MARTA ROBIN
La gioia nella
croce
RAYMOND
PEYRET - © EDITRICE
ANCORA MI
DICHIARAZIONE - Conformemente al decreto di Papa
Urbano VIII, l'autore dichiara che tutto ciò che è scritto in
questa biografia, essendo fondato con certezza solo su testimonianze
umane, fa le dovute riserve sulle manifestazioni soprannaturali,
finché la Chiesa non s'è pronunciata. Dichiara inoltre che usando a
volte qualificativi tipo «santa» e parlando di fatti d'ordine
soprannaturale e preternaturale, egli adotta semplicemente un
linguaggio ricevuto, senza voler pregiudicare in niente le decisioni
della Chiesa alle quali si sottomette senza riserve.
Imprimatur
R. GLAS, vicario generale
Valence, 11 ottobre
1981
I documenti in questo libro, sono riprodotti grazie
alla gentile autorizzazione di padre Finet e delle famiglie
Serve - Brosse - Gaillard.
PRESENTAZIONE
La traduzione italiana della biografia di Marta Robin, scritta da Raymond Peyret, vuol essere un modesto contributo per diffondere la conoscenza di uno dei più significativi movimenti religiosi del nostro tempo: i Focolari di Carità.
Sorti in Francia
negli anni trenta, essi sono ormai diffusi in più di 30 nazioni
ed esprimono, con la loro presenza discreta ed efficace, il dinamismo
dello Spirito, la cui inventiva si pone come fermento nella
realtà umana di ogni nuova generazione.
Ma qual è la loro
origine? Chi mai ha avuto l'idea di orientare il laicato cattolico
verso una forma di vita comunitaria «nuova» e particolarmente
adatta alla diffusione del Regno in un mondo ateo e senza speranza?
Dio, che si serve
dei deboli per confondere i forti, ha scelto Marta Robin,
l'umile popolana di Chàteauneuf-de-Galaure, perché fosse la
pietra angolare posta a fondamento della grande costruzione.
L'azione misteriosa
della grazia e la risposta fedele di questa eroina della
sofferenza hanno fatto di lei un miracolo vivente, polo di attrazione
per chiunque si accosti al soprannaturale in semplicità di cuore,
richiamo pressante alla scoperta della misericordia di Dio, la
cui «bellezza antica e sempre nuova» vive e si manifesta nei santi.
L'esistenza di Marta
Robin si snoda in un crescendo di amore per Cristo, fino ad
assimilarne le atroci sofferenze della Passione.
Ridotta
all'immobilità, ella rivive ogni settimana il mistero del Calvario
e, per oltre cinquant'anni, soffre e prega per la salvezza del
mondo. La sua è una sfida contro la disperazione di chi non sa più
dare un senso alla vita e, come sfida, dimostra che tutto ha un senso
nella realtà dello Spirito; infatti, le preghiere e le lacrime degli
uni, assunte come un prolungamento della Passione di Cristo, possono
giovare alla conversione e alla felicità degli altri.
La conquista
dell'amore vero, quello che rende gli uomini partecipi della gioia di
Dio, non conosce altra via se non la via della croce: «Nella croce e
nella gioia...» (p. 94 ed. franc.).
p. V. LETTRY
PREMESSA
Non sono un membro del
Focolare di Carità di Chàteauneuf-de-Galaure e, pur abitando a soli
40 chilometri dal paese, non ho mai incontrato Marta Robin. Eppure,
fin dall'infanzia, ne ho sentito molto parlare. Ma, poco incline
per natura alle rivelazioni private o agli stati mistici, ho
sempre dimostrato non scetticismo ma una certa riserva nei
confronti di colei che veniva chiamata la stigmatizzata della
Dróme. Perciò, se solo un anno fa mi avessero detto che avrei
pubblicato un libro su Marta Robin, me ne sarei stupito molto.
Cos'è dunque successo per farmi arrivare a tanto?
Nel febbraio '81
dovetti, in qualità di prete-giornalista, occuparmi della morte
e dei funerali di Marta Robin. Da tutto ciò che udii dai suoi,
ebbi l'impressione che questa donna era stata una cristiana
tanto eccezionale quanto nascosta. La piccola inchiesta, che
feci allora su di lei, me la fece immediatamente amare ed
ammirare, molto più di tutto ciò che in passato mi era stato detto
sulle sue stigmate. E fui come provocato interiormente a scrivere
questo libro per soddisfare coloro che poco la conobbero, molto
ne sentirono parlare, vogliono sapere la verità a suo riguardo e si
chiedono quale segreto celasse in cuore.
Mi sono dunque messo a
fare l'inchiesta per mio conto, cominciando col raccogliere i pareri
della famiglia, dei vicini e compagni d'infanzia. Ho riunito
vari documenti confrontando e controllando, quando era il caso e
nei limiti del possibile, tutte le testimonianze raccolte. In
questa inchiesta, difficile certo, ma entusiasmante, ho cercato di
evitare la trappola sia dello scetticismo sistematico che della
ammirazione beata.
Forse la mia ricerca fu
stimolata da un giornalista di un quotidiano del nord della
Francia che mi chiese, in seguito alle scarse informazioni ottenute
su Marta Robin, se la Chiesa fosse, si o no, una « società segreta
». No, caro confratello! Ma Marta era il tesoro di una famiglia di
Chàteauneuf-de-Galaure, il tesoro della famiglia religiosa di
cui fu la ispiratrice ed anche (credo di mostrarlo nel corso di
questo libro) un tesoro per la Chiesa nel nostro tempo.
Ora, un tesoro non lo
si espone pubblicamente. Per cosa avremmo scambiato la Chiesa se
questa avesse gettato Marta in pasto a tutti i mass-media? Quando
Gesù faceva miracoli in Palestina, quando appariva trasfigurato
dinanzi a tre dei suoi apostoli, proibiva loro di parlarne. Tuttavia,
questo divieto non veniva loro fatto per sempre: «Non ne parlate
finché il Figlio dell'uomo non sarà risuscitato» (Mt 12, 9). Di
fronte alle meraviglie compiute dal Signore bisogna anzitutto
ascoltare per capire il senso del mistero. Solo dopo si potrà
parlarne. E poiché adesso il Signore ha richiamato a sé questa
«Drómoise» che, ogni venerdì, per più di cinquant'anni, visse
nella propria carne la Passione di Gesù, l'ora è giunta di
pubblicare le meraviglie che Dio fece in questa sua serva.
I miei amici
protestanti si stupiranno certamente di questo lavoro. Essi non
amano le statue. Temono che ad onorare ciò che noi cattolici
chiamiamo i santi, si tolga qualcosa alla gloria di Dio.
Vediamo di capire. I santi sono anzitutto esseri di carne,
fragili come tutti noi, ma che hanno accettato di lasciarsi
guidare da Colui la cui potenza si è rivelata nella loro debolezza.
Testimoni autentici della fede nella sola grazia di Dio, sono anche
la «riuscita» di Dio. Non rischiamo forse di togliere gloria a Dio
tacendo ciò che è la sua opera? I nostri fratelli riformati
non misconoscono l'importanza di questi uomini che, come Martin
Luther King, furono testimoni e martiri della fede. Sanno ricordarne
l'esempio e ripeterne il messaggio. È in questo spirito che ho
intrapreso la redazione di questo libro. Vi renderete conto che non
sono uno scrittore di professione e che non ambisco a gloria
letteraria alcuna, ma, semplicemente, non mi sono creduto
in diritto di tacere una tale testimonianza.
RAYMOND PEYRET
P.S. Ringrazio i
membri della famiglia di Marta e tutti i suoi amici e vicini,
senza i quali questo libro non esisterebbe. Un grazie speciale a
coloro che hanno riletto il manoscritto e mi permettono, con le
correzioni richieste, di cernere la verità più da vicino. Avendo
molto ricevuto da Marta, non posso, per quel che mi riguarda, fare di
questo libro un'opera commerciale. Cedo dunque i diritti
d'autore e mi impegno a devolverne l'ammontare ai Focolari di Carità
del terzo mondo.
Capitolo 1
TERRA DI GALAURE
La Drome non ha niente
di una regione naturale: è piuttosto una Francia in miniatura.
Ciò che in effetti
colpisce il viaggiatore che percorre questo dipartimento del
sud-est è la varietà impressionante di paesaggi, climi, accenti ed
anche di microciviltà. Cosa c'è in comune, per esempio, tra i
corridoi industriali della valle del Rodano, il Vercors dall'aspetto
savoiardo, il Diois disseminato di lavanda, i paesaggi greci del
Tricastino e le montagne provenzali delle Baronnie?
La Galaure, dove nacque
Marta Robin, costituisce, al nord della Drome, una regione di
transizione, dove le colline ondeggiano dolcemente tra il solco del
Rodano e l'inizio delle Alpi.
La Galaure non svela facilmente il suo mistero
Se arrivate dalla
Nazionale 7 per recarvi a Chàteauneuf-de-Galaure, girate a
Saint-Vallier; ad est della città troverete la Dipartimentale 51;
seguendola, imboccherete rapidamente la sfilata selvaggia di
Rochetaillée: questi tre o quattro chilometri di curve che non
finiscono più sono un avvertimento alla pazienza nella nostra
ricerca: la Galaure non svela facilmente il suo mistero...
Appena superata la
sfilata, scopriamo una verdeggiante vallata, senza poterne
supporre le reali dimensioni. File di alberi velano in parte lo
sguardo. Pure il fiume, che s'intravedeva a tratti, percorrendo
la strada, d'ora in avanti si nasconderà nel bosco. È
decisamente difficile intravedere il mistero di questa regione.
Ecco St-Uze:
apparentemente un villaggio rurale, in realtà una città
operaia che possiede fonderie. e fabbriche di ceramiche. Un po'
a distanza sorge La Motte-de-Galaure; anche questo è un
villaggio più operaio di quel che sembri...
La valle adesso si
allarga e si estende dolcemente coi villaggi di Mureils e
St-Bonnet-de-Galaure. Ancora due chilometri ed arriveremo a
Chàteauneufde-Galaure. Avvicinandosi alla borgata, in estate,
la si intravede appena, nascosta com'è nel verde; solo il
campanile e qualche tetto rosso attirano la nostra attenzione.
Ma quando si penetra nell'interno, Chàteauneuf risulta essere un
paese più importante di quel che sembri (un migliaio d'abitanti
all'inizio del secolo). E non è affatto spiacevole con la lunga
strada bordata di case fatte con ciottoli rotondi, che dalla
collina scende fin verso la strada regionale di Galaure. In alto c'è
il Focolare di Carità.
I Romani sono passati di là
Perché questo nome:
Chàteauneuf? Pensiamo, naturalmente, che derivi da «castello». Una
volta c'era un castello, i cui resti sono stati incastrati nelle
costruzioni del Focolare. Tuttavia, non sembra che esso abbia dato il
nome al comune perché, nonostante le apparenze ingannevoli
ancora una volta, Chàteauneuf deriva da «castrum novum»
(nuovo campo romano) e questo indica origini molto antiche.
Infatti, la parte di
castello che sussiste, si appoggia su elementi architettonici
che risalgono all'occupazione romana e furono trovate, nel
castello, monete imperiali del III e IV secolo. E c'è di più:
in questa valle della Galaure, il cui nome significherebbe fiume
dei Galli, fu trovato vasellame che risale al neolitico ed un altro
tipo di origine slava. Pare che questa contrada che dalla valle del
Rodano conduce alle Alpi attraverso una via più lunga assai
piacevole, fosse sempre stata utilizzata, benché lontana da
grandi vie di comunicazione, per permettere l'incontro tra i
popoli dell'Est e del Nord e quelli della regione mediterranea.
Giunti a questa prima conclusione, siamo in grado d'avvicinare
il mistero di Chàteauneuf.
Molti nomi di santi
in questa valle, ma...
Ma non corriamo, tanto
più che, qui, niente permette di pensare che qualcosa possa attirare
e fissare persone che arrivano dal continente europeo e da più
lontano. Soprattutto niente lasciava prevedere che Chàteauneuf
avrebbe potuto essere la patria natale di una mistica.
Certo tanti comuni e
villaggi dei dintorni hanno nomi di santi: S. Vallier, S. Uze, S.
Barthelemy-deVals, S. Bonnet, S. Avit, S. Martin d'Aout, S.
Andéol, S. Germain d'Hauterives, ecc... Non c'è nella Dróme
un solo cantone con tanti comuni aventi nomi di santi come questo di
S. Vallier; ma tra questa realtà e l'affermare che questa terra
all'inizio di questo secolo fosse al cento per cento zona di
cristianità c'è un, passo che non supereremo mai.
Si deve persino dire
che, durante l'infanzia di Marta Robin, la vallata era abbastanza
anticlericale nel suo insieme. Si racconta, per esempio, che nei
dintorni di Chàteauneuf, un giovane di quell'epoca, berretto sul
naso, mani in tasca, vede avvicinarsi il parroco. Allora si mette a
gracchiare come un corvo. Il parroco, senza scomporsi, traversa la
carreggiata, s'avvicina al giovane offrendogli un biglietto
da un franco.
- Ma signore!...
- Ma sì, accetti!
Quando i bambini gridano è perché hanno fame. Vada dunque a
comprarsi del pane. E’ meglio che «mangiare il curato»!...
L'aneddoto, riportato
su un numero della «Semaine Religieuse de Valence », ha il
vantaggio di metterci concretamente nel contesto storico dell'inizio
del secolo. Come per caso il Presidente della Repubblica era, allora,
uno della Dróme: Emile Loubet. E’ vero che questo uomo dal
temperamento conciliante si dichiarava «irresponsabile
costituzionalmente» della politica anticlericale dell'epoca.
Loubet era diverso dal
«petit père Combes» o da Clémenceau, il quale, secondo Aristide
Briand, era animato dall'odio per il Papa. Ad ogni modo ricordiamoci
che era il tempo della separazione della Chiesa dallo Stato e quello
in cui furono cacciati i religiosi dalla Francia.
Matrimoni e funerali
civili...
Chàteauneuf seguiva la
moda del giorno, forse era persino un po' allavanguardia! Gli anziani
«benpensanti» dicono ancora che il quartiere tra Chàteauneuf
e S. Sorlin non era molto «buono». Per esempio, se padre Cluzes,
nominato parroco di Chàteauneuf nel 1909, part? nel 1912, fu
perché, per diverse volte, la sera, gli fecero paura alle
«pianure». Neppure il villaggio di S. Bonnet, allora eretto
a parrocchia e dove Marta Robin fu battezzata, era molto buono. Il
comune di Chàteauneuf-de-Galaure e quello limitrofo di S.
Sorlin avevano la reputazione di avere un numero di matrimoni e
funerali civili maggiore che in altri posti. C'era persino
l'usanza di firmare impegni scritti per farsi seppellire
civilmente...
La situazione si è poi
evoluta, ma lentamente... Al congresso nazionale della Gioventù
Cattolica, che si tenne il 7 luglio 1912 a S. Vallier, risultò che
la parrocchia di Marta, S. Bonnet, era una di quelle che non
possedevano gruppi di giovani. «I bambini - precisa un rapporto -
lasciano la Chiesa dopo la prima comunione, dimenticano le pratiche
religiose, seguendo l'esempio dei genitori». A Chàteauneuf un
gruppo c'era, ma poco attivo. Un'inchiesta di sociologia religiosa,
condotta nel 1959 nella diocesi di Valence, mette in evidenza che,
anche a quell'epoca, quella era una zona - della Dróme - che
aveva la più alta percentuale di nonbattezzati: 4% da 0 a 7
anni; 6% da 8 a 9 anni.
Radicalismo e libero pensiero
Come spiegare questa
corrente d'indifferenza, di ostilità alla Chiesa?
Oltre al clima
nazionale succitato, bisogna tener conto delle lotte sociali che
contrassegnarono la Dróme nel XIX e XX secolo. Immaginavamo, per
esempio, che, nel secolo scorso, Chàteauneuf-de-Galaure
totalizzasse non meno di otto fabbriche, varie fucine, coltellerie,
mulini per il grano ed una cartiera che prendeva la forza
motrice nelle acque della Galaure? Meno «rossa», però, di S.
Uze, che abbiamo attraversato arrivando, Chàteauneuf fu più
influenzata dal radicalismo e dal libero pensiero. L'anticlericalismo
fu sempre molto vivo a causa di qualche scandalo dato da qualche
prete a Chàteauneuf e a S. Sorlin nel secolo scorso ed a causa
dell'ascendente di maestri di scuola, notevoli del resto, ma
molto «laicisti».... «Lascio S. Bonnet - pare abbia detto un
maestro molto apprezzato dagli alunni -, se i vostri genitori
non votano come si deve».
A questo insieme di
fatti potremmo aggiungere, per il piacere dell'aneddoto, che qui
siamo nel Delfinato e che esso confina con i «Cargnauds» delle
fredde terre dell'Isère. Questi sono di una diffidenza
leggendaria. Si racconta che, prima della guerra, due mercanti
si incontrarono alla fiera di Beaurepaire e così iniziarono la
conversazione:
- Sono andato a
Parigi...
- Dici che sei stato a
Parigi per farmi credere che non ci sei stato, ma so bene che ci sei
stato! Bugiardo, che non sei altro!
Più forti dei Normanni
questi Delfinesi! Ma questa diffidenza non è la migliore
disposizione alla fede e spiega una certa reticenza riguardo
agli avvenimenti che succedono a Chàteauneuf-de-Galaure...
Terra di incontro
L'aneddoto sui
«Cargnauds», che è forzatamente caricaturale, non può farci
dimenticare che, nella Galaure, l'abitante è realista, lavoratore,
fiero e tenace. L'esempio più illustre è quello del postino
Cheval. Chi non ha udito parlare di quest'uomo stupefacente che
- durante trent'anni, nientemeno! - ha costruito da solo il suo
«Palazzo ideale»? Questo monumento originale, che rappresenta
tutte le architetture del mondo, si trova a meno di sei chilometri
da Chàteauneuf-de-Galaure. È l'orgoglio del villaggio di
Hauterives.
«I secoli passeranno -
ha scritto Ferdinando Cheval - e la leggenda dirà al passante
che visiterà: Figlio, è un uomo solo che ha costruito tutto ciò!
». I secoli? Certamente, fino ad oggi, numerosi turisti di tutta
Europa sono venuti ad ammirare questo poema di pietra che, solo
qualche anno fa, affascinava il ministro della Cultura, Andrea
Malraux. Ma il monumento comincia a dare segni di invecchiamento.
Fra qualche decennio se nessuna restaurazione sarà intrapresa,
non ci saranno più ammiratori perché non ci sarà più il
monumento...
Ma se Hauterives ha
contribuito a mantenere fino ad oggi, nella Galaure, la
vocazione di terra di passaggio e di incontro tra i popoli,
Chàteauneuf, a sua volta, la conferma ampiamente e già da diversi
decenni.
Direi di più, non ci
si reca a Chàteauneuf solo nella stagione del turismo. Del resto non
sono dei turisti questi uomini e donne che dal 1936,
cominciarono a venire da Lione e poi ad affluire da ogni parte
della Francia e da oltre frontiera. Arrivano qua per cinque giorni,
salgono al Focolare di Carità per ascoltare il Vangelo e scoprire il
senso della loro vita; in certe ore della giornata li vediamo lungo
le strade dei dintorni, col rosario in mano, oppure dietro una
pesante croce, portata da qualcuno di loro lungo la strada che
«sale alla Plaine», come dicono qua.
Eccoci lontano dal
clima irreligioso evocato prima. Cos'è successo? Com'è potuto
verificarsi questo rovesciamento inatteso di situazione?
Questa terra di
Galaure, feudo di libero pensiero da diverse generazioni, non è
stata scartata da Dio per la realizzazione del suo disegno d'amore.
L'ha addirittura scelta per lo svolgimento, in pieno ventesimo
secolo, della storia più incredibile che si possa scrivere!
Terra di Chàteauneuf,
puoi essere fiera perché in te una donna ha intravisto una luce e ha
pregato giorno e notte che questa luce si infiammi e scaldi i
vari continenti del mondo.
Eccoti, più che mai,
chiamata ad essere una terra di passaggio e di incontro tra i
popoli...
Capitolo II
«SALIAMO ALLA
PLAINE»
I genitori di Marta
Robin abitavano sopra Chàteauneuf-de-Galaure, nel quartiere che
qui chiamano «La Plaine». Prendiamo dunque il bastone da
pellegrino e rechiamoci dai Robin. Dal Focolare c'è mezz'ora circa
di strada a piedi.
L'itinerario è facile:
prendete la strada di S. Sorlin finché, sulla destra, trovate
una strada più stretta, percorretela per qualche centinaio di
metri fino ad un pilastro dell'alta tensione. Durante l'infanzia di
Marta in questo posto c'era un pioppo che non doveva certo avere
difficoltà ad essere più attraente dell'attuale pilastro...
Un balcone con una splendida vista
«Dal pioppo - diceva
Marta - si vede un quarto della Francia!». L'espressione è
eccessiva solo per mettere in rilievo la qualità eccezionale del
panorama. Da questo balcone naturale si vedono (quando il tempo
è bello) il Monte Bianco, le cime della Certosa, l'infossamento di
Grenoble, la catena di Belledonne, il Vercors e, girandosi a ponente,
il Mezenc, il Gerbier des Joncs e, a volte, il villaggio della
Louvesc, centro di pellegrinaggio a S. Francesco Règis e a
Santa Teresa Couderc, fondatrice delle Dame del Cenacolo. Un po'
a distanza il monte Pilat. Ecco un luogo dove una cartina
d'orientamento affascinerebbe il turista... Ma non siamo
turisti e continuiamo la nostra strada. Dopo il pilastro
una freccia indica la direzione delle Móilles. Scorgiamo già, alla
nostra destra, in leggero ribasso, tre case abitate, tra le
quali si nasconde quella di Marta Robin. Più precisamente è
l'ultima a destra, in fondo alla strada. Non si può andare
oltre: un grande portale e, a qualche metro, la casa, che scorgiamo
all'ultimo momento. È qui che nacque, visse e morì Marta Robin.
Tranne il cortile
asfaltato e la facciata ridipinta, il paesaggio rimane immutato dai
tempi dell'infanzia di Marta. In questa conca della Moilles non
si ammira più il panorama che si vedeva dal pilastro (o dal pioppo),
né i villaggi, né le montagne. Si ha l'impressione che la terra
tocchi il cielo in modo quasi immediato, come ad Avila, tranne il
deserto ed i bastioni...
