettivo pericolo di confusione o di mescolanza
delle due sfere, mentre risulterebbe assai difficile che vi si
incorra in una comunione di tipo puramente spirituale. Ma questi
pensieri si basano su un grosso errore. Sia l’esperienza che la
logica interna della cosa, come si può vedere facilmente, dicono
esattamente il contrario. Un’unione matrimoniale, una
famiglia, un’amicizia hanno una conoscenza molto precisa dei limiti
delle proprie energie capaci di creare comunione; se sono sane, sanno
molto bene dov’è posto il limite del fattore psichico e dove
inizia quello spirituale. Conoscono l’opposizione esistente fra una
comunione di tipo fisicopsichico e un’altra di tipo
spirituale. E viceversa proprio una comunione di tipo puramente
spirituale è sempre fatalmente esposta al pericolo di trovarsi
inquinata e mescolata con l’elemento psichico. Una comunione di
vita puramente spirituale è non solo pericolosa, ma senz’altro
anche un fenomeno anormale. Bisogna essere particolarmente
vigili e rigorosi, quando la comunione spirituale non coinvolge
la convivenza fisico familiare, o un impegnativo lavoro comune,
quando cioè non coinvolge la vita quotidiana, con tutte le
sollecitazioni cui è esposto l’uomo nel lavoro. Si sa per
esperienza infatti che proprio i brevi periodi di ritiro spirituale
sono quelli in cui più facilmente si dà sfogo alla componente
psichica. Niente di più facile che suscitare l’ebbrezza della
comunione per pochi giorni di vita comune, e niente di più deleterio
per una non patologica, non esaltata, fraterna comunione di vita
nella quotidianità.
Certamente
non c’è cristiano cui Dio non abbia donato almeno una volta nella
vita l’esperienza
felice di
un’autentica comunione cristiana. Ma tale esperienza in questo
mondo non è altro che un di più della grazia, che integra il pane
quotidiano della vita comunionale cristiana. Non possiamo
assolutamente pretendere tali esperienze, non viviamo insieme ad
altri cristiani a questo scopo. Non è l’esperienza della
fraternità cristiana, ma la fede solida e sicura nella fraternità
a tenerci insieme. Dio ha agito in noi tutti e continua a farlo;
nella fede, comprendiamo che questo è il dono principale che Dio ci
mette a disposizione, che ci allieta e ci rende felici, ma che ci
rende anche capaci di rinunciare a tutte le esperienze, nei momenti
in cui Dio non ha intenzione di concederle. Il vincolo che ci unisce
è fondato sulla fede, non sull’esperienza.
«Oh
quant’è bello e quanto è soave che i fratelli abitino insieme
nella concordia!» (Sal 133,1): così la sacra Scrittura esalta la
vita comune secondo la Parola. Ma se si interpreta correttamente il
termine «nella concordia», possiamo dire: «che i fratelli
abitino insieme in Cristo», poiché solo Gesù Cristo è ciò che ci
rende concordi. «Egli è la nostra pace». Solo per suo mezzo
possiamo accostarci gli uni agli altri, procurarci reciproca gioia,
avere comunione gli uni con gli altri.
Tratto
da “ Vita
comune “ di Dietrich
Bonhoeffer
1
La citazione sintetizza un passo più lungo di Lutero, Auslegung
des 109. (110.) Psalms,
1518 (Weimarer
Ausgabe der Werke Martin Luthers 1,
696 s.). In questa forma Bonhoeffer l’ha ripresa da K. Witte,
Nun freut euch lieben Christen gmein,
226.
*
[I termini ‘Gemeinde’
e ‘Gemeinschaft’
sono stati resi,
in prevalenza, rispettivamente con ‘comunità’ e ‘comunione’.
Il contesto ha tuttavia consigliato di rendere, in alcuni casi,
anche ‘Gemeinschaft’
con ‘comunità’.
Oltre alla diversa estensione che tali concetti hanno in tedesco e
in italiano, si tenga presente che Bonhoeffer non dedica, in
generale, grande attenzione agli aspetti tecnici e formali
ivi compresi quelli terminologici, se non messi esplicitamente a
tema dei suoi scritti. Questo vale anche per Vita
comune, stesa di
getto in quattro settimane].
2
1 Tm 1,2.
Die Biebel nach der Übersetzung Martin Luthers traduce:
«mio vero figlio nella fede».
3
Cfr. 1 Cor 16,21; Gal
6,11; 2 Ts 3,17.