I genitori, gente semplice
Prima di entrare nella
storia di Marta, facciamo la conoscenza dei suoi parenti e vicini. È
una fortuna per noi che un'amica di Marta, di qualche anno
maggiore di lei, Maria-Rosa Achard, oggi insegnante in pensione,
abbia avuto la buona idea di raccontare i suoi ricordi d'infanzia. Il
libro, svelto e pieno di freschezza, s'intitola: «Allora il
mondo cominciava». Alcune di queste pagine ci aiuteranno a
situare Marta nel giusto quadro di vita all'inizio del secolo. I
Robin erano piccoli proprietari, con meno di dieci ettari di terreno,
gente molto semplice che non faceva parlare di sé, una famiglia
molto socievole.
Giuseppe, il padre, era
«un uomo grande, gioviale ed ingenuo», un tantino autoritario, con
«il volto colorato, il torace villoso nella apertura della
camicia». Maria-Rosa Achard, a cui dobbiamo questa descrizione,
aggiunge: «Era devoto e reazionario». No, era anticlericale, vi
diranno altri.
Entrambe le
affermazioni sono eccessive. Il ritornello di una canzone
composta dal consiglio municipale e dedicata al signor Robin è
forse più appropriato:
«Clericale in fondo al
cuore, egli si dice libero pensatore».
Pare, in definitiva,
che il signor Robin andasse alla messa solo alle grandi feste, cosa
che d'altronde può essere segno di devozione quando si abita un
villaggio che pratica così poco! Il signor Robin osservava il
precetto pasquale ma, verso la fine della sua vita, si dedicò alla
preghiera e fece una «morte da santo», secondo ciò che dice una
lettera di Marta del 19 luglio 1936.
Anche la signora Robin
fece una bella evoluzione. Quando si sposò veniva da S. Sorlin,
paese che non ha certo la reputazione di avere la Chiesa piena di
gente la domenica, anzi! Questo non impediva alla signora Robin di
essere una brava donna, modesta, gaia, che ripeteva ogni giorno con
amore gli stessi gesti che facevano tutte le contadine dell'epoca:
accendere la stufa a legna tutti i giorni dell'anno, perché
allora non c'era il gas, sbucciare patate, occuparsi dei
bambini, delle bestie ecc... Il suo nome da ragazza era Amelia
Celestina Chosson. Era «una donna piccola, dalla testa rotonda, ad
"uccello", sempre ricoperta da un berretto».
«Riservata e tranquilla, usciva poco». Ma le piaceva molto
ridere. Non c'è dubbio che Marta ereditò questa gaiezza e
affabilità. Marta amava molto la sua mamma.
...ebbero sei figli
Questa coppia
d'agricoltori ebbe sei figli:
- Celina, la maggiore,
l'unica ancora in vita al momento della redazione di questo libro,
abita a S. Sorlin dal 1908, da quando si sposò;
- Gabriella, che ha
ancora dei discendenti a Chàteauneuf;
- Alice, «saggia e
tranquilla», la più vicina a Marta; la sua famiglia abita sempre al
villaggio di Chàteauneuf;
- Enrico, un po' orso e
timido, l'unico maschio; è morto nel 1951;
- Clementina, deceduta
a cinque anni di febbre tifoide;
- ed infine Marta, «che
ebbe in seguito un destino glorioso ed inatteso, la Santa della
Drome» scrive Maria-Rosa Achard, maestra laica. Questo per quel che
riguarda la famiglia.
I vicini sono atei o indifferenti
E i vicini chi erano?
La strada delle Moilles che abbiamo seguito è costeggiata da tre
sole case: a sinistra, arrivando, ci sono gli Achard; a destra
ed in fondo ci sono le due famiglie Robin; la loro parentela
risale solo al secolo scorso, a Ferdinando e Giuseppe, padre di
Marta.
Il signor Achard era
uomo d'una scrupolosa onestà e molto aperto. Era un contadino
che, da quel che dice sua figlia, sapeva molte cose «sulle stelle,
gli uccelli, i microbi e le piante». Avrebbe voluto avere altri
amici con cui parlare e «in un altro ambiente. Il consiglio
municipale, le riunioni del partito socialista, o della loggia
massonica gliene avrebbero fornito l'occasione se la timidezza
non gli avesse impedito di farsi avanti e di prendere contatto.
Da buon repubblicano credeva nel progresso, alla scuola laica,
al 14 luglio ed alle riunioni elettorali».
Non credeva in Dio e
non mandò tutti i figli al catechismo. Non era l'unico a
Sannt-Bonnet! La figlia, Maria-Rosa, esagerando un po', diceva
che era libero pensatore.
Ferdinando Robin era
l'immediato vicino dei genitori di Marta; non andava molto
d'accordo con Giuseppe, padre di Marta, perché «tra il cortile di
Ferdinando e quello di Giuseppe c'era solo un leggero portale da
spingere» e la questione, spesso spinosa, del diritto di passaggio e
del pozzo comune raggelava regolarmente i rapporti. I due
uomini non litigavano mai, ma, quando Ferdinando parlava
con Giuseppe Achard di Giuseppe Robin, «diventava rosso e dava
pugni sul tavolo». Le sue collere finivano presto, però. Sul
piano religioso Ferdinando era «indifferente»; la moglie e i
figli dovevano essere simili a lui.
Un clima di solidarietà
Ecco dunque l'universo
di Marta nei suoi anni d'infanzia: vicini atei o indifferenti ed una
famiglia che frequentava la chiesa a Pasqua, Natale e ai Santi.
Ma i territori di
queste tre famiglie erano comuni, così l'aiuto reciproco era
naturale. E’ sempre Maria-Rosa Achard che ricorda questi scambi
incessanti tra gli Achard e i Robin: «In quell'epoca vivevamo
quasi in autarchia; i vicini avevano una grande importanza.
Erano là per aiutare in caso di bisogno: nascite, malattie,
morti, "lavori" agricoli. Ci si scambiavano legumi,
sementi, uova per la covata, maschi per le coniglie. Ci si dava
l'eccedenza di miele e frutta. Quando si uccideva il maiale,
reciprocamente ci si portava la fricassea su di un piatto,
avvolta in un panno bianco: un po' di sanguinaccio, frattaglie, un
pezzo di filetto. Si chiedeva in prestito la tinozza, una benna, le
schiacce. Da uno c'era la macchina da cucire, dall'altro il telaio
per rifinire le coperte o il grande imbottavino». È dal vicino che
si andava a fare la veglia durante le serate invernali, come
preciseremo nel seguente capitolo. «Ognuna di queste case era,
insomma, un vero focolare». La vita aveva la meglio sull'ideologia.
È in questo clima di
solidarietà naturale che Marta fu allevata.
E non è vietato
pensare che abbia potuto attingervi, con la grazia di Dio, le
prime intuizioni per i futuri Focolari di Carità.
Capitolo III
IL TEMPO DELLA MARCIA E DELLA DANZA
Marta Luisa Robin
nacque verso le ore 17 del 13 marzo 1902 a Chàteauneuf-de-Galaure,
nella casa paterna. In quei tempi i bambini non nascevano nelle
cliniche o nei centri ospedalieri... Spesso, in campagna, le mamme
riprendevano normalmente il lavoro qualche ora dopo il parto. Dovette
essere così anche per mamma Robin, che avrà ripreso il lavoro
fin dal giorno successivo.
Tanto più che, secondo
certe voci non verificabili, la nascita della piccola Marta,
lungi dal suscitare un'atmosfera di festa, avrebbe provocato un
litigio tra i coniugi Robin. Possiamo facilmente immaginare
come questa sesta nascita, in una famiglia di poveri
coltivatori, potesse, per esempio, costituire un peso gravoso da
assumere.
Il battesimo a Saint-Bonnet
Ma se lite ci fu, non
durò. Infatti, meno di tre settimane dopo la nascita di Marta, il
sabato di Pasqua, 5 aprile 1902, fu grande festa. Tutta la
famiglia al completo scende dalla «Plaine», per la strada
sinuosa del castello, per recarsi al battesimo di Marta nella chiesa
di Saint-Bonnet-de-Galaure. Perché Saint-Bonnet?
Perché questo antico comune, divenuto villaggio di
Chàteauneuf, era allora una parrocchia avente un parroco residente;
e rimase tale fino alla morte di quest'ultimo, nel 1922. Sulla
strada che porta alla chiesa due bambini sono particolarmente felici:
Enrico, ometto di sei anni, scelto per essere padrino di Marta, e
Alice, la sorella di otto anni che sarà la madrina.
Il fonte battesimale di
Saint-Bonnet non ha niente di una fontana espressiva. Che
importa! Quando il prete Caillet disse: «Io ti battezzo nel nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», versando l'acqua sulla
fronte di Marta, la immerse nella vita trinitaria e, senza stigmate
ma realmente, Marta iniziò ad identificarsi al suo Maestro, il
Cristo morto per i peccati del mondo e risuscitato per vivere con
Dio. Le campane di Saint-Bonnet potevano dunque suonare gioiosamente
in quel fine settimana pasquale: quel sabato 5 aprile 1902 fu la
prima grande data della vita di Marta.
Quando la famiglia andava in chiesa
Anche se più attratti
naturalmente da Chàteauneuf, a causa della scuola, del mercato
e del commercio, è probabile che i Robin preferissero
Saint-Bonnet per «sentire la messa», come si diceva allora,
nei giorni festivi, perché vi avevano il banco di famiglia, nel
quale si entrava da una porta. La messa, in quei tempi, era celebrata
in latino, ma alle preghiere dei fedeli si nominavano le famiglie
iscritte al necrologio: gli Achard, i Robin e le vecchie
famiglie della contrada. Dopo la predica, la questua: sul
vassoio di rame la piccola Marta ha messo di buon cuore la sua
monetina, segno di offerta della sua vita, senza rendersi conto, come
tutti i bambini di quella età, della portata del suo gesto. Appena
finita la messa, almeno ai Santi, Marta andava coi genitori, i
fratelli e le sorelle, a pregare sulla tomba di famiglia, che allora
si trovava nel cimitero che circondava la chiesa.
Una tomba si aprì
quando Marta aveva solo venti mesi. La cattiva acqua del pozzo della
Plaine provocò un'epidemia di tifo, che causò la morte di
Clementina, il 12 novembre 1903. Anche Alice prese la malattia e
dimagrì talmente, mi diceva un'anziana del paese, che da quel
momento cominciò a zoppicare. Dovette addirittura seguire un
trattamento ospedaliero di parecchi mesi presso l'ospedale della
Carità, a Lione.
Nemmeno Marta fu
risparmiata dalla febbre. Se la cavò abbastanza bene, rimanendo però
molto fragile.
Il primo ricordo di Marta
Il primo ricordo di
Marta risale al matrimonio della sorella maggiore, avvenuto nel 1908.
Quando Celina divenne la signora Serve e andò a stabilirsi con suo
marito a Saint-Sorlin, Marta visse la sua prima sofferenza. Amava
talmente sua sorella che sentiva una certa gelosia per il cognato che
gliela rapiva. Questo non le impedì però di ballare, di girare
follemente come sanno farlo le bimbe di quell'età.
La scuola a Chàteauneuf
Poi, la vita ordinaria
riprende. Marta è una bambina obbediente. «Ho obbedito tutta
la mia vita», dirà un giorno. E’ affettuosa: a mezzogiorno le
piace andare a cercare suo papà nei campi; egli la chiama la
«sua mimì».
A sei anni comincia ad
andare a scuola a Chàteauneuf, una scuola femminile comunale,
perché, dopo la separazione tra Chiesa e Stato, la scuola libera
ha dovuto chiudere i battenti. Con gli zoccoli, Marta, i
fratelli e le sorelle, fanno a piedi due o tre chilometri di
scorciatoie al mattino ed altrettanti la sera.
La scuola era in fondo
al villaggio, sulla strada regionale che circondava la grande
piazza. Oggi questa costruzione è diventata il «Restaurant de
la Petite Marmite», davanti al quale si scorge un superbo
tulipifero della Virginia. Quell'albero, molto bello in
primavera, era la delizia di Marta. Ogni anno, quando sarà costretta
a letto, ne riceverà un ramo in fiore, che sua nipote Marta verrà a
portarle.
All'uscita di scuola,
alle undici del mattino, Marta va spesso non al bar, che non
esisteva ancora, ma da una compagna, che le sarà fedele tutta la
vita e che abita precisamente di fianco alla chiesa parrocchiale,
nella vecchia scuola libera tenuta dalle religiose prima della
separazione. Nelle belle giornate, le due bambine giocano nel
cortile. A volte Marta sale su una scala per mettere fiori alla
statua della Madonna, nella nicchia sopra la porta centrale della
casa.
Marta non dimenticò
questa statua, nemmeno a quasi ottant'anni. Un po' di tempo prima di
morire, disse alla sua amica: «Bisogna assolutamente che tu
faccia riparare lo zoccolo, altrimenti la statua cadrà».
L'amica replicò: «Ma cosa mi dici? E come puoi saperlo? Parola mia,
tu gironzoli tutta la notte!». E le due amiche ridevano di gusto.
Ma torniamo
all'infanzia. All'ora di mangiare, Marta prende dal paniere il pasto
freddo che la mamma le ha preparato. A volte Marta mangia a scuola.
Un'altra delle sue compagne ci dice che già a quei tempi Marta non
mangiava quasi niente: «Una volta iniziò a mangiare un uovo sodo,
ma poi non aveva già più fame. Gettò l'uovo in un campo vicino
alla scuola e mi disse: Non dirlo a nessuno».
Per il catechismo, di nuovo a Saint-Bonnet
Certi giorni, Marta se
ne va subito, dopo l'uscita delle undici, al catechismo che si fa a
Saint-Bonnet. Altri quattro chilometri da fare, andata e ritorno.
Dello sport! Ma perché andare a Saint-Bonnet quando il parroco
e le signorine fanno il catechismo a Chàteauneuf? Perché il parroco
di Saint-Bonnet, un po' geloso del confratello, non vuole che le
piccole parrocchiane gli sfuggano... D'accordo dunque per il
catechismo a Saint-Bonnet! Doveva farsi in chiesa. Pare che
Marta fosse ribollente di domande.
Un'alunna spesso ammalata
Al pomeriggio, ritorno
in classe. Non si possiedono, purtroppo, ricordi precisi
sull'alunna Marta Robin. Abbiamo tutte le ragioni di pensare che
dovesse essere obbediente come in casa e che fosse avida di imparare,
perché per tutta la sua vita manifestò grande curiosità di
mente. Del resto, avendole sempre attribuito una memoria
superiore alla media e sapendo che amava molto la direttrice e le
maestre, possiamo ragionevolmente supporre che fosse una buona
alunna. C'è una restrizione che ha la sua importanza: Marta era
spesso ammalata (perdeva allora la scuola, due o tre giorni di
seguito) o doveva curare la mamma che soffriva di disturbi alla
bile. Dovettero dunque esserci dei «buchi» nella formazione
scolastica. Ma queste assenze forzate diedero a Marta il senso dei
malati: «Avrei sperato monti e valli - ci dirà più tardi - se
mi avessero lasciata, per andare a vedere un ammalato, non per
curarlo ma per amarlo». Marta non ottenne il certificato di studio.
Sapete perché? Perché era ammalata il giorno dell'esame.
Ma allegra e birichina!
Visto che siamo a
scuola, diciamo qualcosa delle ricreazioni. L'occupazione
preferita delle ragazzine era salire sul portale del cortile per
veder passare il treno che collegava allora Saint-Vallier al
Grand-Serre. Attraversando il villaggio, il «teuf-teuf», come
lo chiamavano, andava a soli sei chilometri orari. Così le ragazze
avevano il tempo per mandare saluti amichevoli all'autista e ai
viaggiatori. Ma giocavano anche, si capisce!, alla «settimana»
o saltavano alla corda. Ogni tanto qualcuna truffava. Marta,
che non aveva gli occhi in tasca, diceva: «Hai truffato. Non
importa! Continua! ». Questo era probabilmente il mezzo più
sicuro per scoraggiare le truffatrici...
Marta era terribile per
ridere e per giocare. Tutte le compagne di scuola dicono che era
allegra e accorta. Anche un po' civettuola. Un giorno, alla fiera di
Chàteauneuf, si divertì ad appendere sulla schiena di un signore la
coda di un coniglio! «Volevamo mettergli un pezzo di carta con
qualche parola, ma non avevamo la matita per scrivere. Così
abbiamo messo la coda di coniglio! ».
Cresima nel 1911 e prima comunione nel 1912
Siamo nel 1911.
Monsignor Chesnelong, vescovo di Valence (in seguito fu nominato
arcivescovo di Sens), viene ad amministrare la Cresima a
Chàteauneuf. Nei registri parrocchiali risulta in data 3
maggio. Il 15 agosto dell'anno seguente Marta fa la prima
comunione. Alcuni si scandalizzarono che la facesse così tardi
e ne fecero il rimprovero ai genitori. Ma non bisogna
dimenticare che il decreto «Quam Singulari» di Pio X sulla
comunione dei bambini reca la data 8 aprile 1910 e che l'applicazione
fu lenta a farsi. I vescovi francesi, in particolare, non
dimostrarono molta sollecitudine per la comunione precoce, al punto
che Pio X invitò a Roma, nella cappella Sistina, 400 bambini
francesi per dare loro, lui stesso, la prima comunione.
«Nell'agosto 1912 -
dice Daniele Rops nella sua storia della Chiesa - 400 bambini
francesi andarono a ringraziare il Papa di aver anticipato l'età per
accedere alla comunione». Nell'agosto 1912? Come per la
comunione di Marta? Questa coincidenza pare meravigliosa e
pensiamo che il parroco di Chàteauneuf dovette organizzare
apposta la prima comunione contemporaneamente a questo
avvenimento. Questa spiegazione dovrebbe essere soddisfacente
per quelle persone che obiettano: «Ma una prima comunione non
si fa mai in tale periodo perché non c'è il catechismo in agosto!».
Purtroppo Daniele Rops
ha sbagliato data: il pellegrinaggio dei bambini francesi
avvenne il 14 aprile 1912. Tanto peggio! Risulta almeno che da questa
data, la parrocchia di Chàteauneuf cominciò a seguire il ritmo
di Roma su questo punto. Ora, se volete sapere perché Marta fece la
comunione il 15 agosto, la spiegazione è semplice: era a letto con
la scarlattina quando il parroco organizzò la prima comunione
nella parrocchia... Sempre ammalata questa Marta!
Nemmeno il figlio del
maestro era stato risparmiato dal virus, al punto che padre
Cluze invitò i due bambini a prepararsi al grande giorno con un
ritiro preparatorio, che si svolse nel giardino della casa
parrocchiale, dove, in seguito, padre Auric fece costruire le
aule per il catechismo.
E quando venne il
giorno stabilito, padre Cluze, in questa chiesa dalla volta
curiosamente traforata, quasi per meglio accogliere il sole levante,
diede a Marta e al figlio del maestro il Corpo di Cristo.
«Credo che la prima
comunione - ci dirà Marta in seguito - fu una presa di possesso di
Nostro Signore. Credo che si impadronì di me da quel momento.
La comunione privata fu qualcosa di molto dolce nella mia vita».
La comunione solenne nel 1914
Appena due anni dopo,
il 21 maggio 1914, Marta faceva la Comunione solenne, come si
diceva allora. Adesso diremmo la Professione di fede. Siccome
Marta non ebbe la fortuna di proseguire gli studi in un collegio e
poiché il catechismo di perseveranza nella parrocchia non
c'era, la sua formazione scolastica cristiana finì lì. Ma non
la sua vita cristiana, come succedeva spesso a Saint-Bonnet ed
altrove a quell'epoca. Per Marta, essere cristiana significava
concretamente amare come Gesù, con Gesù, i parenti, gli amici,
le insegnanti, gli ammalati, e pregare. Un giorno confidava: «Da
piccola ho sempre amato il buon Dio. Le mie sorelle non
volevano che pregassi sempre, ma pregavo soprattutto nel mio
letto. Pregavo la Madonna. Le parlavo, soprattutto. Le dicevo
preghiere prese da un grosso libro dei vespri di mio nonno. Quando
andavo in paese a fare commissioni, avevo sempre la corona in tasca e
la dicevo strada facendo».
Dopo la scuola, i campi
1916: Marta ha 14 anni.
Nel mese di luglio lascia la scuola e dedica tutto il tempo a
fare ciò che faceva solo durante le vacanze e quando finivano
le lezioni: il lavoro dei campi e di casa, come facevano le sue
coetanee. Del resto il lavoro all'aria aperta le piace molto.
L'unica sua paura, mentre pascola le mucche e le capre, è di
scorgere qualche serpente che avanza strisciando.
A parte questo
inconveniente, Marta amava il lavoro di pastorella. Le lasciava molto
tempo per pregare. Più tardi confiderà a Mariangela Dumas: «Pregavo
molto più pensando che parlando».
Questo non le impediva
di essere una ragazza carina né di scambiare quattro
chiacchiere con un giovane di Mantaille che, la domenica, la
raggiungeva nei campi. Avremmo desiderato vivamente incontrarlo
per la nostra inchiesta, ma è deceduto parecchi anni fa. Sappiamo
solo che fu padrino a un battesimo dove Marta fu la madrina.
Marta adolescente era
molto gaia. Massimo Achard, figlio di un vicino di casa e quasi suo
coetaneo, dice: - Le ragazze Robin erano giocose, piaceva loro
ridere. La nonna paterna era già così: le piaceva vedere i bambini,
divertirsi e cantare danzando («charameler») con loro, come si dice
nella Galaure. Anche papà Robin era gaio e amante la
compagnia. Il primo gennaio, molto ritualmente, faceva il giro
per augurare a tutti "buon anno".
Le serate invernali
I momenti migliori per
divertirsi e ridere erano, a colpo sicuro, le serate invernali. La
televisione non esisteva ancora. Felici le famiglie di allora che
potevano organizzare da sé le loro serate! Ecco la descrizione
che ce ne fa Mariarosa Achard: «A volte, dopo cena, qualcuno diceva:
"E se andassimo a far la veglia da Ferdinando o da
Giuseppe (Robin)?". Ci coprivamo bene e partivamo lungo
le siepi nere della strada. Trovavamo i vicini accanto al
camino, a volte mezzi addormentati sulle sedie...
Il nostro arrivo li
svegliava, si allargava il cerchio; qualcuno aggiungeva legna al
fuoco. Gli anziani parlavano lentamente di raccolti, tra due
sbuffi di pipa, o dei loro ricordi d'infanzia, rievocando altri
tempi. Altre volte, gli uomini si mettevano al tavolo dal vecchio
tappeto rosso e nero - réclame di Byrr - con la scatola delle carte
e dei gettoni alla mano e iniziavano una partita di
"cinquecento" e poi di "maniglia". A volte anche
le donne si univano, smettendo di sferruzzare.
Intanto noi bambini ci
sbizzarrivamo a giocare. Ci permettevano anche degli spuntini: grosse
frittelle che ci divertivamo a far saltare. A volte non
centravano la padella e si spiaccicavano per terra. Mamma
Rosalia diceva, ridendo: "È così che s'impara!".
Dove c'erano ragazze si
organizzavano balli. Si invitavano le amiche dei dintorni e i
ragazzi si autoinvitavano. Da bocca a orecchio: "Sabato si
balla dai Robin o dai Cheval". Se venivano numerosi eravamo
contenti, soprattutto se c'era qualcuno che suonasse la fisarmonica.
Se non c'era si cantavano arie appropriate. Si ballava la polka, la
mazurka, il valzer, il salto del coniglio. Si chiedeva ai vecchi di
ballare il rigodone, che i giovani non ballavano più. Come le sue
coetanee, Marta ha ballato in quei balli familiari. A Saint-Uze
come a Saint-Sorlin o a Saint-Vellier. Alcuni anziani hanno detto, un
po' troppo facilmente, a volte, di aver ballato con lei. Si impresta
solo ai ricchi... Ma che Marta abbia ballato nei balli
familiari, questo è sicuro. Ballava e scoppiava in allegre risate,
soprattutto quando raccontava barzellette».
Dopo aver rievocato i
tempi felici trascorsi alla Plaine, Mariarosa Achard conclude:
«All'improvviso sento come ognuna di queste cose fosse un vero
focolare, un centro caldo dove la vita si concentrava.
Conoscevano solo il loro piccolo mondo, ma lo conoscevano bene e
vivevano in accordo con esso».
Marta va ad aiutare sua sorella a Saint-Sorlin
Il piccolo mondo in
questione non si limitava alla Plaine. Nell'inverno 1916-17 Marta va
al villaggio Epars, a Saint-Sorlin, dalla sorella maggiore,
signora Serve. Avendo questa il marito in guerra ed essendo sola ad
occuparsi dei due bambini piccoli, del suocero di 80 anni e
della cascina, l'aiuto di Marta le era quanto mai utile. Ricordando
quei tempi difficili, la nonagenaria signora Serve, di fresca
memoria, non cessa di ripetere, a proposito della sorella minore:
«Era svelta, in gamba. E gentile». Per Marta era un piacere! Le
piaceva occuparsi dei bambini e dar da mangiare alle bestie. Così la
troviamo ancora a Saint-Sorlin nell'aprile e nel maggio del
1918. C'erano però due cose che detestava: occuparsi dei bachi
da seta e dei maiali. Aveva una repulsione istintiva per questi
animali. Ma si limitò a confidarlo ad un'amica... Marta era
discreta, non faceva capricci. Essere utile era la sua gioia.
Capitolo IV
«PER TE SARA’ LA
SOFFERENZA»
Fu al ritorno da Saint-Sorlin, da sua sorella
Celina, che Marta accusò i primi mali di testa? A volte lo si
sostiene. Ad ogni modo, quando il 13 maggio scrive al fratello
Enrico, che parte militare, non risulta che gli abbia segnalato
niente di rilevante, a giudicare dalla risposta di quest'ultimo.
Niente compare nemmeno nella lettera del 7 luglio. Secondo i
vicini sarebbe al momento della battitura, dunque ad agosto
soltanto, che Marta cominciò ad ammalarsi.
Suo padre diceva
ovunque che si era seduta all'ombra di un noce. «Nella nostra
regione - mi spiegava un medico di Saint-Vallier - ci sono molti
noci e, se qualcuno si ammala, si dice che è a causa dei noci.
Ma è una spiegazione che non vale niente».
Cos'è dunque successo?
Marta soffre di vertigini? Una vena rotta? Un ascesso? Per Massimo
Achard non doveva essere molto grave, poiché partì a piedi per
consultare il suo medico a Saint-Sorlin. Eppure furono gli ultimi
chilometri che Marta fece su quella strada...
Un'encefalite letargica?
Il 25 novembre, poco
dopo l'armistizio della «grande guerra», Marta, mentre era in
cucina con la mamma, cade per terra ed è incapace di rialzarsi da
sola. Per i familiari è un segno che la cura del medico di
Saint-Sorlin è stata inefficace. Fanno dunque venire il dottor
Berne, di Saint-Vallier. Quale strana malattia ha colpito Marta? Non
mangia, non dorme, è come paralizzata alle gambe e sonnecchia
continuamente. Si tratta di un attacco di meningite,
poliomielite, reumatismo deformante? «Quanto soffriva! La
sentivamo gridare» - dice la signora Danthony, d'Anneyron. A
volte gridava, ma soprattutto dormiva. Potrebbe essere
un'encefalite letargica. Tale stato durò diciassette mesi
secondo alcuni, ventisette secondo altri. Ma questa seconda
opinione, che ci porterebbe fino all'aprile 1921, ci pare esagerata.
Ne vedremo in seguito il perché.
Cartoline postali
scritte da suo fratello Enrico durante il servizio militare e
ritrovate da suo nipote, signor Gaillard, ci tengono al corrente
dell'evoluzione della salute di Marta. Tanti alti e bassi, ci
risulta, a meno che le lettere inviate ad Enrico siano solo un
modo per nascondere l'inquietudine dei familiari, o non vogliano
demoralizzare il giovane soldato. Ad ogni modo, ecco qualche
estratto di questa corrispondenza:
«Mi dite che Marta
soffre sempre ad intervalli» (16 gennaio 1919).
«Mi dite che Marta
soffre sempre. È lungo! Si può dire che ha passato un brutto anno»
(23 gennaio 1919).
«Apprendo con piacere
che Marta sta meglio» (9 febbraio 1919).
«Mi dite che Marta sta
un po' meglio. Speriamo che col caldo si riprenda» (6 maggio 1919).
«Marta soffre sempre. È triste soffrire così, anche per quelli che
sono vicini» (26 maggio 1919).
«Che tristezza questa
malattia che la fa soffrire tanto e così a lungo. Speriamo che col
bel tempo si riprenda» (31 maggio 1919).
«È Marta che non sta
ancora meglio» (2 giugno 1919).
Peccato che l'insieme
delle cartoline ritrovate finisca al giugno 1919. Per l'anno
1920 siamo senza archivi. Al massimo, un aneddoto che possiamo
situare in quell'anno o all'inizio del 1921. Si dice che il
parroco Payre, che succedette nel 1912 a Cluze nella parrocchia di
Chàteauneuf-de-Galaure, era andato a trovare Marta, che si era
addormentata durante la conversazione. Parecchio tempo dopo,
quando Marta riprese i sensi, domandò: «Il signor parroco
non c'è più?». Andarono subito a cercarlo e ripresero la
stessa conversazione che avevano interrotto mesi prima. Esile
ricordo, che testimonia solo una prolungata sofferenza... Durante
questa encefalite, Marta non fu sempre senza conoscenza. A sua
sorella Alice che s'avvicinava, Marta diceva: «Sento che sei tu».
Una missione fu
predicata a Chàteauneuf dal 6 al 21 febbraio. Marta non poté
approfittarne.
Guarita dopo aver ricevuto l'unzione degli infermi
L'aurora della
guarigione è quella del 25 marzo 1921, festa dell'Annunciazione. E
per questo che ci pare esagerato parlare di un'encefalite letargica,
che sarebbe durata fino all'aprile 1921.
Alice, che dormiva
nella stanza di Marta, fu svegliata da un gran rumore e vide una
grande luce. «Si, la luce è bella, ma ho visto anche la Madonna»
le risponde Marta. Ma la Madonna non fece alcun miracolo, perché i
genitori credono che la loro piccola è perduta! Chiamano il
parroco, che le amministra il sacramento degli infermi. Bisogna
ammettere che dopo un po' di tempo Marta sta meglio: vuole
alzarsi e chiede che la si porti in cucina. In simili circostanze i
genitori non fanno forse di tutto per accontentare la figlia
ammalata? Così, il signor Robin va subito a comprare una
poltrona ad Anneyron, quella stessa che attualmente si trova ai piedi
del divano, nella camera di Marta. Siccome ha le gambe molto
indebolite, dopo mesi di immobilità, ed è incapace di
camminare, suo padre la porta in braccio dal letto alla poltrona. E’
nella cucina, presso la finestra, di cui si ha cura di
socchiudere le imposte perché i suoi occhi temono già la
luce, che, settimana dopo settimana, Marta sta meglio. Si alza
dalla poltrona, fa qualche passo e ben presto camminerà con le
stampelle. Suo padre l'avrà senz'altro portata fuori sul carretto
trainato dal cavallo, ma non dovettero essere uscite molto
frequenti.
Leggeva e ricamava
Cos'ha dunque fatto
Marta nel corso dell'anno 1921? Condannata all'immobilità, leggeva.
La bibliotecaria parrocchiale di allora si ricorda che Alice e
Gabriella venivano a prendere libri per la piccola Marta. Ma non
sappiamo nulla delle sue letture preferite. Altra occupazione
era il ricamo. Tra i primi punti imparati a scuola, i consigli
dell'organista di Chàteauneuf, signorina Caillet, e quelli di una
signora originaria di Saint-Avit e partita poi per Lione, Marta
si mise a maneggiare l'ago con rara abilità. Ricamava
tovaglioli su tovaglioli. Veramente avrebbe preferito maggior varietà
nel genere di lavoro fornitole, ma la necessità di comperare
medicine, aspirine soprattutto, le impediva di fare la
difficile. Nella necessità si è costretti a fare ciò che è
richiesto. Suo fratello Enrico la stuzzicava dicendole: «Non
guadagni l'acqua che bevi».
Eppure Marta non
lavorava solo per guadagnarsi la vita. Il primo agosto 1921, per
esempio, scrive alla nipote, Marcella Serve: «Sarà un piacere per
me farti dei pizzi». Del resto ne offrì a tanti altri membri della
famiglia, che custodiscono preziosamente questi lavori d'arte.
Più tardi Marta scrive
ancora a sua nipote: «T'invito caldamente a venire alla festa
patronale di Chàteauneuf, il 5 ottobre».
Pellegrinaggi a santuari della regione
Nel frattempo la
vediamo partire in pellegrinaggi nei dintorni di Chàteauneuf.
Il 15 agosto 1921 prega
a N.D. di Chantenaf, nei pressi di Lens-Lestang, e 1'8 settembre nei
pressi di Hauterives, a Bonnecombe. In quei tempi in Francia si
parlava molto di una religiosa del Carmelo di Lisieux, che sarà
beatificata nel 1923 e canonizzata, con un'incredibile rapidità,
nel 1925: suor Teresa del Bambino Gesù. Contrassegnata da questa
attualità ecclesiale, Marta pensa di entrare nel Carmelo. Si recò
forse a quei due santuari dedicati alla Madonna per confidarle questo
progetto? Prega per questo quando ricama nel cortile o nella
cucina della cascina?
La scoperta di Marta in un baule del granaio
Nella primavera del
1922 Marta non doveva stare troppo male, perché trascorse otto
giorni da sua sorella Gabriella, che abitava a Chàteauneuf, non
lontano dalla strada che porta a Hauterives. Non è molto
svelta, cammina con un bastone. Comunque, negli otto giorni di
assenza di Gabriella, se la cava assai bene nel curare il nonno,
occuparsi del bambino, fare i lavori di casa, dar da mangiare
alle galline e ai conigli. Un giorno sale al granaio e,
rovistando in un baule, scopre un vecchio libro di pietà.
Gli occhi le cadono su una frase che diceva press'a poco così:
«Cerchi la gioia, la calma, la dolcezza; è invece alla
sofferenza che devi prepararti». Fu come un lampo nella sua vita.
«Per te sarà la sofferenza», si disse Marta. Un'altra frase
del libro attirò la sua attenzione: «A Dio bisogna dare
tutto». Da quel momento Marta decise di consacrarsi a Dio. Aveva
vent'anni.
Capitolo V
LA SVOLTA SPIRITUALE
Il 30 ottobre 1922 i
dolori alle ginocchia riprendono con forza. La paralisi
riappare. Marta guarirà ancora? I familiari cominciano a dubitarne.
Sarebbe sorprendente che, da ormai quattro anni che questa
malattia perdura, i Robin non si fossero detti: «Ma cosa abbiamo
fatto al buon Dio perché nostra figlia non possa essere come le
altre?».
E Marta? Dopo aver
manifestato doni evidenti di pietà e di conoscenza religiosa fin
dall'infanzia, non poteva non interrogarsi ed essere preda di una
lotta interiore, vedendosi semi-paralizzata nel fior dell'età.
Arrivo del parroco Faure
Il 1923 fu
caratterizzato dall'arrivo a Chàteauneuf del parroco Faure.
Nominato parroco di questa parrocchia il 6 agosto, non tarderà
ad arrivarvi, probabilmente verso la fine agosto o l'inizio di
settembre, e a fare una visita alla famiglia Robin. Infatti
la signora Bonnet, una sarta del villaggio che aveva fornito del
lavoro a Marta, disse subito al nuovo pastore della parrocchia:
«Avete una parrocchiana un po' speciale. Dovete andare a
vederla». Quando le fece visita - in settembre o ottobre, è
difficile saperlo - non si rese conto di niente di particolare.
Certo, Faure era un bravo prete, fervente anche: si alzava
presto per suonare l'angelus, in Quaresima digiunava e monsignor Pic
dovette persino imporgli, per obbedienza, un regime meno frugale.
Insomma, una specie di Curato d'Ars, ma un po' burbero e per niente
mistico. Si dice che in seminario avesse chiesto al Signore la grazia
di non dover occuparsi mai di mistici durante il suo ministero,
«perché non ci saprei fare» - confidava ad amici intimi. Si
sentiva più disposto a dire alla gente le quattro verità. E
con vigore! Del resto, questo impulsivo rimpiangeva spesso i
suoi primi impeti. Un giorno una frequentatrice della balera
entrò nel confessionale. Faure ne uscì subito: «Il parroco
non confessa quelle che vanno a ballare», disse. Per lui era
così e non diversamente. Dovette soffrire molto a causa della
balera apertasi dopo la guerra, al «castello», in cima al
villaggio. Ma che poteva fare lui, povero curato, che arrivava da una
piccolissima parrocchia del Nyonais e che comprendeva i comuni
di Pilles e Chàteauneuf-de-Bordette? Il vescovo di Valence non aveva
forse sbagliato a farlo passare da un Chàteauneuf all'altro?
Chàteaurieuf-de-Galaure non era troppo grande per lui? Presto
padre Faure scoprirà che, avendo nella parrocchia una mistica
come Marta Robin, la sua preghiera di giovane seminarista non fu
proprio esaudita!
Fin dal 1924 confesserà
alle ragazze del patronato di sentirsi «completamente sorpassato».
Con dei suoi limiti, ebbe l'idea di chiedere consiglio a dei
confratelli: Perrier, parroco di Saint-Uze, e Betton, allora
professore di filosofia nel seminario diocesano di
Saint-Paul-Trois-Chàteaux. Padre Betton era un umanista
notevole, del quale riparleremo.
Nei bagni resinosi di Saint-Péray
Durante il primo
incontro di Faure con Marta non successe forse niente di
straordinario, tanto più che Marta ebbe sempre una certa timidezza
nei confronti di quell'uomo austero. Tutt'al più avrà potuto
comunicargli che sarebbe andata ai bagni resinosi di
Saint-Péray.
Questo breve soggiorno
di Marta in Ardèche pare aver segnato una svolta importante
nella sua vita spirituale. Ma padre Faure non poteva certo
presentirlo.
Saint-Péray è un
comune situato di fronte a Valence, sulla sponda destra del
Rodano. L'hotel Roche, nel quale Marta soggiornò due o tre
settimane, esiste sempre, ma lo stabilimento dei bagni resinosi ha
chiuso i battenti nel 1946. Nei decenni precedenti i medici
mandavano i loro clienti reumatoidi a Saint-Péray, per la cura
basata sull'azione delle resine. Venivano da ogni regione della
Francia e del Belgio. Un dépliant dell'epoca, che ci ha dato il
signor Roche, spiega come avveniva una seduta. Gli ammalati, una
volta svestiti, erano avvolti, inclusa la testa, in coperte di lana e
confortevolmente installati nel forno. Vi rimanevano da otto a
quaranta minuti, secondo le indicazioni del medico curante.
Questo «forno», che meritava il suo nome, era una sala di
essudazione in mattoni refrattari, scaldata da un forno a legna,
dal quale era separata da una grata e in cui vi erano rami di pino
mugo. Sotto l'influsso del calore, preziose essenze si
sprigionavano, riempiendo l'atmosfera del forno superiore di
calde emanazioni resinose, che provocavano negli ammalati abbondanti
sudate. All'uscita questi si riposavano da 15 a 20 minuti in una
stanza speciale, vicino al forno.
La signora Danthony
conserva ancora le cartoline postali che Marta le mandava da
Saint-Péray. In quei tempi si scriveva più che telefonare e questo
ci permette di conservare gustose impressioni.
«Cotte»
inefficaci...
Il 9 ottobre 1923,
Marta scrive a sua nipote di 14 anni: «Due righe per dirti di stare
attenta a non prendere reumatismi, poiché guarda sulla cartolina
come siamo conciate: tutte nude, avvolte in una coperta, ci infilano
nel forno. Ieri una signora ha detto al signore che scalda il forno
di mettere un pezzo di legna in meno; ma ne aveva già messo uno in
più. Un calore spaventoso! Ero trasformata in fontana. Vedi, mia
cara, che non è un sogno? Ma quando lo si fa per guarire... Il male
è ben peggio. Il forno non fa male, ma ho un po' male al
cuore».
E’ una delle poche
lettere in cui Marta si lascia andare a confidenze sulla sua
sofferenza, anche se in termini velati e pieni di umorismo... Il 13
ottobre scrive di nuovo a sua nipote: «Ti dirò che oggi
ho preso l'ottava "cotta". Penso che presto sarò cotta a
puntino». Il 16 ottobre - perché, decisamente, scrive spesso a
sua nipote Marcella - è piena di speranza: «Penso di andarmene
verso la fine della settimana. Sto meglio, ne sono felice».
Il giovedì 17 ottobre,
con una lettera a degli zii, conferma l'uscita, pregandoli di non
«rispondermi perché non sarò più qui». E aggiunge, in
previsione del matrimonio di sua sorella Alice, nel 1924: «Vedo
che il lavoro non manca per seminare il grano. E’ sempre un grosso
affare, ma penso che vi sbrigherete per andare a nozze. Quel giorno
andremo a ballare; zio vi impegno! Non dimenticatelo!».
Marta dovette lasciare
Saint-Péray il 19 ottobre 1923. Era guarita? La nipote che ricorda
il suo ritorno a Chàteauneuf-de-Galaure, ne dubita: «Parti per
Saint-Péray con un bastone, ma ritornò che non camminava più».
Preziosi incontri
Se il risultato medico
non fu brillante, il soggiorno a Saint-Péray fu forse decisivo
per l'evoluzione di Marta. Incontrò persone ragguardevoli. Fece
amicizia con una certa signora Delatour, di Saint-Claude,
nel Giura, e soprattutto con una contessa (?) dell'Ardèche, che, in
seguito, verrà spesso a visitarla, almeno fino al 1936, a
Chàteauneuf-de-Galaure. Il suo arrivo alla Plaine, su una
macchina nera guidata dall'autista, non passò inosservato ai
vicini. Si chiamava signora Dalboussière o d'Alboussière?
È un mistero che non siamo riusciti a chiarire. Ad ogni modo,
pare che questa signora abbia parlato a Marta della passione di Gesù.
E Marta risentì quella chiamata a condividere le sofferenze del
Cristo crocifisso che aveva già sentito scoprendo quel libro di
pietà in fondo ad un baule.
Secondo padre Perrier,
di Saint-Uze, Marta avrebbe persino avuto una rivelazione a
Saint-Péray, ma l'avrebbe rifiutata, lottando per resistere alle
esigenze di Dio. Infatti, nella lettera indirizzata agli zii,
Marta esprime una grande voglia di ballare...
Ma, simultaneamente,
dovette pregare. Tra le conoscenze che fece ancora a
Saint-Péray, segnaliamo un prete di Angers, cappellano
dell'ospedale, che la invitò a venire nella sua città per farsi
curare. Non ci andò mai, ma di lui conserverà una frase che disse
ad un'amica: «Stringo tra le braccia la croce del Signore». Fu
forse quella frase che segnò la svolta spirituale di Marta.
Un po' mistica, ma sempre birichina!
Quando tornò a
Chàteauneuf-de-Galaure, lo stato delle sue gambe non era
brillante. Siccome non può più recarsi a Saint-Sorlin, da sua
sorella Celina, è quest'ultima che viene a trovarla, la domenica
pomeriggio, e la trova seduta nella sua poltrona, fuori, quando
fa bello, o in cucina. Nell'estate 1924, una amica si ricorda di
averla persino vista nei campi, mentre pascolava le bestie vicino ad
un albero.
D'altronde, in quella
stagione, Marta andava a farsi curare i denti a Saint-Vallier,
da Rivot. Il suo gabinetto era sopra la farmacia, nella via di
Verdun. «Mio marito - spiega la vedova - si installò come dentista
nell'agosto o settembre del 1924. Non ricordo se il padre di
Marta la condusse col carretto, o se venne col treno che collegava
Saint-Vallier al Grand Serre. Ricordo però bene che camminava col
bastone. In seguito, mio marito andò a curarla a casa sua. Nel 1945
andai a vederla a Chàteauneufde-Galaure. Mi chiese se la sala
d'aspetto non fosse cambiata. Si ricordava il nome dei miei figli. Mi
disse che, quando aspettava il suo turno, si divertiva a far
palline di carta colle pagine strappate dalle riviste e, dalla
finestra, le tirava ai bambini! "Ma - diceva - avevo cura di
rimettere a posto la copertina sulle pagine strappate"».
Cede il suo posto in un pellegrinaggio a Lourdes
Arriviamo al 1925. Il
29 gennaio scrive a sua nipote Marcella per augurarle buon
onomastico. Non dice niente della sua salute ma, se confrontiamo la
scrittura con quella delle lettere scritte da SaintPéray, il
cambiamento ci sorprende. Prima la scrittura era ancora
contrassegnata da abitudini scolastiche.
«In quell'epoca, nella
sua vita c'era tensione e ambivalenza. Non aveva ancora scelto
il suo orientamento: i valori del cuore, le attività o le
aspirazioni spirituali... Rimaneva ancora molto sottomessa ai
principi convenzionali che le avevano inculcato, non osando
affrancarsi dal modello imposto».
Ora la scrittura è
molto più formata, «segna una evoluzione importante, c'è un
distacco dal vissuto precedente ed una scelta... La scrittrice
accede ad una maturità tale che preferisce ponderare e misurare a
mente fredda, piuttosto che lasciarsi trascinare dai sentimenti o
dall'entusiasmo». Ed infatti l'amica che l'aveva vista l'estate
precedente è commossa. «Che cambiamento in lei! E’ nella sua
poltrona vicino alla finestra della cucina, con le imposte
socchiuse, e mi interroga su tutto: sulla mia vita, su ciò che
faccio, interessandosi a tutto con una comprensione particolare».