4
Cfr. nota 1 (Weimarer
Ausgabe der Werke Martin Luthers 1,
697).
5
«Fuori di noi» («außerhalb
von uns»). Su
questo importante topos
della concezione
della giustificazione in Lutero cfr. per es. M. Luther,
Disputatio de
homine, 1536
(Weimarer Ausgabe
der Werke Martin Luthers 39/I,
83).
6
Cfr. Mt 5,6.
7
La coppia di opposti «pneumatico psichico»
corrisponde alla contrapposizione paolina di
pneuma (Spirito) e
sarx (carne).
Si tratta di un agire in base alla grazia e allo Spirito di Dio, in
contrapposizione ad un agire e ad un comprendere umani, secondo lo
spirito di un mondo in antitesi a Dio e all’ordinamento da Dio
stabilito. In altra forma, già molto prima Karl Barth si era
riferito a questa figura fondamentale della dottrina della
giustificazione in Paolo e nella Riforma, nell’elevare la sua
protesta contro la ‘religione’ in nome della ‘rivelazione’.
Anche Bonhoeffer ha mantenuto questa posizione, sia pure con alcune
importanti modifiche (cfr. D. Bonhoeffer,
Widerstand und
Ergebung 359)
[Resistenza e resa
401]. Il
suo prender posizione contro la «psyche sarx» non implica
animosità nei confronti della psicologia o della psicoterapia,
finché queste si riconoscono per scienze basate sull’osservazione
empirica. Nella propria biblioteca Bonhoeffer conservava, fra
l’altro, C. G. Jung,
Seelenprobleme
der Gegenwart,
1931 [trad.
it., Il problema
fondamentale della psicologia contemporanea,
in Opere,
vol. 8, Boringhieri, Torino 1976],
e Id.,
Die Beziehungen
der Psychotherapie zur Seelsorge,
1932 [trad.
it., I rapporti
della psicoterapia con la cura pastorale,
in Opere,
vol. 11, Boringhieri, Torino 1979].
8
Cfr. Ger 45,5 («E tu pretendi grandi cose per te...»). Questo
passo era molto importante per Bonhoeffer. Nella sua Bibbia esso è
energicamente sottolineato, a differenza dal contesto in cui si
trova. Cfr. anche D. Bonhoeffer,
Widerstand und
Ergebung 401s.
[Resistenza e resa
367].
9
Cfr. LE: «degli uomini ...». Il plurale corrisponde al testo
greco.
10
Sulla coppia di concetti ‘Eros
e Agape’ cfr.
Dietrich Bonhoeffer Werke 1
(Sanctorum
Communio), 108 e
265, nota 115. In Sanctorum
Communio Bonhoeffer
seguiva K. Barth,
Der Römerbrief,
479 [trad. it.,
L’Epistola ai
Romani,
Feltrinelli, Milano 1962, 476], che intendeva l’amore cristiano,
richiamandosi a Kierkegaard, in questi termini: «Esso non è
Eros che desidera
sempre, è Agape
che non cesserà
mai». Anche qui si dà importanza agli opposti pneuma sarx.
Però, in rapporto
a Vita comune, va
preso in considerazione anche il libro di A. Nygren,
Eros und Agape, il
cui primo volume era
uscito nel 1930, e il secondo nel 1937 [trad. it., Eros
e agape, Il
Mulino, Bologna 1970].
Cfr. anche D. Bonhoeffer,
Widerstand und
Ergebung 359
[Resistenza
e resa 401].
11
1 Cor 13,3.
12
Nel settembre ottobre 1934, a Londra, Bonhoeffer aveva tenuto
quattro sermoni su 1 Cor 13 (Gesamelte
Schriften V
534 560) [Scritti,
409 428].
13
«Circoli devozionali» («Vereinigung der Frömmigkeit»). Si
definirono «collegia pietatis» quei circoli privati è scopo di
edificazione, che presero avvio dal teologo Philipp Jacob Spener
(1635 1705),
importante esponente del pietismo luterano, responsabile
ecclesiastico a Francoforte sul Meno dal 1666.
14
I
quattro attributi
classici della chiesa (una,
sancta, catholica et apostolica)
furono inclusi dal concilio di Costantinopoli (381)
nel simbolo
niceno costantinopolitano. Le traduzioni tedesche delle
professioni di fede della chiesa antica di solito traducono
‘cattolica’ (alla lettera, ‘universale’; in sostanza, «che
è nella retta fede», ‘ortodossa’) con ‘cristiana’ (cfr.
per es. BSLK 21).
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