Sappiamo, dalla
sorella, che, a partire dal 1925, Marta mangia pochissimo,
accontentandosi di qualche frutto o di un po' di liquido. Nel
mese di agosto avrebbe dovuto partire per Lourdes, come
ammalata, con il pellegrinaggio diocesano di Valence. Il suo
parroco le aveva annunciato la bella notizia nel mese di giugno:
disponeva di un posto e glielo offriva. Marta seppe, poco dopo, che
un'altra ammalata di Chàteauneuf desiderava recarsi a Lourdes.
Il parroco ne era seccato! L'ospitalità diocesana non poteva
offrirle un secondo posto. Allora Marta diede subito il suo. Gli
occhi del reverendo Faure dovettero cominciare ad aprirsi: chi era
dunque colei che accettava di fare un simile sacrificio? Chi era
dunque colei che rinunciava alla speranza di una guarigione
miracolosa per amore di un'altra ammalata di Chàteauneuf?...
Quella rinuncia, che
significava un amore estremo, contrassegnava senza rumore ma in modo
decisivo la svolta spirituale di Marta.
La lotta interiore,
cominciata a Saint-Péray di fronte alle esigenze di Dio,
terminava con l'abbandono incondizionato di se stessa.
Ormai tutto è pronto
per l'ora della consacrazione.
E dopo questa rinuncia
la Madonna colmerà Marta di grazie. Lo dirà lei stessa ad
un'amica di Chàteauneuf.
Capitolo VI
15 OTTOBRE 1925: LA GRANDE DATA
Il Signore, che aveva
mandato Marta a SaintPéray, senza dubbio per incontrarvi
diverse persone suscettibili d'aiutarla nella sua ascensione
spirituale, le manda ancora, nel 1925, ma questa volta a
Chàteauneuf-de-Galaure, una ragazza che sarà la sua confidente: la
sig.na Lautru.
La visita delle sue amiche
Venendo da una famiglia
irreligiosa ed anticlericale, la sig.na Lautru s'era convertita
e fatta battezzare nel 1924. Si stabilì a Chàteauneuf come
ostetrica. Come mai questa nuova abitante sali così presto
alla Plaine? Fu chiamata da Marta, tramite sua madre: «Mia figlia
vuole vedervi e parlarvi». Marta chiese a lei e a due sue
amiche, sig.ne Plantevin e Bonneton, di tornare spesso. Le
conversazioni dovettero essere gaie, perché Marta era sveglia
di spirito, ma a tratti anche molto serie. Basti pensare che
Marta spiritualmente maturava molto, che la sig.na Lautru era stata
battezzata un anno prima e che in seguito sarebbe diventata religiosa
degli ospedali di Lione ed infine che la sig.na Bonneton sarebbe
diventata clarissa a Vals-les-Bains. La discrezione di ciascuna
ci lascia senza precisazioni al riguardo, ma sembra che Marta
non sia più la stessa...
Atto d'abbandono e d'offerta all'amore e alla volontà di Dio
In quell'anno 1925 in
cui Papa Pio XI proclamò Santa la carmelitana di Lisieux che
Marta amava molto, il 15 ottobre, ricorrendo la festa
dell'altra Teresa, quella d'Avila, la grande mistica, si
produsse l'avvenimento-chiave della vita di Marta: ella
offrì al Signore la memoria, l'intelligenza, la volontà, il
cuore, il corpo e tutte le sue facoltà.
Il suo atto d'abbandono
all'amore e alla volontà di Dio fu la risposta più totale al
comandamento «Amerai il Signore Dio tuo con tutte le tue forze, con
tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima». Di questo atto
d'abbandono non fu detto niente alla morte di Marta; i mass-media si
sono dilungati sulle stigmate. Eppure è impossibile capire la
vita di Marta, dal 1925 in poi, e le stigmate in particolare, senza
conoscere il segreto del suo cuore.
Bisogna leggere con
attenzione questo «atto di abbandono». Fu redatto da una ragazza di
23 anni, che terminò appena il ciclo delle elementari, che non seguì
un catechismo di perseveranza e che non ricevette una formazione
speciale, né in un noviziato né in sessioni successive.
Ciò che il testo
contiene dice molto sull'intensità della vita spirituale di
quella contadina, sulla qualità di quell'anima fremente, mentre «le
prove la colpiscono in ogni parte», come scrive lei stessa. Il 15
ottobre 1925 è la grande data della sua vita: Marta ha dato tutto a
Dio e tutto ha accettato da lui.
Le due versioni
Per il fatto che Marta
strappò il primo testo della consacrazione (credendo di morire)
e ne scrisse un secondo, possediamo due versioni diverse. Il
vocabolario della seconda è più mistico, più impregnato
di amore vibrante. Per esempio, nell'introduzione del secondo
testo, Marta scrive: «Dio eterno, Amore infinito, Padre mio, avete
chiesto tutto alla vostra piccola vittima ». Invece, nel primo,
scriveva semplicemente: «Signore, mio Dio, avete chiesto tutto alla
vostra piccola serva».
Il secondo testo dà
anche più spazio alla Madonna, in uno stile non sentimentale ma
rigorosamente teologico: «Mi abbandono umilmente a voi, attraverso
Maria, la mia diletta mamma. Maria, o madre cara, datemi voi stessa a
Gesù; offrite voi stessa a Dio questa piccola ostia, affinché si
degni di venire ad abitare in lei, riposare in lei come nel suo
tabernacolo. Per abitarvi avrà solo la mia miseria, ma troverà
almeno la riconoscenza, la fedeltà, la generosità, l'abbandono
e l'umile e gioiosa fiducia per indennizzarlo, consolarlo,
glorificarlo, rallegrarlo nel suo Sacro Cuore e dargli delle anime in
unione con voi, cara mamma».
Riproduciamo qui il
primo testo, quello del 1925, ricopiato dal padre Perrier, parroco di
Saint-Uze, il confratello a cui Faure aveva chiesto aiuto per
occuparsi di Marta.
Il primo testo
«Signore, mio Dio,
avete chiesto tutto alla vostra piccola serva: prendete dunque e
ricevete tutto. In questo giorno mi do a voi senza riserve e
senza indietreggiamenti. O Amato dell'anima mia, voglio voi, solo voi
e per amor vostro rinuncio a tutto.
O Dio d'amore, prendete
la mia memoria, con tutti i suoi ricordi, prendete la mia
intelligenza e fate che essa serva solo alla vostra maggior gloria;
prendete tutta la mia volontà, l'anniento per sempre nella vostra;
no! mai più ciò che io voglio, o dolcissimo Gesù, ma solo ciò che
voi volete; dirigetela, guidatela, santificatela: ve
l'abbandono. O Dio d'ogni bontà, prendete il mio corpo con tutti i
suoi sensi, la mia mente con tutte le sue facoltà, il mio cuore con
tutti i suoi affetti.
O adorabile salvatore,
siete l'unico possessore dell'anima mia, con tutto il mio essere.
Ricevete l'immolazione che ogni giorno ed ogni ora vi offro in
silenzio. Degnate gradirla, cambiatela in grazie e benedizioni per
tutti quelli che amo, per la conversione dei peccatori e la
santificazione delle anime.
O Gesù, prendete il
mio piccolo cuore che sospira e chiede di essere per voi solo;
tenetelo sempre nelle vostre potenti mani, affinché non si abbandoni
e non si riversi su alcuna creatura. Signore, prendete e santificate
ogni mia azione, ogni mia parola, ogni mio desiderio. Siate per
l'anima mia il suo bene e il suo tutto. A voi la do e
l'abbandono.
Vi prego d'accettare la
mia offerta e sarò felice e fiduciosa. Ahimè! È ben poco lo so, ma
non ho niente di più; amo la mia estrema bassezza che mi ottenne la
vostra misericordia e le vostre paterne sollecitudini.
Mio Dio, conoscete la
mia fragilità e l'abisso infinito della mia miseria. Se un
giorno dovessi essere infedele alla vostra volontà, se dovessi
retrocedere dinanzi alla sofferenza e alla croce e disertare il
vostro cammino d'amore, fuggendo il tenero appoggio delle vostre
braccia, vi scongiuro, fatemi la grazia di morire all'istante.
Scusatemi, Sacro Cuore del mio Salvatore, scusatemi per il dolcissimo
nome di Gesù, per i dolori di Maria, per l'intercessione di San
Giuseppe e per il vostro amore nel fare la volontà del Padre vostro.
O Dio dell'anima mia! O
sole divino! Vi amo, vi benedico, vi lodo, mi abbandono a voi. Mi
rifugio in voi. Nascondetemi nel vostro seno, perché la mia
natura freme sotto il peso delle crudeli prove che mi circondano. E
sono sempre sola!
Amato mio, prendetemi
con voi. E’ solo in voi che voglio vivere, per morire in voi solo».
Si sarà notato il
passaggio particolarmente significativo della volontà di Marta
di abbandonarsi alla volontà di Dio:
«Se dovessi un giorno
essere infedele alla vostra sovrana volontà, se dovessi retrocedere
dinanzi alla sofferenza e alla croce e disertare il vostro
cammino d'amore, fuggendo il tenero appoggio delle vostre braccia, vi
supplico e vi scongiuro, fatemi la grazia di morire all'istante».
Qui il nostro essere
freme. Ogni commento diventa superfluo.
Ecco che comincia il
calvario di Marta Robin.
Capitolo VII
«VEDETE LA MIA
POVERA PICCOLA»
«Vi scongiuro, fate
del vostro corpo un'ostia viva, santa e gradita a Dio». (S. Paolo)
Ancora una grave malattia
Appena un anno dopo
aver fatto l'atto di abbandono alla volontà di Dio, Marta si
riammala gravemente. È il 3 ottobre 1926, prima celebrazione
della festa di S. Teresa di Lisieux, canonizzata l'anno
precedente.
Il dr. Aristide
Sallier, di Saint-Uze (Dio solo sa quanti medici avrà visto in vita
sua) giunge alla Plaine e vi trova Marta in coma. «Non c'è più
niente da fare», dice semplicemente.
Padre Faure sostituì
dunque il medico e dette a colei che chiamava la sua parrocchiana
l'unzione degli infermi. La riceveva per la seconda volta. Ogni
giorno ci si aspettava che morisse. Il coma durò tre settimane.
Apparizione di Santa Teresa di Lisieux
Mentre la maschera
della morte ne alterava già i lineamenti, Marta beneficiava di tre
apparizioni di Santa Teresa. La carmelitana le rivelò che non
sarebbe morta, ma che avrebbe prolungato la sua missione nel
mondo intero. Marta lo confidò poi a padre Finet, aggiungendo
in tono scherzoso: «La birichina mi ha tutto lasciato per
dopo». Queste battute di spirito sono la prova migliore della
salute mentale di Marta.
«Mi pare di essere
solo una piccolissima cosa nelle braccia di Dio e che rimarrò
tale fino alla morte». Dopo la sua morte furono scoperte pagine di
diario in cui descriveva le sofferenze sopportate nel primo
semestre 1927.
«Da qualche giorno sto
meglio e posso rimanere alzata la maggior parte della giornata, ma
non posso pensare né applicarmi a qualcosa di manuale. Inoltre
mi è impossibile il minimo movimento senza essere aiutata dalla
mia devotissima mamma.
Mi resta solo l'uso
delle gambe (almeno in parte) e delle braccia, benché queste ultime
siano molto impacciate. Tuttavia ringrazio il buon Dio per tutto
ciò che mi dà e, in modo particolare, perché mi lascia ancora
l'uso degli arti, almeno per la consolazione dei miei cari e per
i piccoli servizi che posso ancora fare. Che non me ne serva mai che
per Lui e con Lui solo! Nondimeno mi sento schiacciata, moralmente
e fisicamente. Tutto m'angoscia e m'abbatte... Non so più
reagire: fiat!... Ma ecco che ho detto molto, troppo, di questo
povero io. Sarebbe meglio soffermarmi su tutto ciò che il
Signore fa ad ogni istante nell'anima mia e per l'anima mia...
...L'anima mia è immersa e come trasportata verso la Gerusalemme
d'amore e la potenza dell'attrazione e dell'ispirazione di Dio
sembra volermi assorbire interamente in Lui. Ciò mi fa
paura!... Sono così sola, spiritualmente e moralmente e,
tuttavia, sento che devo abbandonarmi a Lui, senza riserve.
Fiat! Ho bisogno di dirlo molto spesso questo "fiat"
che mi unisce a Gesù e a Maria, mamma amata, e che consuma la mia
immolazione. Mi pare di essere solo una piccolissima cosa nelle
braccia di Dio e che rimarrò tale fino alla morte... Non so ciò che
vuol fare di me, ma voglio tutto. Tutto è bene quel che viene da Dio
e quel che Lui vuole da noi. Si, mi va bene tutto. Tutto è
intimamente caro all'anima mia perché è Lui che lo vuole; è
Lui che dirige tutto. Mi rifugio nel suo Cuore, unita a Maria,
che amo tanto, e non ne esco più. So che Lui non mi scaccerà» (2
marzo 1927).
Quindici giorni dopo
aggiunge:
«Sperimento quanto è
dolce amare, anche nella sofferenza, direi, anzi, soprattutto nella
sofferenza. Essa è la scuola incomparabile del vero amore... Essa
è il linguaggio vivo dell'amore e la grande educatrice del
genere umano. Si impara ad amare e si ama veramente solo nella
sofferenza e attraverso la sofferenza, poiché essa s'edifica
non nelle delizie umane della vita presente, ma nello
spogliamento e nella rinuncia di se stessi, sulla croce.
Un cuore dove il dolore
non ha impresso le sue piaghe sanguinanti non può respirare
liberamente l'aria vivificante e santificante delle cime e del cielo.
Ogni ascensione si nutre di un dolore superato. Salire è superare
tutto e superarsi sempre... È dare tutto, santificare tutto per
Dio e per amore» (17 marzo 1927).
«Navigo nell'azione
di grazie»
La sofferenza di Marta
si trasforma, a poco a poco, in gioia pasquale: «Alleluia,
Alleluia! Posso infine amarlo con tutto il cuore, amarlo senza
misura, Lui, il mio Signore e mio Dio, realmente presente e vivo in
me! Adesso non temo più le sue grazie d'amore, le sue molteplici
tenerezze di questi ultimi tempi. Navigo nell'azione di grazie e
nell'amore dei veri figli di Dio! Pene, timori, la stessa debolezza,
l'impotenza di fare qualcosa... tutto scomparso e divenuto
facile da sopportare, da quando ebbi l'immensa gioia di
comunicarmi, vicino alla cara mamma che assisteva la mia comunione»
(2 maggio 1927).
Siccome sta un po'
meglio, Marta ritorna nella sua poltrona. Come al solito, ricama e
prega. Ben presto, però, sarà di nuovo costretta a restare seduta
sul letto. «Nel giugno 1927 - narra una sua amica d'infanzia,
sig.ra Boulord - andai a trovarla perché ero guarita e avevamo
scommesso che la prima a guarire sarebbe andata a trovare l'altra.
Marta era paralizzata ma continuava a ricamare».
Il primo ottobre 1927
altra apparizione di S. Teresa. Marta aveva bisogno di conforto?
Mangiava solo qualche confetto acidulo che le veniva offerto dai
visitatori.
Altra paralisi:
Marta non mangia più
e perde il sonno
25 marzo 1928, Marta è completamente paralizzata
alle gambe. D'ora in poi non scenderà più dal letto. È nella
camera vicino alla cucina, che dà sul cortile. E’ tutta
raggomitolata in una posizione molto scomoda; perciò, il 2
luglio 1928, scrive a sua cugina, sig.ra Caillet, perché le ordini
un divano da 600 franchi: «Vorrei lo schienale alto 45-50 cm. a
causa dei reni ammalati; largo 90-80, non più stretto,
soprattutto a causa delle gambe ripiegate. E’ quel che mi occorre.
Vorrei che gli si mettessero anche quattro rotelle...». Il
divano in questione dovette arrivare qualche giorno o qualche
settimana dopo. Marta vi rimarrà fino alla morte.
Come se la paralisi non
bastasse, ecco che Marta non mangia più per niente. Questo
straordinario fenomeno, che troviamo in altri mistici,
cristiani, induisti o mussulmani, si chiama inedia. Dal 1928 al
1981, anno della morte, Marta assorbi solo l'ostia, che prendeva una
o due volte alla settimana. Del resto, l'ostia entrava in lei come
aspirata, senza alcuna deglutizione. Marta non poteva prendere
altro. Già all'inizio dell'anno, quando sua madre le portava
una tazza di caffè, la rimetteva subito. La signora Robin gemeva:
«In che stato si trova la mia piccola»; e papà Robin piangeva:
«Eppure non ha fatto niente di male!». Faceva pietà, mi diceva
un'amica d'infanzia di Marta.
Marta non ha dunque più
funzioni di assimilazione e di non assimilazione ed ecco che
perde anche il sonno. Non le resta più niente. Per i medici la
totale perdita di sonno e ancor più straordinaria dell'inedia.
Non si entra in simile stato senza tormenti. Pare che, in questo
periodo, padre Betton venne a ridare la pace a Marta. Fu allora
che la Madonna cominciò a moltiplicare le apparizioni. Cosa le
diceva la mamma celeste? Marta rimase molto discreta al
riguardo, ma il fatto delle apparizioni fu confermato dalla sorella,
síg.ra Serve.
- Ve l'ha detto Marta?
- No, è stata nostra
madre. Diceva: «La Madonna appare a Marta nella sua camera, ma
io quando ci vado non la vedo».
- Accettavate questo o
lo consideravate uno scherzo?
- In famiglia era
accettato... Oh! mia madre faceva del suo meglio per curare
Marta.
- Cosa le diceva la
Madonna?
- Non so. Ma so che mia
madre m'ha sempre detto che la Madonna le appariva. Padre Finet ne sa
probabilmente di più.
Padre Faure non viene più a vedere Marta
Marta era anche aiutata
dalle visite di padre Faure, che le portava spesso la comunione.
Si faceva accompagnare da due chierichetti, come si faceva allora.
Ma poi le visite cessarono. Come mai? Marta si era resa conto che le
visite del sacerdote seccavano suo fratello Enrico, che spesso
mormorava: «Cosa viene a fare qui questo prete?». Fu così che, per
evitare storie, Marta, senza dare spiegazioni, chiese a padre
Faure di non venire più. Questi non capiva perché la sua
parrocchiana gli giocasse questo tiro. Ne soffrì molto: sofferenza
che, d'altronde, uguagliò quella di Marta, che si vide privata
dei sacramenti.
Marta dovette anche
soffrire per il fatto che i suoi, nonostante i loro sforzi, si
sentivano incapaci di alleviarle, almeno un po', le sofferenze. Se lo
lascia sfuggire nella lettera, scritta a sua nipote il 21
settembre 1928: «Mamma era stanca la settimana scorsa, il cambio di
temperatura le rimuove la bile. Adesso sta meglio, per fortuna!
Povera piccola mamma! Com'è duro non poter dare neanche un
bicchier d'acqua a coloro che si ama. E sarebbe così consolante
poterli sollevare un po'».
Ma siccome Marta non è
una piagnucolona, sa tutto quel che succede e cerca, anzitutto, di
far piacere agli altri, non comincia la lettera con quella
confidenza; prima aveva scritto: «Se il tempo rimane bello,
credo che la vendemmia sarà bella... Ricamo il tuo lenzuolo che sarà
magnifico! T'assicuro che te lo invidiano! Ti ricamo anche una
preziosa busta, che ti piacerà».
Il 2 novembre 1928 entra nel terz'ordine francescano
Nell'anno 1928 due
cappuccini di Lione, padre Bernardo-Maria e padre Giovanni,
predicarono una missione a Chàteauneuf-de-Galaure. Naturalmente,
chiesero a padre Faure se in parrocchia c'erano ammalati da
visitare. Padre Faure parlò loro di Marta che purtroppo non poteva
più visitare! I due missionari andarono alla Plaine. Al ritorno
dissero al parroco che aveva una santa in parrocchia e gli chiesero
di riprendere ad andare regolarmente dai Robin. A Marta
proposero di entrare nel terz'ordine francescano. Era il 2 novembre
1928, data attestata da suor Maria-Teresa, che entrava in
convento subito dopo.
Il demonio le rompe due denti
Ma il «grappino»,
come diceva il curato d'Ars, cioè il nemico di cui parla il Vangelo,
cominciava ad infuriarsi. «Hai notato il mio servo Giobbe? Non ha
eguale sulla terra» - aveva detto il Signore a Satana. Ammettiamo
che avesse potuto fare la stessa osservazione a proposito di
Marta. Satana fu così adirato della sua entrata nel terz'ordine
dei cappuccini che la sera si manifestò.
La sig.ra Robin, che
dormiva nel letto vicino, disse: «Non so cosa accadde, ma Marta
gettò un urlo spaventoso!».
«Il diavolo - ci disse
un confidente di Marta - le dette un pugno, rompendole due denti. Me
lo disse lei stessa».
- Avete visto i denti
rotti? - Sì, sì!
Lo stesso aneddoto fu
narrato dal padre Perrier.
Marta perde l'uso delle mani
La paralisi alle gambe
era sopraggiunta per la festa dell'Annunciazione del 1928. Alla
festa della Purificazione, il 2 febbraio 1929, Marta perde l'uso
delle mani. Le aveva offerte al Signore, che la prese in parola.
Addio alle lettere e al ricamo!
«Tenni ancora, per
almeno otto giorni, il ditale in mano, poi dissi alla mamma: - Adesso
puoi togliermelo».
Per niente schiacciata
da questa nuova paralisi, Marta impara a scrivere con la matita in
bocca! Non mi stupirei se avesse divertito quelli che la
circondavano con dei capolavori di calligrafia! Ma, attenzione:
questa ragazza di 27 anni riuscirebbe quasi a farci dimenticare la
sua sofferenza. Eppure bisogna rendersi conto dello stato in cui
è ridotta: braccia e gambe la inchiodano sul divano; le gambe
sono ripiegate in parte. Marta è praticamente raggomitolata,
con un cuscino dietro la schiena ed un altro cuscino per tenerle
le ginocchia; il braccio destro poggia in grembo ed il sinistro
è allungato. Non si può muovere. Quando madame Barnard (figlia di
Ferdinando Robin) viene ad aiutare mamma Robin a cambiare le
lenzuola, Marta soffre tormenti solo a sfiorarla. Oltre a questa
scomoda posizione e all'immobilità, Marta rimase senza bere, né
mangiare, né dormire, per più di cinquant'anni.
«O Gesù, avete fatto
di me la vostra piccola vittima - diceva il 12 luglio 1929 -
come voi stesso avete voluto essere la mia e quella di tutti gli
uomini. Tutta la mia vita, o Dio, è vostra. o croce, o croce
del mio salvatore... O scala divina che unisci la terra ai cieli, tu
sei l'altare sul quale devo consumare il sacrificio e consumare
la mia vita, nell'immolazione e nell'amore».
«Devo seminare
l'Amore»
Così, dunque, lungi
dal ribellarsi come Giobbe, lungi dall'inacidirsi, Marta pensa che,
crocefissa col Cristo, potrà entrare in ciò che oggi chiameremmo
una missione d'evangelizzazione. Nella notte dal 31 dicembre al primo
gennaio 1930, scrisse (si potrebbe persino dire che cantò) il
suo progetto in versi, perché, da allora in poi, si esprimeva tanto
bene in versi quanto in prosa:
«Devo seminare
l'Amore, seminare la carità,
Amare, essere
innamorata di bontà, dolcezza, giustizia,
Essere contenta,
amante del grande sacrificio,
Sì, esserlo per
tutti, esserlo con tutto il cuore,
Con la volontà di
sedare, di confondere l'errore,
Senza mai separare
il fuoco dalla fiamma.
Voglio,
dimenticandomi, far amare Dio alle anime,
Dandomi per tutti,
senza posa e senza contare,
Dare, dare sempre
senza voler raccogliere».
Capitolo VIII
I SEGNI DEL CROCIFISSO
«Le spine che
intrecciarono incoronarono di sangue la sua fronte.
L'hanno ingiuriato,
vilipeso... Chi potrebbe dormire?» (Uff. delle letture del Sabato
Santo)
E’ pazzesco, lo
sappiamo già un po'!, quel che Marta soffrì dall'anno
successivo alla sua consacrazione. Anche se si ha la fede, anche se
si pensa che la sofferenza è una «grande educatrice», come
diceva Marta, essa rimane pur sempre qualcosa che lacera il
fisico ed il morale.
Negli anni 1926-1930,
Marta ha un bel fare riflessioni umoristiche, ma è schiacciata
come un chicco di grano sotto la macina. Condividendo la
Passione di Cristo, entra nell'angoscia di Colui che sudava
grumi di sangue nel giardino degli ulivi.
«L'anima mia è
nello sgomento: è notte in me»
Tutto questo è
tuttavia difficile da afferrare, perché Marta non si lascia
andare facilmente ai suoi stati d'animo. Eppure, in qualche rara
lettera dettata alle sue amiche, si indovina la sua profonda
sofferenza. In una lettera, scritta nella quaresima del 1930 a
suor Maria-Teresa, detta con delicatezza: «Spero, sorella carissima,
di non essere indiscreta scrivendovi in questo santo tempo di
penitenza...». Le manda una novena di messe da dare al cappellano e
conclude: «Pregate per me, affinché io sappia più che mai
soffrire per la salvezza delle anime. Soffrire per far amare Gesù».
E firma: «La vostra povera piccola amica».
Il sabato santo, 19
aprile 1930, Marta ha un grido che è l'eco dei gemiti di Cristo
in croce. «Tutto crolla - geme in un'ardente preghiera - l'anima mia
è nello sgomento. Lascerete sprofondare nella tormenta la
vostra piccola vittima? Inviatemi un debole raggio della vostra
luce, fate scivolare sulla mia anima una debole scintilla per
ravvivare il mio coraggio. O Gesù, non abbandonatemi. In me è
notte».
Poi Marta si riprende e
spiega:
« Non voglio morire
per essere liberata dalla lotta, dalla sofferenza. No! E’-
l'eternità che mi attira. E’, Gesù che mi tende le braccia;
desidero la patria che ho intravisto».
Non è dunque per un
voltarsi indietro, perché non ne può più, che Marta è tentata.
Anzi! Marta geme nell'oscurità, come un ammalato che aspetta il
giorno con impazienza.
Questa notte mistica
raggiunge quella di San Giovanni della Croce. Più il mistico
intuisce Dio, più prende coscienza della propria piccolezza. Per
questo, Dio le pare irraggiungibile. «Se un'anima percepisse
una sola volta il più debole raggio della bellezza di Dio,
vorrebbe morire una volta per vederlo per sempre, ma avrebbe
vivissima gioia nel sopportare mille volte la morte più crudele, per
vederlo un solo istante» (S. Giovanni della Croce).
«Tutto m'insanguina -
prosegue Marta in questo senso - ma accetto con ardore di
continuare il mio pellegrinaggio. Oh! non vorrei cambiare il mio
martirio per tutte le gioie e le ricchezze del mondo. Ho un solo
desiderio: salvare le anime amando Dio sempre di più».
Pregate «perché non
si veda quanto soffro» «Tutto m'insanguina». Ritroviamo
quest'espressione in una lettera scritta il 14 maggio 1930 alla
clarissa di Vals-les-Bains. La segretaria benevola di Marta è Ester,
una sorella della clarissa, quindi Marta è in molta confidenza.
Ricordando che lei stessa aveva pensato di entrare al Carmelo, Marta
dice: «Vi sono molto unita, di giorno come di notte, e sono molto
felice che mi accettiate come compagna durante il Mattutino. Spero
che la reverenda madre tolleri, nella sua gaia colombaia, questa
nuova piccola colomba. Mi sento molto piccola, ma mi faccio
ancor più piccola perché non mi si scacci». E soggiunge: «Vi
chiedo di pregare, suor Maria-Teresa, affinché non si veda
quanto soffro, né i miei né attorno a me. Chiedo continuamente
questa grazia alla Madonna e, affinché continui ad esaudirmi,
vi prego di chiederla con me».
Un giorno, prima della
partenza della sua compagna per il convento di Vals-les-Bains,
Marta le aveva confidato: «Brucio: è come se mi immergessero
in una grande tinozza».
«Lesa» di non
poter essere carmelitana
Poi, annuncia a suor
Maria-Teresa che un'altra di Chàteauneuf, Dionisia Chancrin, prende
l'abito delle clarisse nel monastero di Crest, col nome di suor
Maria-San Giovanni.
Marta ne condivide la
gioia, ma precisa: «Sapete che, con Ester, ci sentiamo «lese»?
Quando la nostra piccola Dionisia, alla fine di novembre, mi
disse addio ed io le dissi che dal cielo sarei andata a
trovarla, glielo promisi, non per la vestizione, ma per dopo.
Dicendoglielo, avevo una debole speranza che il nostro Amato Bene
sarebbe venuto a prendermi prima... Ma sono ancora su questa
fredda terra, dove soffoco e dove, da qualsiasi parte mi volti,
m'insanguino. Eppure è per amore, per la più grande gloria di
Dio, per le anime, per la parrocchia, per la nostra nobile Francia,
per l'anima dei sacerdoti. Com'è bello il nostro sacerdozio, che si
esercita nell'ombra e nel silenzio, nascosto come Gesù
nell'ostia». Questa volta si firma: «Vostra piccola sorella
in San Francesco», poiché fa parte del terz'ordine
francescano.
«Vuoi essere come
me?»
Fine settembre 1930.
Gesù appare a Marta e le dice: «Vuoi essere come me?». Come poteva
rifiutare, lei che aveva fatto atto di abbandono e di offerta
all'amore di Dio?
«Ecco la vostra
serva». Possiamo pensare legittimamente che la risposta di
Marta sia stata come quella della Madonna. E, come Maria, non poteva
prevedere ciò che le sarebbe successo.
Nei primi giorni di
ottobre, forse il 4, festa di San Francesco, Gesù Crocifisso
riapparve agli occhi di Marta. Dopo un istante, prese le sue
mani paralizzate dal 1929 e le aprì. Allora un dardo di fuoco,
partito dal costato di Gesù, si divise in due, colpendole i piedi e
le mani; un terzo dardo la colpi in pieno petto. Sanguinò alle mani,
ai piedi, al costato. In seguito Gesù mise la corona di spine
sul capo di Marta che, martoriata fino al globo degli occhi, sanguinò
abbondantemente. La corona di spine le lasciò sulla fronte come
una specie di nervatura viola, la quale scomparve completamente
alcuni mesi più tardi, su richiesta di Marta.
Infine, intervenendo
un'altra volta, Gesù caricò Marta del legno della croce. Marta si
sentì slogata. Questa imposizione della croce, col suo enorme peso,
si riferisce al lamento del salmista: «Hanno slogato tutte le
mie ossa».
I signori Robin,
vedendo Marta insanguinata, ne furono sconvolti. Secondo Marta, «la
mamma si rese conto che tale stato veniva da Dio e dall'accettazione
di Marta della sua volontà». Avvertirono però il dottor Aristide
Sallier, di Saint-Uze. I suoi studi in medicina non l'avevano
evidentemente preparato ad un tale fenomeno. Volle subito far
bere la paziente. Impossibile, il liquido usciva dal naso. Il medico
si sentì disarmato. Un giorno, ammettendo la sua impotenza, disse a
Marta: «Signorina, preghi per me».
Il venerdì che seguì
questa stigmatizzazione Marta iniziò a vivere la Passione di
Gesù.
Dai dintorni vengono a pregare alla Plaine
Nei dintorni corse la
voce di questo avvenimento e, ben presto, alcune donne salirono alla
Plaine, come si sale a Gerusalemme, per incontrare Marta, pregare
con lei, unirsi a lei come intermediaria nella Passione di Cristo.
Gli stessi reverendi,
Faure e Perrier, furono i primi ad organizzare le visite. Anche i
bimbi della parrocchia vengono a vedere Marta. Un'anziana donna
di Chàteauneuf narra che lei faceva parte del patronato, organizzato
dalle suore di San Giuseppe di Rochetaillée, e che il reverendo
Faure accompagnava il suo piccolo mondo da Marta. «Ci andavamo
diverse volte all'anno, ragazzi e ragazze. Ricordo che mamma
Robin, rotondetta e sorridente, ci riceveva con molta gentilezza.
Andavamo nella camera, a destra della cucina. Una volta Marta ci
parlò di S. Teresa del Bambino Gesù. Aveva un quadro, che
rividi poi nella camera mortuaria».
Un'altra persona di
Chàteauneuf narra che mamma Robin diceva a Marta: «Non sei
stanca, piccola mia, con tutte queste vísite? ». Si stupiva che ce
ne fossero tante. Ma papà Robin, come del resto suo figlio Enrico,
ne era esasperato: «Lasciatela tranquilla» - diceva ai
visitatori. Si arrivò al punto che, dal 1931 o 1932, occorreva
l'autorizzazione dello stesso padre Faure per salire alla Plaine.
Perché padre Faure? Semplicemente perché sarebbe stato troppo
difficile, ai Robin, rifiutare di entrare in casa loro. E così,
naturalmente, si installò un rituale: si aspettava il proprio turno
in cucina, in compagnia della mamma di Marta, la cui pazienza era
ammirevole, poi si entrava, si discorreva, si offriva qualche
regalo (non si trattava di arance, come al solito, perché Marta non
mangiava né beveva, ma altre cose che Marta spediva poi ai
poveri e ai missionari). Una persona di Saint-Uze che le fu vicina,
ricorda i primi pacchi che confezionarono e le lettere che Marta le
dettava. Qualche volta Marta le chiedeva di inumidirle le labbra.
Un'altra persona narra la sua visita, avvenuta nel periodo 1930-31.
«La mamma la chiamò,
per informarla della mia presenza.
"Perché mi hai
fatto ritornare? Era così bello lassù! " - rispose Marta.
Quindi mi parlò, senza
fare allusioni ed io non osai far domande. Ma nonostante la mezza
oscurità, vidi sulla sua testa gocce di sangue asciutte, come si
vedevano sul suo letto di morte. Alla fine della visita dicemmo una
decina di ave Maria».
Giunta a una nuova soglia
Subito dopo il
soggiorno a Saint-Péray, nel 1923-25, avevamo notato la
maturazione di Marta. In questo 1930 oltrepassa una nuova soglia.
«Ecco la fine del 1930
- dice la sera del 31 dicembre. Il mio essere ha subito una
profonda e misteriosa trasformazione. Anni di prove, anni di
dolore. Anni di grazie e di amore. L'attuale mia felicità, sul
mio letto d'inferma, è profonda e durevole, perché divina...
Penso alla strada percorsa dall'inizio della malattia. Da questo
pensiero risulta amore e riconoscenza verso Dio, così
misericordioso e buono. Che lavoro! Che ascensione Dio ha
operato in me! Ma quanti balzi al cuore, quante agonie della
volontà per morire a se stessi!».
Una passione che si rinnova ogni settimana
Le visite che si
moltiplicano, le vedute di gloria non devono far dimenticare che
Marta continua a soffrire ogni giorno, senza tregua e sempre di più,
fino al 1981. È difficile pensare che questo calvario sia
durato cinquant'anni.
Marta soffre nel corpo
e, quando si vuole cambiarle la biancheria, nonostante tutte le
precauzioni, non si riesce ad evitarle grandi dolori. I
genitori se ne rendono conto! Marta soffre di non poter mangiare
né bere, non perché ne avesse fatto il voto, come si è scritto a
volte, ma perché non ha deglutizione. L'unico suo nutrimento è
l'Eucarestia. Ne vivrà per cinquant'anni.
Marta soffre nel vedere
che i genitori non possono far niente per lei e ne sono tanto
addolorati. E soffre, soprattutto, perché il peccato del mondo è
odioso e perché l'Amore non è amato. Questa sofferenza
spirituale giunge al parossismo ogni venerdì, quando Marta rivive la
crocifissione, durante tutti quegli anni, finché vivrà, dal giovedì
sera, l'agonia di Cristo. «Vuole rivivere in me la sua agonia, fino
all'ultimo respiro e alla discesa agli inferi, fino alla
risurrezione, benché io rimanga in croce per continuare a
vivere questa vita di crocefissa che Egli vuole per me, che
vuole da me per la sua gloria e per la redenzione delle anime del
mondo intero».
Padre Finet narrò
diverse volte il patetico dialogo che precedeva l'entrata
nell'agonia:
- Padre, sapete che
oggi è giovedì?
- Si, figlia mia.
- Sapete padre che
questa sera...
- Si, figlia mia.
- Padre, non ce la
farò.
- Sì, figlia mia.
E, progressivamente,
nel corso della giornata del giovedì Marta sentiva avvicinarsi
l'orrore della Passione. La lotta si svolgeva contro l'inferno
scatenato, contro il demonio che le sbatteva la testa sul
mobile vicino al divano. Marta versava lacrime di sangue.
Col Cristo del
Getsemani portava il peccato del mondo. Ne era oppressa, terrificata;
diveniva peccato. A volte diceva a padre Finet:
«Non avvicinatevi, vi
sporcherei». Gemeva a non finire.
Pregava. Non pregava
più Gesù, gli era così strettamente associata da divenire una
cosa sola con Lui, ma pregava il Padre. Si aveva l'impressione che
fosse Gesù agonizzante, nel giardino degli ulivi. Diceva:
«Allontanate da me questo calice», oppure: «Padre, sia fatta la
vostra volontà». I tormenti si protraevano nella notte dal giovedì
al venerdì sera. Marta riviveva tutte le fasi della Passione, che si
concludeva il venerdì sera nella pace e nella fiducia in Dio:
«Padre, nelle vostre mani rimetto il mio spirito». In quel momento,
dopo un profondo sospiro, la testa cadeva all'indietro, a
sinistra. Era tutto finito. La si sarebbe creduta morta. Era in
estasi. Il sabato rientrava in sé, o la domenica, o anche solo il
lunedì (negli ultimi anni), nel tardo pomeriggio.
Rapporto medico
Non mancano le persone
che hanno visto, prima, dopo e durante la guerra, Marta agonizzare o
entrare in estasi. Il reverendo Perrier le asciugò la fronte
insanguinata con un fazzoletto, conservato come una reliquia dalla
famiglia Sassoulas di SaintUze. «Vidi il sangue colarle dagli
occhi», mi diceva un'anziana insegnante libera di Saint-Uze.
Senza contare tutti i testimoni del Focolare di Carità.
Ma le molteplici
narrazioni scompaiono, davanti ad un rapporto medico di 25 pagine,
inviato al Vescovado di Valence e a Roma. Il rapporto, richiesto
da mons. Pic fu redatto da tre medici di Lione, particolarmente
qualificati: il dottor Bansillon, professore alla facoltà, il
dottor Ricard, chirurgo e professore degli ospedali, e il dottor
Dechaume, primario della clinica neuropsichiatrica. È
auspicabile che si possa un giorno accedere a questo rapporto.
Mons. Marchand,
l'attuale vescovo di Valence, aveva chiesto un altro esame medico,
che doveva aver luogo nella primavera 1981. Ma Marta morì in
febbraio.
Tutto questo mostra che
la Chiesa, attraverso la voce dei suoi responsabili, ha preso sul
serio il caso della stigmatizzata della Dróme. Aggiungiamo ancora
un fatto. Un neurologo di Parigi, il dottor Alano Assailly,
narra che si sforzò di convincere Marta ad andare in clinica per
qualche mese, affinché lui potesse convincere i suoi colleghi della
realtà dei fenomeni straordinari da lei vissuti. «La stessa
vostra missione può comportare anche questo tipo di testimonianza»,
le disse. Marta, dopo un silenzio, rispose: «Dottore, ho una
sola regola: l'obbedienza. Se il mio direttore, il mio Vescovo o il
Papa decidesse di ricoverarmi, direi subito di si. Ma credete
veramente che il problema sia dove voi lo cercate?». Era la
domanda giusta, perché, per utili che siano i rapporti medici per
dissipare illusioni, rischiano di far dimenticare l'essenziale, cioè
il senso profondo delle sofferenze di Marta. Né la radiografia, né
l'esame clinico possono rivelare un mistero d'amore.
Cerchiamo dunque di
capire ciò che il medico, in quanto tale, non può capire.
Gesù, Figlio di Dio,
s'è fatto uomo; è venuto tra gli uomini. Li ha amati ma,
condividendo la vita degli esseri che ha creati liberi, ha corso
il rischio di ricevere il loro rifiuto d'amore, la loro cattiveria,
il loro furore. Amare è rendersi vulnerabili, esporsi a soffrire. A
causa di questo, il Cristo, nato poveramente in una grotta, finirà
arrestato, deriso, ferito, colpito a morte su una croce, rigettato
dagli uomini. Cristo non cercò la croce per amore della croce.
Egli amò. E l'amore,
nell'umanità peccatrice, passa attraverso la croce. Tutti i
discepoli di Gesù che credono seriamente in lui, lo seguono sulla
stessa strada, imitano il Cristo dal di dentro, vogliono la
condivisione come lui, essere buoni, servire; e quello li porta
alla croce. Quando si cerca di amare, si direbbe che l'inferno ci si
rovescia addosso, si accanisce a maltrattarci e a calunniarci.
Ricordiamo il libro di Giobbe: «Dio disse a Satana: Hai notato il
mio servo Giobbe? Non c'è eguale sulla terra. Ma l'avversario
replicò: se però venisse lesa la sua pelle e le sue ossa,
scommetto che ti maledirebbe. E il Signore disse all'avversario,
sia!».
Quando dunque si ama,
il cuore è inevitabilmente afflitto e, a volte, anche il corpo.
È la sfida di Satana. Non lottiamo solo contro la carne e il
sangue, ma contro la potenza delle tenebre, come dicono il Vangelo e
San Paolo. I martiri ne sanno qualcosa. Più si ama, più si vuole
fare la volontà di Dio, più si rischia di soffrire.
A qualche discepolo
privilegiato, Dio ha dato la possibilità di vivere nella propria
carne le stesse sofferenze di Cristo. È il caso, per esempio, di San
Francesco d'Assisi, di Santa Caterina da Siena, Teresa Newman
ecc. fino a Marta Robin. «Non posso concepire l'amore - diceva
Carlo de Foucauld - senza un imperioso bisogno di imitazione». «Vuoi
essere come me?», diceva Gesù a Marta, la quale non si limitò a
guardare il Cristo in croce ma soffrì con Lui, condividendo la sua
Passione. Ha letteralmente completato nella sua carne ciò che
mancava alla Passione di Cristo, a beneficio del suo corpo, che
è la Chiesa.
Marta, subendo ed
offrendo il suo martirio, ci ricorda che è l'intero corpo che deve
essere crocefisso: la testa (il Cristo) ed i membri (la Chiesa).
Certamente, non tutti riceviamo stigmate nella carne, ma ognuno
ha la propria croce. «Ogni esistenza è un Calvario - disse Marta -
e ogni anima è un Getsemani, dove ognuno deve bere in silenzio il
calice della propria vita».
È questo il messaggio
di Marta Robin.
«In un momento in cui
la tiepidezza invadeva il mondo, per riaccendere nei nostri cuori il
fuoco del tuo amore, hai voluto, Signore, stampare le stigmate
della tua Passione sul corpo di San Francesco d'Assisi: Nella tua
bontà, accordaci di portare sempre la nostra croce e di
convertirci in modo da portare frutti»
(Orazione del messale
romano per la festa delle stigmate di San Francesco d'Assisi).
Capitolo IX
PREGHIERE NELLA GIOIA E NELLA CROCE
Per Marta, il periodo
che va dal 1928, data della paralisi delle gambe, al 1937, è
ricco di preghiere luminose. La più bella e la più ricca
teologicamente è, senza dubbio, quella rivolta alla Santa
Trinità, nel 1937. «Una meraviglia», diceva un domenicano a padre
Finet.
Preghiera alla santa Trinità
«O Trinità santa ed
eterna, vi adoro e vi lodo in voi stessa e nelle vostre opere;
nell'unità della vostra essenza, nell'uguaglianza delle vostre
persone, nella profondità della vostra scienza, nell'immensità
della vostra sapienza, nella larghezza della vostra provvidenza,
nella bellezza dei vostri misteri, nell'opera delle vostre
opere, che fa Dio uomo e una vergine la madre di Dio».
E dopo aver ammirato a
lungo l'incarnazione di Gesù, per entrare «in società e
comunicazione» con gli uomini, Marta termina la preghiera con una
triplice adorazione:
«Adoro, o Dio, Padre
Onnipotente, l'amore infinito che vi ha spinto a dare vostro Figlio,
l'Amato in cui metteste l'eterna vostra compiacenza, il vostro
Unico al mondo, perso dal peccato originale e dai molteplici peccati
attuali. Adoro questa divina Carità, che si è manifestata nella
scelta dei mezzi usati per l'Incarnazione.
Non volete ricorrere
alla vostra onnipotenza, ma fate appello alla vostra saggezza divina,
alla vostra bontà, alla vostra misericordia, al vostro amore.
Potevate esserci più vicino seguendo altre vie? Chi, poi, potrà
intravedere quanto la vergine Maria vi è cara e preziosa?
L'avete creata ed
arricchita dei più grandi doni della grazia, per farne la degna
madre del vostro diletto Figlio. Nell'ordine della natura, della
grazia e della gloria, Ella è il capolavoro delle vostre divine
mani. Nell'ordine dell'esistenza delle cose create non avete e
non ordinerete mai creatura più grande, più nobile e più perfetta
della Vergine benedetta.
La vostra Incarnazione,
o Verbo eterno e divino, è il punto centrale del mondo, preparato da
tutta l'eternità e le cui conseguenze vanno oltre il tempo e
abbracciano l'eternità.
Vi adoro, voi che avete
accettato e ricevuto dal Padre la suprema missione di
riscattarci, di salvarci, di liberarci dalla schiavitù del peccato,
di riabilitarci, di restituirci la vita della grazia, persa col
peccato, e di incorporarci nella vita eterna nella gloria.
Vi adoro, o Gesù,
mentre vi accingete a spogliarvi degli splendori della vostra
gloria, per diventare uno di noi!... E che dire, o Verbo divino, dei
vostri rapporti con Maria al momento dell'Annunciazione?...
Volete essere il Figlio di questa vergine senza macchia, così come
siete l'Unico Figlio di Dio, al fine di darci una madre presso di
voi.
Avete Dio per padre e
volete avere Maria per madre per darla a noi tutti! Con la vostra
potenza e l'infinita vostra bontà la rendete degna madre di Dio,
perché sia realmente madre degli uomini. Le obbediste umilmente
nella vostra vita terrestre e, coronando l'opera vostra, le
accordaste già, nei cieli, la gloria che corrisponde alla sua
dignità sacra. Vi adoro, Spirito di potenza, di luce, di amore,
vivente legame del Padre e del Figlio, operante in Maria
l'augusta opera dell'Incarnazione. Era giusto che quest'opera d'amore
fosse attribuita all'Amore. Con quale perfezione, o divino
Santificatore, arricchiste l'anima immacolata dell'augusta Madre di
Dio, ornandola di ogni virtù, di ogni grazia, di ogni dono.
Vi adoro, Spirito
d'amore, che miracolosamente formaste in Maria il corpo del divino
Salvatore! Mi inchino dinanzi a questo grande mistero; dinanzi a
questa meraviglia il mio cuore è muto d'ammirazione. "Et
concepit de Spiritu Sancto". Tutto il mio essere vibra di
riconoscenza».
Marta adora così, in
modo molto appropriato e in un'atmosfera mariale che le è propria,
le tre Persone divine di cui le si era parlato al catechismo,
nella formula molto concisa di allora: «Il mistero della Santa
Trinità è il mistero d'un solo Dio in tre Persone».
Ma dove, Marta, avrà
attinto quella scienza che la fa parlare, a lungo e nell'adorazione,
delle relazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e
della loro comunicazione con la creazione?... Con quale dono, se non
quello dello Spirito Santo, questa incolta contadina può
esprimere con ampiezza, abbondanza, pietà ed entusiasmo e senza un
errore teologico, simili verità? Qui pensiamo, spontaneamente e
a nostra confusione, alla preghiera di Gesù: «Ti benedico,
Padre e Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste
cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli»
(Luca 10,21).
Marta è un'orante. La
preghiera è l'essenza della sua vita. Abbiamo già avuto
l'occasione di leggere il poema «Devo seminare l'Amore». Fu il
regalo che ella offrì al Signore, nella notte dal 31 dicembre
1929 al 1° gennaio 1930. Ci sembra necessario soffermarci
qualche pagina ancora su altre preghiere di Marta, per aver
meglio coscienza dell'intensità della sua vita spirituale e per
scoprire verso che direzione è orientato il suo cuore.
Nella croce e nella gioia
Le preghiere di Marta
non sono degli esercizi di letteratura; le dettava, o erano annotate
dalle sue amiche, mentre pregava. Queste preghiere sono il canto di
ringraziamento o il grido di fiducia d'una donna crocifissa tutti i
venerdì, che non poteva mangiare, né dormire e che piangeva
lacrime di sangue. Infatti Marta non sanguinava solo ai piedi, alle
mani e al costato, ma versava anche lacrime di sangue, tutte le
notti. Lo attesta padre Finet. Ma la gioia non abbandona l'anima sua.
Anche le grida di dolore sono permeate d'una profonda gioia.
Il 14 febbraio 1930,
per esempio, quand'è totalmente paralizzata, pensa solo a
ringraziare il Signore:
«Bevvi l'amaro calice,
bevvi fino all'ebbrezza, cercando il dolce rifugio del tuo cuore.
Tu solo sei la forza ed
io l'umile debolezza, non abbandonarmi, sono tua o Signore!
Sono la tua preda o
Gesù, nella croce e nella gioia, nella prova crudele e nel vivo
dolore;
è dolce soffrire
quando si è a te immolati e si ha, come sole, il grande fuoco del
tuo cuore. So dove vive l'Amore, ho visto la fiamma brillare, per il
tuo cielo, o Gesù, voglio cogliere fiori, tormenti e dolori
m'insanguinano l'anima, ma sempre ti dico grazie, mio Salvatore».
Quasi tutti i versi
parlano di sofferenza, dolore, tormenti, eppure Marta,
l'insanguinata, rimane tranquilla e nel giubilo; è, nello
stesso tempo, nella croce e nella gioia. Parole che sembrano
contraddittorie, ma che nel fondo della sua anima, s'accordano
perfettamente.
L'8 ottobre 1930, poco
dopo aver ricevuto nella carne i segni del Crocefisso, Marta medita
sul suo stato; è la prima a stupirsene e, come Maria, a non
capire...
«Tutto diventa sempre
più misterioso per me... Ma che bisogno ho di sapere? Non tocca a
me, né ad altri, sondare i segreti di Dio. Devo solo adorare,
accettare, benedire e abbandonarmi pienamente alla Provvidenza.
Se il Signore mi vuole ancora così, è perché ho ancora tanto
bisogno di santificarmi per salvarmi. Mangerò ancora il pane del
dolore. I perché di Dio sono dei misteri che non devo
penetrare. Adorare dietro il velo. O vergine Maria, fa' che ogni
giorno sia più docile, più paziente, più semplice. Che io sia
ignorata e dimenticata. Non chiedo che Dio faccia in me cose
visibili, ma che faccia di me un'umile figliola sua, dolce ed umile
di cuore».
Da questa lettura, è
chiaro che l'orgoglio non è in Marta, che non tenta di vantarsi
delle stigmate. «Signore mio e mio Dio, m'abbandono a voi. Mi volete
qui: ci resto e non tenterò di uscirne ma, se mi volete altrove, lo
voglio pure io. So, o mio Gesù, che sempre e dappertutto mi
conserverete per voi.
L'amore modella i
cuori, l'amore purifica, il dolore pacifica.
O mio Gesù, soffra
pure la tua piccola vittima; ma che ti ami con tutto l'amore che le
hai dato. O Gesù, proteggimi sempre. Ti appartengo; dammi la
pazienza e la calma in tutto».
C'è bisogno di
commentare questa preghiera sconvolgente e, tuttavia, così
equilibrata e serena? Non si sa cosa maggiormente ammirare:
l'abbandono di Marta alla volontà di Dio, la sua umiltà o la sua
fede?
Un altro cantico delle creature
Ma i tormenti che
«l'insanguinano» non rallentano la sua voglia straripante di
lodare il Signore, come dimostra questa poesia del 22 giugno 1931,
che ella scrisse, non certo in un prato fiorito sotto il cielo
blu..., ma afflitta dalla prova consueta:
«Vi benedico, Signore,
per i vostri benefici immensi, per i doni, le meraviglie e tutta la
vostra bontà, per i tesori d'amore, di pace e di speranza, che
spandono la fiducia nei miei giorni di prova.
Vi benedico, Signore,
ad ogni alba nascente, per i buoni e cari genitori che m'avete dato,
per i fratelli, le sorelle, la mia intera famiglia, per la cara casa
dove ci siamo amati.
Vi benedico, Signore,
per gli affetti profondi e puri che l'immenso amore vostro ha messo
sulla mia via.
Vi benedico, mio Dio,
in tutte le vostre creature, l'anima delle quali è la gloria dei
celesti giardini.
Vi benedico, Signore,
nella natura intera, che rivela il vostro nome, la vostra gloria e
grandezza, per l'immenso cielo blu e la leggera brezza, e il sole
radioso che fa sbocciare i fiori.
Vi benedico, Signore,
per le prove e per la vita, quando verso di voi tenderò la mia
stanca mano, mormorando sottovoce "vi amo e vi prego",
portatemi via, Signore, fatemi questa grazia!».
Qui dobbiamo smettere
di citare le preghiere di Marta; sarebbero infatti necessari parecchi
libri per pubblicare tutto ciò che si è scritto ascoltando Marta.
Ma questi estratti sono senz'altro sufficienti per capire come Marta
non s'appartenga più; ella si lascia fare e vuole solo
abbandonarsi a Dio, nella gioia che ci confonde e ci supera.
Le visioni di Marta
Le visioni di Marta non
hanno niente in comune con le elucubrazioni delle veggenti di
professione. Risultano essere esatte, ce lo assicurano quelli
che hanno letto i suoi testi e li hanno confrontati con i paesaggi
biblici che Marta descrive senza essere mai stata in Terra
Santa. Ma il loro principale interesse è di indicarci dov'è il
cuore di Marta. Ella descrive i luoghi dove Gesù passò, perché
ama seguirlo, passo passo.
«Anzitutto il lago di
Tiberiade, dove, così spesso, lo seguii sui flutti. Là tutto
resta segnato dal sigillo dei suoi miracoli e della sua dolce e
divina maestà.
Poi, Magdala, là dove
Maria Maddalena, ebbra di piaceri umani, volse il cuore a Gesù ed ai
suoi piedi trovò finalmente riposo. Più avanti, c'è Betsaida
e Corazim, prima patria di Pietro e Andrea. Ad est il Giordano
attraversa il lago in tutta la sua lunghezza e trasmette a tutte
le acque del mondo la virtù datagli da Gesù, l'Agnello divino che
toglie i peccati del mondo. Quelle rive, percorse centinaia di volte
dai divini passi di Gesù, quei flutti calmati con una sola sua
parola, quei fiori solitari tra le rovine, quelle pietre, quelle
rocce, quei gigli della valle, quelle messi ondeggianti che Egli
guardava narrando, alla folla raccolta, parabole ed insegnamenti...
».
Quanti pellegrini
recatisi sulle rive del lago di Genezareth, dopo aver udito guide
qualificate, sarebbero capaci di farne una simile descrizione e
in un'atmosfera così piena di gioia?
Più commoventi ancora,
dice padre Finet, sono i quaderni sulla Passione di Gesù, vista e
vissuta da Marta. È talmente impregnata del Vangelo ed unita a
Cristo crocefisso, che ne condivide i segreti. Dà anche dettagli non
contenuti nel Vangelo, ma che degli archeologi hanno confermato. Ella
ci dice anche che Gesù preparò sua madre alla Passione. A proposito
dell'Eucarestia, Marta dice che il Corpo di Cristo si riferisce al
primo comandamento ed esprime la consacrazione totale di Gesù
alla volontà del Padre suo. Nello stesso tempo, il Corpo di Cristo
esprime, in modo concreto, il secondo comandamento, che consiste
nell'amare coloro che ci circondano e nel condividere con essi.
Quando parla di Gesù
che sale al Calvario, ce lo descrive «come un panno intriso in un
bagno di sangue», al punto che quel pagano di Pilato fremette
d'orrore. Dipinge la prigione di Caifa (attualmente S. Pietro in
Gallicantu), dove Gesù, secondo lei, soffrì molto. Descrive la
crocifissione, non come un letterato, ma come un profeta, dicendo ciò
che vede.
Consacrazione delle vergini
Marta non avrebbe
parlato così bene dell'immolazione di Cristo, se lei stessa non
fosse stata immolata come lui.
Come se la
consacrazione del 1925 non bastasse, come se le stigmate del
Crocefisso non significassero abbastanza il suo abbandono alla
volontà di Dio, ecco che, nel 1930, Marta fu ammessa, dal padre
Bernardo-Maria, alla consacrazione delle vergini.
Questa fu, in un certo
senso, la consacrazione ufficiale, fatta dalla Chiesa, della
consacrazione di Marta del 1925.
Per questa immolazione,
questa morte a se stessa, Marta volle portare una camicia da
notte ricamata ed un velo in testa. Era bella come una bambina
che fa la prima comunione ed accettò di lasciarsi fotografare.
Questo episodio della consacrazione delle Vergini, ci pare
particolarmente significativo dell'atteggiamento di Marta,
ancorato alla croce e alla gioia.
Siccome Marta è
totalmente e gioiosamente disponibile, la venuta del Regno potrà
avverarsi...
Capitolo X
PICCOLA STORIA D'UNA GRANDE SCUOLA
...Perché il Regno di
Dio è simile ad una semente, piccola all'inizio. Tale è
l'opera ispirata da Marta. Vedremo, che nonostante «l'inattività
fisica», come ella dice in una preghiera del 10 novembre 1930,
malgrado l'handicap che l'inchioda sul letto, in una oscura
cameretta, la sua vita sarà singolarmente feconda. «Tutto
serve quando si ama, e riconosco che, nella sua infinita tenerezza,
il mio adorabile Signore fa in modo che io possa trarre profitto
da tutto. Non me ne stupisco: è opera di Dio, non mia».
Un «folle» progetto!
A partire dunque dal
1930, data in cui fu ammessa alla consacrazione delle vergini,
Marta Robin inizia ad accennare al reverendo Faure, suo parroco,
un progetto che le sta a cuore: aprire una scuola cristiana per
ragazze, in parrocchia. Marta, teniamolo presente, volle troppo
bene alla sua direttrice ed alle insegnanti dell'allora scuola laica
da lei frequentata, perché agisca, adesso, spinta da un
qualsiasi risentimento. L'unica cosa che conta per lei, è
l'educazione cristiana, che nessuno ha il diritto di chiedere a una
scuola laica. Ma, in questo, Marta tiene conto delle realtà del suo
paese? Il reverendo Faure dovette spendere tutte le sue energie per
convincerla che Chàteauneuf-de-Galaure era troppo influenzato
dal «libero pensiero», che poche sarebbero state le famiglie
che avrebbero mandato i loro figli a questa scuola, che lui stesso
aveva molto lavoro e non aveva la vocazione di gestire scuole,
ecc... Quando Marta parlò di questo suo progetto al dentista,
signor Rivot, aggiunse: «Il signor parroco dice che non ha soldi».
Ma Marta non si dette
per vinta. Per due anni continuò ad insistere nella sua richiesta da
parte della Madonna, al punto che il reverendo Faure, sconcertato,
mise al corrente tutti i parroci del cantone, diciassette in
tutto, per sollecitare i loro pareri. Tutti dissero che il
progetto era una follia; tutti, tranne il reverendo Perrier,
parroco di Saint-Uze, che da quasi dieci anni consigliava il
reverendo Faure nel suo ministero a fianco di Marta: «Se è
Marta che te lo chiede devi farlo subito». Dopo l'apparizione
di Gesù risuscitato a Maria Maddalena, succede, a volte, che
gli apostoli ed i sacerdoti debbano, nella Chiesa, tener conto
del parere delle donne!...
Acquisto e restauro del «castello»
Il reverendo Faure si
mette dunque a cercare un locale per questa scuola libera e, per
caso, viene a sapere che il «castello» è in vendita. Quella
vecchia costruzione del XVI secolo, che dominava il villaggio,
celava una balera, aperta dal signor Pistole poco dopo la guerra
del '14-18, ma funzionava male. E ,siccome il signor parroco aveva un
sacrosanto orrore delle balere in generale, dovette finalmente
trovare un ardore rinnovato nel progetto di scuola libera...
Tale scuola avrà almeno il merito d'impedire l'apertura di una nuova
balera!
Padre Faure fece
acquistare il «castello» da due laici: i signori Genthon de
Murieils e Perrossier, uno dei suoi parrocchiani che aveva una
cascina sulla strada d'Huterives. Temeva, infatti, che l'asta
salisse alle stelle se si fosse presentato lui stesso alla
vendita! Siccome il tetto era in cattivo stato e le pietre cadevano
dai muri, i signori Gaillard, Cheval e Montagne si misero ad aiutare
Perrossier per i lavori necessari: selciato, sgombero,
pavimentazione del primo piano, rinnovo e trasformazione delle
camere in aule, ecc... Un giovane seminarista, Auric (futuro
parroco di Chàteauneuf), si incaricò di mettere l'elettricità.
Apertura ed evoluzione della scuola parrocchiale
Il 12 ottobre 1934, le
signorine Deleure, di Cleon d'Andran (Dróme), e la signorina Michel,
aprivano la scuola. Gli alunni non erano certo troppi: sette in
tutto; tre del paese, di cui due nipoti di Marta, Susanna e Marta
Brosse, e quattro della vallata.
L'anno successivo, le
alunne erano diciotto. In seguito, la progressione sarà
stupefacente; giudicate voi stessi:
- ottobre 1937: 35
alunne e apertura d'un corso supplementare
- ottobre 1938: alunne
46
- ottobre 1939: alunne
69
- ottobre 1940: alunne
74.
In seguito viene aperto
un collegio secondario, che nel 1942 aveva già 41 collegiali!
Ottobre 1943: alunne
108.
Ma, piuttosto di
continuare una fastidiosa lista di statistiche, diciamo semplicemente
che, nel 1981, Chàteauneuf-de-Galaure si vanta di due collegi
secondari e di un collegio agricolo, che totalizzano un migliaio
d'alunni circa.
Come spiegare questa
inaudita evoluzione in tale regione se non con le sofferenze di Marta
e le sue lacrime di sangue?
«La mia missione è
di farlo amare, straripando d'amore...»
È impossibile seguire
la sua vita giorno per giorno, ma una cosa è certa: Marta non
pensava solo a pregare per la scuola parrocchiale. Se quella
realizzazione le era molto cara, tuttavia Marta non
circoscriveva la sua preghiera ad essa soltanto. Ad immagine
del Cristo crocefisso, di cui è la fedele discepola, prega e
soffre per la salvezza di tutti gli uomini.
D'altronde, nel 1933,
Pio XI aveva aperto a Roma l'anno del giubileo, per contrassegnare il
19.mo centenario dell'istituzione dell'Eucarestía e della morte di
Gesù in croce. E, nel 1934, il Papa estese il giubileo all'intera
Chiesa. Marta vive a quel ritmo e scopre che il regno di Gesù
comincia sempre dalla croce, che lo si voglia o no! «Quando
sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Così ella sa
sempre meglio che, essendo vittima col Cristo, è ad un «posto
d'onore», come dice nella preghiera del 22 ottobre 1936. La sua
missione è dunque di pregare, offrire, amare per il mondo
intero, senza restrizioni.
«No, non so più
niente, se non amare, ho più bisogno d'amore che d'aria per
respirare, sento sempre il cuore battermi nel petto, ma sospiro la
divina alleanza che deve trasferirmi nella celeste dimora».
Sottolineiamo, di sfuggita, la precisione teologica della nostra
poetessa: è l'alleanza divina che opera il trasferimento al cielo,
non sono i meriti di Marta. La salvezza è gratuita, è dono di Dio.
Dice ancora Marta, 1'8
ottobre 1930:
«Del mio Dio sono il
calice; la mia missione è di farlo amare straripando d'amore, devo
dunque afferrare tutte le occasioni per spandere luce e verità».
Tutte le occasioni?...
È per questo che, dal 1930, le visite aumentano sempre di più. La
signora Pousse, originaria di Saint-Uze, è una delle numerose
persone che sono salite alla Plaine. Dice: «Ho visto Marta per la
prima volta nel 1935. Mi aveva mandato un'amica. Ricordo bene
che aveva gli occhiali e s'interessava a tutto quello che le si
diceva. Ma a quelli che andavano solo per consultarla diceva: "non
sono una maga"».
La creazione della
scuola parrocchiale è significativa della vocazione missionaria
di Marta, che però non si limita ad essa. Marta non conosce
frontiere. Già il 29 settembre 1930 pregava così: «Che
importa l'ora del raccolto, purché il bene si faccia, che
dappertutto la fede fiorisca e che in ogni cuore s'accenda la viva
fiamma dell'amore».
Ma come far fiorire la
fede nel mondo intero? Un'altra occasione le sarà data
prossimamente: non se la lascerà sfuggire...
Capitolo XI
10 FEBBRAIO 1936: VISITA DI PADRE FINET A MARTA
Quando Marta fa delle ordinazioni...
Il 18 marzo 1935, Marta
detta una lettera di ordinazioni ad un libraio cattolico di
Valence, che era andato a trovarla qualche giorno prima. Da una
banale lettera, traspare l'anima di Marta. Ella chiede che le
siano inviate delle immagini, formato grande, del Sacro Cuore e
di Santa Teresa del Bambino Gesù ed un piccolo Cristo per culla, ed
aggiunge: «Ma non il solito Cristo da culla dove c'è una spessa
croce bianca, con sopra una testa d'angelo. No, voglio un vero
Cristo, mi fa orrore il modello che vi ho descritto». Aveva troppo
il senso della croce per angelizzare il Cristo crocefisso...
Terminando, parla del
«suo unico tesoro ed anche il vostro, che è il sacro deposito
dell'amore e della gloria del cuore dell'amato e divino Gesù. Che io
l'ami. Lui, l'Amore infinito, che anche voi l'amiate e che
entrambi lo facciamo amare molto: questo ci basta, aspettando il
cielo... presto».
Interessante questa
lettera di ordinazioni, ma avrà minori conseguenze di altre due
ordinazioni dello stesso anno.
Anzitutto, una signora
di Lione, signora Luciana Gorse, che, dal 1933, visita regolarmente
Marta, le parla un giorno di sua cognata, la signora Andreina Relave,
che dipingeva con talento. Molto interessata a quella notizia,
Marta suggerisce che la pittrice le mandi un quadro del Sacro Cuore,
che fu fatto il 29 ottobre 1935.
Ritornando a Lione, la
signora Gorse parla della stigmatizzata di Chàteauneuf alla
signorina Blanck, santa persona che si spendeva per le missioni, la
quale sale, a suo turno, alla Plaine. Doveva essere nel dicembre
1935. Marta le disse: «Vorrei un quadro della Madonna per la
scuola di Chàteauneuf, ma non vorrei un quadro come se ne vede
dappertutto...». Un'altra volta, precisa: «Vorrei un quadro
di Maria, Mediatrice di ogni grazia».
«Ce l'ho - risponde la
signorina Blanck - ho una magnifica incisione a Lione; la farò
acquarellare, l'inquadrerò e ve la manderò».
Prima di ripartire per
Lione, la signorina Blanck si ferma dal reverendo Faure, che le
confessa di sentirsi sempre più «sorpassato» dal caso Marta;
tanto più, che quest'ultima le aveva esposto un altro progetto
«per la gloria del Padre, l'espansione dell'intera Chiesa e la
rigenerazione del mondo con l'insegnamento cattolico religioso».
Il povero parroco, che aveva tergiversato due anni dinanzi al
progetto della scuola libera in parrocchia, era spaventato all'idea
di questa «cosa monumentale», a dimensione cosmica, e confidava
alla signorina Blanck: «Bisognerebbe trovare qualcuno in grado di
sostituirmi presso Marta».
La signorina Blanck,
riparte dunque per Lione con un duplice dovere: mandare a Chàteauneuf
il quadro di Maria Mediatrice e trovare qualcuno per sostituire padre
Faure. Di tutto questo, ne parla alla superiora del Cenacolo,
una comunità religiosa installata presso Fourvière.
Immediatamente, madre Scat ha un'idea: bisogna mandare il reverendo
Finet, che ha un'automobile e può dunque portare il quadro...
Ciò che donna vuole...
Chi era il reverendo Finet?
Chi è dunque il prete
in questione? Ordinato prete l'8 luglio 1923 dal cardinal
Maurin, dopo aver studiato a Roma, fu successivamente vicario a
Oullins e alla primaziale S. Giovanni di Lione, prima di
diventare vice-direttore dell'Insegnamento libero della diocesi.
Quando era alla primaziale, aveva molti contatti con la comunità
del Cenacolo, dove presentò il «Trattato della vera devozione
a Maria», secondo S. Luigi Grignion de Montfort, che fu
canonizzato nel 1947. Padre Finet fu così soddisfacente che lo
si pregò di continuare le conferenze anche dopo esser partito dalla
primaziale, quando, cioè, fu nominato all'insegnamento libero. Dieci
volte all'anno, per dieci anni, continuò a parlare del
trattato della vera devozione a Maria.
Quando madre Scat gli
chiese, a titolo di servizio, di recarsi a Chàteauneuf, il
giovane reverendo, a cui piace ricordare che fu battezzato un 8
settembre, festa della Natività di Maria, non sapeva ciò che
l'attendeva. Il mattino del 10 febbraio, dopo aver localizzato sulla
carta geografica Chàteauneufde-Galaure, dopo aver messo in
macchina il quadro per Marta, parte e, verso le 11, arriva nel
villaggio della Dróme. Saluta il parroco, pregandolo di consegnare
il quadro all'interessata.
- Volete vedere la mia
parrocchiana? - chiede il parroco.
- Chi è la vostra
parrocchiana? - Marta Robin.
- Ma chi è?
- Un'anima eletta.
Dovreste andare a vederla.
- Oh! anime elette ne
conosco molte, poiché confesso delle donne... Padre Faure
starnuti. Disse che Marta Robin usciva dall'ordinario. Padre Finet
finì coll'acconsentire e partì con l'auto, accompagnato da padre
Faure.
La storica visita del 10 febbraio 1936
Arrivano alla cascina
verso le 11,30. La mamma di Marta faceva scaldare la minestra. Anche
il signor Robin era in casa (morì poco tempo dopo, il 23 giugno
1936); padre Faure entra nella camera di Marta mentre padre Finet
siede al tavolo e toglie l'imballaggio del quadro. Dopo un'attesa che
gli sembrò lunga, padre Finet fu invitato a sua volta ad entrare
nella camera. «Marta - dice padre Faure - vuole che le portiate
voi stesso il quadro».
Padre Finet entra, un
po' emozionato, con l'intuizione che la Madonna guidi i suoi
passi. Marta ammira il quadro, fa una preghiera e chiede a padre
Finet di tornare al pomeriggio. "Suspens...". Il sacerdote
di Lione va a pranzare nella casa parrocchiale. È presumibile
che, a tavola, i due uomini parlarono a lungo di quella
parrocchiana diversa dalle altre.
Alle 14, padre Finet
ritorna alla cascina. La visita durerà tre ore e terminerà ai
primi vespri della festa delle apparizioni di Lourdes... Padre Finet
ha raccontato parecchie volte quei momenti, per lui indimenticabili.
Trascriviamo la sua narrazione, facendo la sintesi di parecchi
testi.
«Nella prima ora,
Marta mi parlò della Madonna, che chiamava la sua mamma
prediletta. Io, che facevo conferenze mariali, ero meravigliato del
modo con cui parlava della Madonna. Ne conclusi che entrambe si
conoscevano bene...
Nella seconda ora, mi
parlò dei grandi avvenimenti che si sarebbero svolti: alcuni
molto gravi, altri molto belli.
E mi disse praticamente
che una nuova Pentecoste d'amore e un apostolato laico,
avrebbero ringiovanito la Chiesa. Mi parlò a lungo di quello e
mi disse pure che il laicato avrebbe avuto un ruolo molto importante
nella Chiesa; molti saranno chiamati ad essere apostoli. Più
tardi, mi colpì il fatto che Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI
parlarono di una "primavera nella Chiesa o di una nuova
Pentecoste d'Amore", cose che Marta mi aveva detto nel
1936. Dicendomi del rinnovamento della Chiesa, mi annunciava il
Concilio ed aggiungeva che ci sarebbero diversi modi per formare
questi laici, e, specialmente, dei focolari di luce, di carità e di
amore. Non capivo bene cosa volesse dire. Allora disse: Sarà
qualcosa di assolutamente nuovo nella Chiesa, che non è ancora
accaduto. Saranno dei laici consacrati e non un ordine religioso. I
Focolari di Carità saranno diretti da un prete, il Padre, e da
laici impegnati. Ella disse che questi Focolari di Carità avrebbero
avuto un irradiamento ed una espansione nel mondo intero. Saranno una
risposta del cuore di Gesù al mondo, dopo la sconfitta materiale
dei popoli ed i loro satanici errori. Mi disse che, tra questi
errori, ci sarebbero stati il comunismo, il laicismo e la
massoneria. Questo me lo disse nel 1936, aggiungendo che un
intervento della Madonna avrebbe preceduto questi fatti.
Alla terza ora,
voltandosi dalla mia parte, disse:
- Reverendo, ho una
cosa da chiedervi.
- E cosa, signorina?
- Siete voi che dovete
fondare il primo Focolare...
- Io??? Ma non sono
della ne!...
- Che importa, poiché
Dio lo vuole!
- Ah! non ci avevo
pensato... Ma cosa fare?
- Predicare ritiri.
- Sì, dei ritiri di
tre giorni, cosa.
- No, la Madonna vuole
cinque giorni.
- Ah! E per chi saranno
questi ritiri?
- Per donne e ragazze.
- E cosa si farà
durante questi ritiri? Incontri, scambi?
- No, no, la Madonna
vuole il silenzio totale.
- E credete che possa
far tacere per cinque giorni delle donne e delle ragazze?
- Poiché la Madonna lo
vuole...
- Ah, non sapevo... Ma
come far conoscere questi ritiri?
- Se ne incaricherà la
Madonna. Gesù darà grazie straordinarie, non ci sarà bisogno
di fare pubblicità!
- E dove si faranno
questi
- Nella scuola delle
ragazze.
- Ma ci vorrebbero dei
letti, una cucina, chi farà quei lavori?
- Voi!
- E con che denaro?
- Non vi preoccupate;
la Madonna ci penserà!
- Quando bisognerà
predicare il primo ritiro?
- Il 7 settembre...
Ero come stordito. Le
dissi che ne avrei parlato ai superiori.
La sera del 1°
febbraio padre Faure venne a Lione con me, mentre padre Perrier (di
Saint-Uze) avrebbe portato la comunione a Marta il giorno dopo,
che era una festa della Madonna. Che avventura, che avventura! Ma
padre Faure era fremente di gioia!
L'11 febbraio dicemmo
la Messa a Fourvière, all'intenzione dei Focolari di Luce, di
Carità e di Amore.
Parlai dunque a mons.
Bornet, mio superiore, che mi disse: "Se ve lo chiede Marta,
bisogna accettare!".
Ne parlai al mio padre
spirituale, Alberto Valensin, gesuita specializzato in teologia
mistica, che mi disse: "Oh! Marta Robin, la conosco. Mi ci portò
mons. Pic non molto tempo fa. Rimasi tre ore con lei".
E che ne pensate?
chiesi. "Marta Robin è Caterina da Siena; non vi ingannerà
mai perché è di Chiesa! Farete tutto quello che vi dirà. Tutto,
tutto! Ed io sarò sempre con voi per aiutarvi e sostenervi, se
occorrerà. Quando vi attaccheranno vi difenderò...".
Dopo ciò mi restava
solo d'andare avanti! Andai da mons. Pic, vescovo di Valence, che mi
ricevette a braccia aperte. Ci siamo subito capiti ed egli benedisse
il progetto...».
Capitolo XII
NASCITA DEL FOCOLARE DI CARITA’: I PRIMI DUE RITIRI
Il mondo era in ebollizione
Non si può narrare la nascita del Focolare di
Carità di Chàteauneuf-de-Galaure senza situarlo nel contesto
storico: il mondo era allora in ebollizione.
Ricordiamo...
In Messico, già da
diversi anni, il dittatore Carranza aveva inaugurato un'era di
persecuzione contro la Chiesa: preti e religiosi venivano
espulsi o torturati a morte.
In Europa Pio XI
lottava con raro vigore contro il totalitarismo italiano e tedesco.
Quando, nei primi mesi del 1936, aprì l'esposizione mondiale
della stampa cattolica, dichiarò che il nazional-socialismo ed il
bolscevismo erano «nemici di ogni verità e giustizia».
Parecchi discorsi del
Papa svilupparono, quell'anno, la critica del comunismo
praticato in Russia: «negazione dei diritti dell'uomo e dei diritti
di Dio».
In Spagna, dal 14
luglio 1936, la guerra civile era sul più forte. Per trenta mesi il
paese visse giorni atroci... Una specie di terrore che fece
stragi nei due campi rivali. Dei preti perirono, non si sa quanti,
più di settemila secondo alcuni, più di diecimila secondo altri!
In Francia, infine, per
terminare questa rapida scorsa, dal mese di maggio di quello stesso
anno, le elezioni legislative avevano affidato il potere al Fronte
popolare. Le prime pagine dei giornali contenevano foto di
cortei, di discorsi rivoluzionari ed annunci di scioperi.
Nell'effervescenza generale, i cristiani si dividevano, non
sapendo bene che cosa dovessero temere di più: il
nazional-socialismo e il fascismo, o il comunismo. Ad ogni modo,
nella Dróme, dove dobbiamo ritornare per ritrovare Marta, la
percentuale dei comunisti era passata dal 5 al 19%, nell'arco
dal 1932 al 1936. L'aumento era però più accentuato nel nord della
regione, specialmente a Saint-Uze e a Saint-Vallier, dove un medico,
il dr. Luc, presidente della Lega dei Diritti dell'Uomo, aderiva
al partito comunista dopo un viaggio in U.R.S.S.
In breve, occorreva una
singolare dose di fede per credere che la Chiesa fosse in cammino
verso una nuova primavera...
Eppure è in pieno
fronte popolare che nel 1936 cominciarono, a Chàteauneuf-de-Galaure,
i lavori di trasformazione della scuola libera in casa per ritiri
spirituali. La gente del villaggio si mise all'opera.
Costruirono delle
camerette individuali per i futuri partecipanti ai ritiri; in esse vi
era un letto, un catino, una brocca ed un secchio. I
parrocchiani sistemarono pure la cappella, imprestando degli
inginocchiatoi in paglia appartenenti alla chiesa...
Primo ritiro
Il 7 settembre, giorno
previsto da Marta, cominciava il primo ritiro di Chàteauneuf,
predicato da padre Finet. Fra le 33 persone, venute non si sa come da
ogni parte, c'era un'insegnante della Crocerossa, sig.na Elena
Fagot, che diventò poi la direttrice della scuola primaria, e
una professoressa di filosofia, sig.na Mariangela Dumas, futura
direttrice della scuola secondaria. Possiamo citare anche la
signora Gorse.
Nonostante la povertà
dell'insieme, il ritiro andò molto bene e fu una vera
Pentecoste.
La sera dell'8
settembre padre Finet accompagna padre Faure, che porta la
comunione a Marta. Arrivando, ci fu un piccolo imprevisto. Quando il
parroco di Chàteauneuf si avvicinò per confessare, come al solito,
la «sua parrocchiana», questa volle padre Finet, che per la prima
volta chiamò «padre» invece di «signor reverendo». Padre Finet
quel giorno ricevette la paternità dei Focolari. Poi «il
padre», come lo si chiamerà d'ora in poi a Chàteauneuf, dette la
comunione a Marta.
Il giorno dopo padre
Finet ritorna alla Plaine con le signorine Fagot e Dumas. La
conversazione con Marta dura più di due ore. Alla sera di quel
memorabile giorno, narra un numero speciale del1'«Alouette»
del 1970, «il Padre e le due prime figlie, si sentirono riunite
nella stessa preghiera». Un nuovo Cenacolo sorgeva: il primo
Focolare di Carità, cioè non solo una casa di ritiri spirituali, ma
una comunità a immagine della prima comunità cristiana, che viveva
a Gerusalemme quando i discepoli di Gesù mettevano in comune i
loro beni come se fossero un cuor solo ed un'anima sola.
Quaranticinque anni dopo, cioè mentre sta uscendo il presente
libro, i Focolari di Carità sono 59, disseminati nel mondo
intero.
Il maligno al contrattacco
Colui che il Vangelo
chiama «il Maligno» intuiva il pericolo... Così alla fine di quel
primo ritiro a Chàteauneuf-de-Galaure, sabato notte, tutti i
partecipanti furono svegliati di soprassalto. In cucina le
pentole erano agitate e tintinnavano in modo impressionante. Un
attacco del demonio? Avvertito dell'incidente, non certo banale,
Mons. Pic, vescovo di Valence, ordinò di esorcizzare la casa.
Dopo queste avventure,
simili a quelle del Curato d'Ars, la chiusura del primo ritiro
di cinque giorni si fece la domenica, 13 settembre. Quel giorno
Mariangela Dumas ed Elena Fagot andarono a salutare Marta, come
scrive il numero speciale del1'«Alouette» del 1970, che fece
loro le prime confidenze sui disegni di Dio. E quando, nel primo
pomeriggio, stavano per prendere il treno, voltandosi verso 1a
collina di Chàteauneuf si dissero: «Sarebbe strano se entrambe
venissimo qui ad insegnare!». Timida riflessione che celava la
loro attrazione. Infatti, alcuni giorni dopo, andarono l'una e
l'altra, successivamente, a trovare padre Finet alla direzione
dell'Insegnamento libero di Lione. «Credo di dover andare a
Chàteauneuf», gli dissero, in sostanza, entrambe. E così, a
soli pochi giorni dall'inizio dell'anno scolastico '36-'37,
lasciavano il loro posto d'insegnanti.
Il 30 settembre,
Mariangela Dumas ed Elena Fagot ritornavano a
Chàteauneuf-de-Galaure. La sig.na Deleuze cedette loro il posto;
Elena divenne direttrice e apri un corso complementare, che dava
la possibilità di preparare la licenza elementare.
Da Lione, dove si trova
ancora, padre Finet non le abbandona. Abbastanza regolarmente le va a
trovare a Chàteauneuf.
Il secondo ritiro
Vi ritorna per il
secondo ritiro, che si svolse dal 26 dicembre 1936 al primo gennaio
1937. Ritiro molto bello, con un battesimo d'adulto alla fine e la
visita di mons. Pic, che dichiarò con entusiasmo: «Vi porto la
benedizione della Chiesa».
Dopo aver passato la
notte di fine anno in adorazione, cosa divenuta tradizionale a
Chàteauneuf, i partecipanti al ritiro andarono a riposare. Padre
Finet era disteso sul letto allorché, verso le 6,45, ne fu
sbalzato. La terra tremava. Il «Petit Dauphinois» scrive, a pagina
3, che il 2 gennaio 1937 una piccola scossa sismica è stata
registrata a Saint-Sorlin e a Chàteauneuf-de-Galaure. Il giorno
dopo, le informazioni locali precisavano che la scossa era stata
avvertita anche a Saint-Donat e a Romans, ma che non c'erano danni.
Strano, perché la Dróme registrò scosse sismiche più forti
nel Tricastino (23 gennaio 1773, 8 agosto 1773 e 12 maggio 1934)
e nel Vercors, soprattutto (25 aprile 1962). Che successe dunque
in quella fine anno 1936? L'epicentro sarebbe stato, per caso,
tra Saint-Sorlin e Chàteauneuf? E perché? Bisogna incriminare il
demonio? Se gli uomini possono provocare terremoti con le temibili
onde E.L.F. (Extremy Low Frequency), perché non lo potrebbe
Lucifero? Ad ogni modo, quella fu l'interpretazione di Marta
Robin: «Il demonio voleva demolire il Focolare», disse al padre
Finet. Senza dubbio, il «calice straripante d'amore» sembrò, a
Satana, un po' troppo pieno...
Capitolo XIII
«NEL CUORE DI GESÙ
ANNEGO L'INIQUITA’»
I ritiri si alternano
con la scuola: uno a Natale, uno a Pasqua e cinque nei mesi estivi.
Padre Finet predica,
Marta prega e offre, ed il demonio si agita: ecco riassunto il
periodo che va dal 1937 al 1981.
Il demonio, che nel
novembre 1928 aveva rotto due denti a Marta e che, in seguito,
strappò malignamente il quaderno sul quale si scrivevano
preghiere e poesie (come disse la signorina Faure, ex insegnante
libera di Saint-Uze, citando il parere di padre Perrier), continuava
facendo sbattere le imposte della camera di Marta, o gettando
per terra il cuscino. Se il cielo è con Marta, l'inferno si scatena
contro di lei. Padre Finet confermò il parere del parroco di
Saint-Uze, dicendo: «Quando sento persone che dicono di non
credere all'inferno e al demonio penso tra me e me: se potessi
portarle solo una sera nella camera di Marta e chiedessi loro di
rimanere una mezz'ora in preghiera con me, a fianco di Marta,
presto fuggirebbero terrorizzate».
La lirica preghiera del 4 giugno 1937
Ma gli attacchi del
nemico non raffreddano certo lo zelo di Marta, anzi! Il suo slancio
d'amore non fu mai così potente, dal 1925, come nel 4 giugno 1937.
Almeno così mi pare. In quel venerdì, la Chiesa celebrava la festa
del Sacro Cuore. Marta fece una preghiera che si può definire
sacerdotale, poiché ella offre, con lirismo e come membro del popolo
sacerdotale, non più le sue sofferenze, ma le sacre piaghe di
Cristo, al Padre dei Cieli.
«Eterno Padre,
attraverso i divini cuori di Gesù e di Maria e del vostro Spirito
d'Amore, vi offro le sacre piaghe di Gesù, mio Salvatore, il suo
prezioso sangue, il suo adorabile volto, il suo cuore
sacerdotale ed eucaristico;... in unione con Maria, ed in
particolare per le anime consacrate e per i vostri sacerdoti...
Vi offro Gesù, la Sapienza Eterna ed il Bene Supremo».
Dopo aver parlato al
Padre del Cielo delle anime consacrate e dei sacerdoti, Marta enumera
le grandi intenzioni, in uno stile simile a quello della
contadina incolta del Bossuet migliore, quello delle
Meditazioni sul Vangelo (il Bossuet peggiore è quello delle
orazioni funebri). In queste intenzioni Marta non mette né la
scuola, né la parrocchia, né il Focolare di Carità. Come
abbiamo già notato, ella ha la capacità di estendere la sua
intercessione al mondo intero. Lasciamoci trasportare dal soffio
bruciante di questa preghiera universale.
«In quegli abissi
senza fondo di misericordia, di perdono e di amore del cuore di Gesù;
annego l'iniquità, l'odio e l'empietà.
Nel suo sangue
santificatore, redentore e divino, immergo le anime colpevoli,
ingrate, e cieche. Nelle sue sacre piaghe nascondo le anime
timorose, timide diffidenti.
Sommergo i cuori
freddi, induriti e ribelli, nell'oceano infinito della sua
tenerezza.
Porto i sacerdoti,
tutti i sacerdoti, in quelle dimore a loro riservate.
Faccio penetrare
l'intero mondo nel suo cuore, bruciante d'amore per tutti.
Infine, in questo
braciere purificante, pacificante e santificante, getto, o Padre dei
Cieli, ogni vostra creatura suscettibile di rigenerazione, di
perfezione e d'amore, tutti gli sperduti, gli indecisi, gli
infedeli, i poveri peccatori, e vi supplico di riceverli, di
proteggerli, di trasformarli e di consumarli nel vostro immenso
amore.
O giustizia eterna
della santità suprema e infinita di Dio, eccovi Gesù. Siate
soddisfatta dai suoi meriti sovrabbondanti, che Egli ha deposto
in me. Pagatevi all'infinito, risarcitevi della gloria che vi fu
rapita da Lucifero e dalla sua orgogliosa legione e, dopo di lui, da
tutte le anime colpevoli ed indelicate.
O Amore indefinibile ed
incomprensibile, o Carità suprema ed infinita, siate
conquistati nelle anime, dalle fiamme onnipotenti del suo cuore
divino...
Riceverete eternamente,
senza interruzione, rallentamento e oblio, il vostro Cristo
Gesù, l'Eterno infinito in cui mi anniento continuamente, sotto la
guida dello Spirito Santo e con Maria, mia madre, per il perfetto
compimento dei vostri disegni d'amore nella Chiesa e nel Mondo.
Mio Dio, il silenzio esprime meglio dei molteplici ardori il mio
amore per voi. Prendete Gesù, e degnate leggere voi stesso nel
suo divino pensiero, che è il vostro, gli intraducibili
caratteri di fuoco che il vostro Spirito di carità ha profondamente
impresso nella mia anima e in tutto il mio essere, per sempre
annientati nel cuore della vostra unità».
Il segreto e la forza di Marta
Come avrebbe potuto, il
Padre del Cielo, resistere al cuore di Marta, che si fondeva nel
cuore di Cristo? Marta non si fa avanti, ma offre il sacrificio
di Cristo che, solo, ci ottiene la salvezza.
Gli accenti di Marta,
ricordano ed illustrano i primi tre capitoli della lettera agli
Efesini, dove San Paolo dichiara che Dio fece sedere alla sua destra
Gesù Cristo (1, 20) e in lui ci accoglie nei cieli (2, 6). Se Dio,
in Cristo, ci ha dunque colmati di ogni benedizione spirituale (1,
3), è inutile agitarci; dobbiamo prima meravigliarci. Tutto è
gratuito. Non siamo salvati dalle opere ma dalla fede in Cristo.
Non si tratta di
riposare sugli allori, di appoggiarci, cioè, sulle nostre
preghiere e sui nostri sacrifici, ma solo sul Cristo. Sederci in
lui per ascoltare, guardare e offrire. Sederci alla destra del
Padre, perché il Cristo qui ci ha messi con la sua croce e
risurrezione. La nostra potenza d'intercessione viene dal sacrificio
della croce.
Un pastore protestante
diceva che la vita cristiana non si inizia facendo qualcosa per
Dio, ma scoprendo quello che Egli ha fatto per noi. Così, la
forza della preghiera di Marta sta nel fatto che si appoggia sui
meriti di Cristo unicamente. Certamente bisogna anche
«camminare», cioè agire. Ma possiamo camminare davanti agli
uomini, solo se siamo «seduti, nei cieli, in Cristo». Chi
guida l'auto, fa della strada solo se è seduto. Lo stesso dice il
Vangelo: prima di costruire bisogna sedersi. Marta Robin, seduta, nei
cieli, in Cristo, appoggiata a lui solo, fusa in lui, ottenne dal
Signore di gloria, una potenza d'irradiamento, di cui il Focolare
sarà beneficiario.
Ormai non basta più
che padre Finet venga a Chàteauneuf per predicare qualche ritiro
all'anno. Egli sente di dover andare oltre. Nella quaresima 1939,
terrà, ogni domenica sera, una conferenza agli uomini (i ritiri
erano solo per le donne): 42 uomini parteciparono alla prima
conferenza sul cristianesimo ed il comunismo. Il numero aumentò
sempre di più. Il giorno delle Palme erano 350! La maggior
parte, non troppo cristiani, anzi!
Marta perde la vista nel 1940
La preghiera di Marta,
«seduta in Cristo», portava frutti. Pregava sempre, offriva;
ma cosa poteva dare ancora al Signore, che non avesse dato? Non
poteva mangiare, né bere, né dormire, né muoversi... Le
rimanevano gli occhi, indeboliti, certo, dalle lacrime di sangue e
che non sopportavano la luce già da tempo, ma che le permettevano di
vedere le persone o di ammirare un quadro della Madonna.
Ora, all'inizio della seconda guerra mondiale, Marta fece il
sacrificio degli occhi, dopo aver chiesto l'autorizzazione a padre
Finet. L'offerta fu immediatamente esaudita: Marta divenne cieca. Ma,
precisa il reverendo Colon, un tempo medico di Chàteauneuf
diventato prete e membro del Focolare di Carità, «la pupilla di
Marta era così sensibile che il minimo raggio di luce poteva
provocarle uno svenimento». Infatti, la signora Simona Gaillard
attesta: «Quando un giorno, per sbaglio, urtai la lampada,
che le proiettò un raggio di luce sugli occhi, urlò di dolore».
Quella lampada da notte era nascosta da una tenda di velluto
blu, dietro la testa di Marta. La signora Gaillard aggiunge: «Marta
m'aveva pure confidato che un raggio di sole mattutino,
penetrato da un'imposta socchiusa, le aveva procurato un male di
testa e agli occhi che durò parecchi giorni».
Decesso della signora Robin
Marta perse la vista
nel 1940, anno in cui fu pure privata delle sollecite cure della
mamma, la quale si ammalò gravemente. Fu ricoverata a Lione per
essere operata d'una occlusione intestinale, dal dr. Ricard.
«Dalla sua camera Marta seguiva la cara mamma in tutti i
particolari, durante la malattia e la operazione, chiedendo perfino
che le aprissero la finestra della camera, dove faceva troppo caldo.
Ma, nonostante le cure, la signora Robin non guarì e fu riportata a
casa in autoambulanza, il venerdì 22 novembre 1940, nel momento in
cui Marta viveva la Passione. Quando uscì dall'estasi, l'infermiere
che portava in braccio la mamma di Marta, ormai morente, «ne inclinò
delicatamente la testa sulla guancia di Marta», prima di stenderla
sul letto a fianco del divano. Padre Finet le amministrò l'unzione
degli infermi e, qualche minuto dopo, ella morì.
Elena Fagot, Mariangela
Dumas, madre Lautru ed Enrico (Robin) circondavano la spoglia mortale
della signora Robin e, col padre Finet, furono testimoni d'un
incontro straordinario. Marta, delicatamente rialzata sul
divano, riprendendo conoscenza, si mise a parlare con l'anima di sua
madre, appena prima che questa uscisse definitivamente dal corpo. Gli
assistenti sentivano le parole di Marta e, dopo dodici minuti, ella
disse all'anima di sua madre: «Adesso partite verso le dimore
eterne».
Marta, cieca e
paralizzata, con solo il fratello Enrico, fu presa a carico dal
Focolare di Carità. Affinché potesse riposare nel silenzio,
padre Finet fece mettere Marta in un'altra camera, costruita sul
retro della casa, nell'autunno 1942.
Due membri del Focolare
abitavano là ed erano a servizio di Marta per ricevere i visitatori.
8 settembre 1941:
ammissione degli uomini ai ritiri
Nella nuova camera,
Marta prosegue la sua missione di preghiera e di offerta. Forse,
dal giovedì santo 1939, insiste di più per i sacerdoti, presso il
Signore: «Adoperatemi senza posa a sostenerli nell'invisibile.
Che abbiano fame e sete di essere per voi. Quella fame che manca
loro...». Bisognerà che anche i sacerdoti facciano dei ritiri a
Chàteauneuf; e non solo loro, ma pure gli uomini. Come fare? Padre
Finet aveva già organizzato conferenze per loro, la domenica sera,
ma non si potevano comunque organizzare ritiri misti: allora non
si facevano cose simili!...
Dopo aver rotto il
ghiaccio, in quel giugno 1940, padre Finet, che era stato mobilitato
a Chambarran, preferì stabilirsi a Chàteauneuf-de-Galaure.
L'arcivescovo, cardinal Gerlier, acconsenti, a condizione che
due giorni alla settimana facesse atto di presenza a Lione.
Sul posto, padre Finet
poteva organizzarsi meglio, tanto più che Marta gli aveva
chiesto di costruire un Focolare vicino alla scuola, essendo
questa ormai notevolmente insufficiente per rispondere alle
numerose richieste di partecipazione ai ritiri. Troppo spesso si
doveva rifiutare.
Veramente, costruire un
Focolare nel momento in cui le licenze edilizie si accordavano
difficilmente e si era sprovvisti di tanto materiale, era un
pasticcio. Il cardinal Gerlíer lo riteneva una «follia», ancora
una volta... E gli abitanti della Galaure avevano la impressione che
il progetto fosse connesso al regime politico del posto, al punto che
i muri del Focolare furono innalzati, nel '40 e nel '41, in
un'atmosfera di disapprovazione generale. Le difficoltà non
mancavano, dunque, ma il numero delle partecipanti aumentava
sempre.
Un giorno, un sacerdote
del « Magonnais», il reverendo Roberto, chiese di partecipare
anche lui. Padre Finet gli disse che i ritiri erano per sole
donne. Ma il reverendo insistette.
«Allora, andate a
chiedere a mons. Pic», disse padre Finet.
Ci andò, e il vescovo
di Valence gli disse: «Vi metterete dietro».
Quella prima presenza
fu la classica macchia d'olio; le partecipanti al ritiro obiettarono
che, se si accettava quel sacerdote, si doveva pure accettare
chi il marito, chi il padre, chi il figlio!... Padre Finet, le mandò
tutte dal Vescovo, mons. Pic, il quale, troppo felice, disse:
«Li metterete dietro».
E fu così che 1'8
settembre 1941, cominciarono i cosiddetti «ritiri di cristianità»,
parola in auge a quell'epoca. Perciò, ritiri misti. Era
un'innovazione ed anche una rivoluzione. Non lontano da Chàteauneuf,
un predicatore scuoteva il capo e vedeva l'azione del demonio là
dentro!... Padre Finet rispondeva: «Obbediamo al vescovo»... A
quarant'anni di distanza, si sorride e ci si chiede dove potesse
essere il male nel fatto che uomini e donne, giovani e vecchi,
sposati e celibi, preti e religiosi, pregassero assieme come
un solo popolo...
La guerra imperversa. I
partigiani non vedono di buon occhio il Focolare e gli danno delle
noie, ma il Focolare si dimostra accogliente e, nel 1943, apre
un'infermeria per i feriti.
Circa un anno dopo, il
14 luglio 1944, un aereo tedesco precipita nei dintorni del Focolare.
Giunsero mezzi corazzati tedeschi alla ricerca dei due membri
dell'equipaggio messisi in salvo gettandosi col paracadute, ma erano
stati catturati dai partigiani. Allora scesero furiosi a Chàteauneuf,
uccisero selvaggiamente diverse persone e dissero che domenica
16 luglio, alle ore 10, avrebbero bruciato il villaggio.
Al Focolare ed alla
cascina delle «Moilles», ci si mise a pregare con fervore... Il
mattino del 16 luglio, arriva un contrordine della Kommandantur
col divieto di bruciare Chàteauneuf... Erano le 9,30...
«Nel cuore di Gesù -
diceva Marta - annego l'iniquità, l'odio e l'empietà».
Capitolo XIV
IL RICONOSCIMENTO UFFICIALE DAI VESCOVI
Fu senza dubbio nel
1924 che padre Faure, dopo aver parlato di Marta ai confratelli, ne
parlò anche al vescovo di Valence: mons. Paget. Il prelato gli
chiese, con saggezza, d'essere prudente. Poi abbiamo visto che
il suo successore, mons. Pic, non fu parco di incoraggiamenti verso
il Focolare di Carità e moltiplicò le visite a Marta Robin. Ma
questa evidente simpatia non costituisce ancora un
riconoscimento ufficiale, il quale verrà progressivamente.
Innanzitutto una puntualizzazione
Furono le circostanze a
provocarla. Dopo le malevoli interpretazioni nei riguardi di
Marta e del Focolare di Carità, mons. Pic, il 7 agosto 1943,
pubblicò, nella «Semaine Religieuse de Valence», una
puntualizzazione che è il contrario di una messa in guardia:
«Da undici anni, la
nostra attenzione di vescovo è attirata dalla persona e dall'azione
della nostra diocesana, sig.na Marta Robin. Ci siamo fatti un dovere
di non pubblicare niente e di non nominarla nei nostri scritti.
Questa riserva, imposta
dalla prudenza e dalle prescrizioni della Chiesa, corrispondeva
pienamente ai desideri continuamente manifestati da quest'anima,
che vuole tener lontana ogni curiosità intempestiva e
consacrarsi, nella sofferenza, unicamente al bene delle anime che la
pregano.
Circolari di vario
tenore e provenienza, senza nome dell'autore né dell'editore e
senza 1'imprimatur richiesto per relazioni di tal genere, hanno
volgarizzato il suo nome, aggiungendo a dati esatti, numerosi
dettagli fantasiosi, mettendo, a volte indiscretamente, in causa
i più rispettabili teologi, vescovi ed anche cardinali...
Chiediamo ai nostri
sacerdoti e diocesani d'ispirarsi, per il presente caso, a
quella riserva, che è necessario osservare strettamente se non si
vuole aprire la strada a controversie, in cui l'incompetenza ha
libero gioco e finirebbe per screditare ciò che vi è di più
rispettabile nella vita delle anime e nella stessa Chiesa».
«Figlia della
Chiesa»
Questa prima nota
ufficiale, si presenta dunque come una difesa di Marta Robin.
Diciassette anni dopo, un redattore della «Semaine Religieuse»,
probabilmente il vicario generale, mons. Soulas, ricordava
quella puntualizzazione, commentandola così:
«Mons. Pic volle
metterla (Marta Robin) al riparo da indiscrete curiosità,
sottolineando che il suo desiderio era di continuare nell'ombra una
vita di preghiera e di sofferenza. Figlia della Chiesa, con tutto ciò
che tale titolo comporta di fierezza, deferenza e d'amore, Marta
Robin sa, senza dubbio, che in quella riserva c'è solo gratitudine e
rispetto».
È chiaro che la
discrezione della Chiesa non assomiglia alla diffidenza.
Inaugurazione del nuovo Focolare
L'inaugurazione
ufficiale del nuovo Focolare di Carità ne è la prima prova. Gli
edifici recentemente costruiti sono agibili nel novembre 1947 e
l'inaugurazione, con mons. Pic, fu fatta il lunedì di
Pentecoste, 17 maggio 1948, data significativa.
La stampa notò una
considerevole affluenza di sacerdoti e di fedeli venuti dall'intera
regione e da diversi punti della Francia. Mons. Pic benedisse la
monumentale statua della Madonna del Focolare, che domina l'entrata,
opera dello scultore Hartmann (d'Allex, Dróme), che la modellò su
un blocco di pietra d'Euville di quindici tonnellate.
Mons. Pic approfittò
della circostanza per nominare canonico onorario il reverendo
Faure, parroco di Chàteauneuf-de-Galaure, e, il 12 luglio 1948, lo
«installò» nella cattedrale di Valence, coprendolo di elogi.
Adesso il Focolare è veramente riconosciuto. E il numero dei ritiri
si moltiplicherà, non essendo più alternati con la scuola, ma
essendoci tutto l'anno.
Ma Marta vuole
soprattutto che non ci si fermi lì. Missionaria nell'anima, come
Teresa del Bambino Gesù, ricorda incessantemente a padre Finet che
bisogna creare dei Focolari anche altrove. Il primo, dopo la
fondazione di Chàteauneuf, sarà quello savoiardo di
Léchère-le-Bains, il secondo, quello di La Gavotte, vicino a
Marsiglia.
Un'intuizione di mons. Pie
Mons. Pic, definito a
Chàteauneuf «il primo vescovo dei Focolari», si fece il loro
portavoce presso l'episcopato e perfino a Roma.
È stato lui che ha
fatto ritoccare il progetto del Focolare per ampliarlo. Riteneva che
le dimensioni della cappella interna del Focolare fossero
insufficienti per il futuro. Infatti, bisognerà poi costruire
il santuario «Santa Maria, Madre di Dio», perché la cappella non
poteva contenere più di 300 persone... Mons. Pic diceva: «Non
si vede mai con sufficiente ampiezza, così come non ci si
giudica mai abbastanza piccoli! ».
L'8 luglio 1948, padre
Finet celebrava i venticinque anni di sacerdozio. Il vescovo di
Valence è presente, ma la giornata è presieduta da mons. De
Lobet, arcivescovo di Avignone. È un segno dell'interesse
dei vescovi per Chàteauneuf.
I timori di mons.
Urtasun saranno presto dissipati quando mons. Urtasun succederà a
mons. Pic, deceduto nel novembre 1951, comincerà, da uomo molto
prudente, a dimostrarsi riservato. Dopo la prima visita a
Chàteauneuf, dice ai seminaristi di Valence, con la sua abituale
spontaneità: «Sono andato a vedere Marta Robin. Com'è oscura
quel1a camera. Bisognerà che guardi da vicino la situazione!
». Felice scetticismo, che valorizzerà la futura approvazione.
Siccome il numero dei
partecipanti, sacerdoti e laici, aumentava sempre, alcuni vescovi
stranieri non solo dicono del bene di Chàteauneuf, ma vorrebbero
anche loro un Focolare di Carità!
Un giorno, per esempio,
padre Finet vede arrivare un arcivescovo, che dapprima gli
chiede di poter anche lui partecipare al ritiro e poi. dice,
d'un colpo: «Vorrei anch'io un Focolare nella mia diocesi». E
durante il ritiro, non esitò a dire a padre Finet: «Ho trovato il
sacerdote che mi occorrerebbe per il Focolare di Carità: quello
che era alla mia destra».
- Come? padre Pagnoux?
Ma è il mio braccio destro!
- Va molto bene per me.
E fu l'inizio del
Focolare di Dakar, dato che l'arcivescovo in questione era mons.
Thiandoum, futuro primo cardinale del Senegal.
Il cardinal Gerlier al 25.mo anniversario della fondazione del Focolare
Prima di questo
cardinale africano, un altro cardinale era venuto a Chàteauneuf,
l'arcivescovo di padre Finet, mons. Gerlier. Volle presiedere
personalmente al 25.mo anniversario della fondazione del
Focolare, l'il febbraio 1961. Gli era accanto un corteo di vescovi,
tra cui il nuovo vescovo di Valence, mons. Vignancour, grande
amico del Focolare e mons. Urtasun, divenuto arcivescovo
d'Avignone. Questi rievoca, davanti al cardinale primate della
Francia, il reverendo Leone Faure che, nel 1934, per obbedienza al
vescovo e «per compiere un volere divino, trasmesso da una
delle più virtuose parrocchiane, chiaroveggente e mortificata»,
aprì, contro ogni umana saggezza, la piccola scuola femminile,
«grano di senape, dal quale sarebbe uscito il grande albero del
Focolare».
L'allusione a Marta era
chiara. Era difficile dire di più mentre ella era ancora in vita.
L'ex vescovo di Valence, che dapprima aveva dimostrato un certo
timore, autentificava così, solennemente, la missione di Marta.
Nel corso di quel memorabile anniversario, padre Finet ringraziò
il cardinale Gerlier perché, in quel giorno, «dopo mons. Pic e
mons. Bornet (vescovo ausiliare di Lione, residente a SaintEtienne),
con mons. Urtasun e mons. Vignancour portava la benedizione ufficiale
della Chiesa».
Il ruolo nascosto ma primordiale di Marta
Da parte loro, padre
Callerand (Focolare di Besançon) e la signorina Mariangela
Dumas, direttrice dell'Istituto secondario di Chàteauneuf, parlarono
«del ruolo nascosto, ma primordiale, di colei, il cui incessante
olocausto attira, sui Focolari, il dono di Dio». Si intuisce
l'emozione dell'uditorio a questo omaggio discreto ma così denso e
forte nei riguardi di Marta che, in quel momento, si trovava
raggomitolata sul piccolo divano nell'oscura camera della
Piaine.
A mons. Gerlier, ex
vescovo di Lourdes, divenuto «arcivescovo di Fourvière»,
restava solo da rallegrarsi per i meravigliosi effetti che la
grazia del Signore aveva operato nel cuore d'una piccola contadina,
simile a Bernadette Soubirous per l'umiltà..., aggiungendo che la
preghiera e la sofferenza di Marta portano legioni intere di
anime, «d'ogni popolo e lingua», a Gesù, tramite Maria.
È in questi termini
che il settimanale cattolico della Dróme, «Peuple Libre»,
riferisce l'omaggio del cardinal Gerlier a Marta Robin e alla sua
opera.
Così, dunque, i
vescovi della regione hanno chiaramente dimostrato la loro
approvazione per un'opera che, in venticinque anni, aveva
accolto più di venticinquemila partecipanti ai ritiri. Da un primo
bilancio dell'11 febbraio 1961, risulta che ci sono dei Focolari di
Carità a N.D. de Roquefort-les-Pins (Alpi Marittime), alle Houches
(Alta Savoia), a Strasburgo (Alto Reno), a Baye (Marne), a
Gouille (Doubs), a Poissy (Seine-et-Oise). Ed erano in progetto
Focolari in Colombia, Madagascar e nel Togo... Per ogni
insediamento, una diocesi. Per ogni diocesi, un'approvazione
episcopale...
Capitolo XV
MARTA, LA FAMIGLIA E LE AMICHE D'INFANZIA
Dal 1961 al 1981, che
dire di Marta? Negli ultimi venti anni della sua vita non vi
furono avvenimenti rilevanti come negli anni precedenti:
consacrazione, paralisi, stigmate. E’ una vita di
nascondimento, nella preghiera e nella sofferenza offerta e
nella passione, rivissuta ogni giovedì sera fino alla domenica o
lunedì. L'impiego del tempo di questa inferma, raggomitolata sul
divano, è così regolare e monotono che non c'è niente di nuovo da
aggiungere. Possiamo, però, per quest'ultimo periodo, citare
precisi ed espressivi ricordi dei familiari e delle amiche
d'infanzia.
Martedì: giorno della famiglia e degli amici
In fondo, Marta aveva
solo tre giorni per ricevere (soprattutto alla fine della sua
vita), perché il resto era per il Signore. Il martedì era dedicato,
in parte, alla famiglia ed agli amici.
La sorella maggiore di
Marta, signora Serve, di Saint-Sorlin (lo ricordiamo per quei lettori
che non conoscono la Drome), che, nonostante l'età, si recò da
Marta fino al novembre 1980, ci ha detto: «Ogni volta che, con mio
figlio e mia nuora, andavo da lei, chiedeva notizie di tutti,
senza dimenticare nessuno!».
È naturale. Marta
amava molto la sua famiglia, che era la sua gioia, ed era riamata
allo stesso modo. Ognuno capirà facilmente, come sia ancora troppo
presto, nel momento della redazione di questo libro, narrare certe
circostanze, in cui Marta dimostrò ai suoi il proprio affetto. Un
certo pudore ce lo impedisce; tuttavia possiamo citare alcuni
ricordi.
Le si voleva molto bene
La figlia di Alice,
sorella preferita di Marta, con grande discrezione ci ha confidato:
«Andavamo da lei
perché le volevamo molto bene. Parlavamo di tutto. Non cercava
mai di farsi valere!».
- Vi parlava delle
stigmate? - No, era il suo segreto...
Un'altra nipote, di cui
abbiamo parlato diverse volte, la signora Marcella Danthony, ci ha
detto, con le lacrime agli occhi:
«Rimpiango molto zia
Marta. Avevo appena sette anni meno di lei. Non la consideravo una
zia ma un'amica, una sorella! Poverina, quanto ha sofferto! La nonna
(signora Robin) ha fatto tutto quel che ha potuto per curarla, ma non
si trattava di una malattia comune...».
«Non lo si può
spiegare...»
Quando dei membri della
famiglia, terminata la visita, se ne andavano, Marta diceva loro: «A
presto», oppure: «Venite martedì a mangiare». Sapeva il
menù, sapeva tutto della casa. Le piaceva far da mangiare, quando
poteva ancora farlo. Abbiamo dei fogli, dove aveva scritto delle
ricette, di un dolce al semolino, per esempio. Quando i
familiari mi parlarono di quegli inviti a pranzo, chiesi:
- E Marta non
partecipava al pranzo?
- Non poteva, era
completamente immobilizzata e non poteva deglutire.
Allora feci una domanda
diretta al nipote, signor Serve, al quale la Marta adolescente
aveva insegnato a camminare:
- Dopo la sua morte ed
anche mentre era in vita, vi avranno senz'altro chiesto se era
vero che non mangiava niente, cosa difficile da ammettere. Cosa
rispondevate?
- Io dico quel che so.
Non l'ho mai vista mangiare in camera sua. Alla gente dico: se
non volete crederci non credeteci. Non lo si può spiegare. Ecco
tutto.
Non diceva mai male di alcuno
Un altro nipote, il
signor Gaillard, assieme alla moglie ed al figlio, asserisce:
«Era molto delicata.
Faceva molta attenzione a non urtare nessuno. Spesso diceva, a
proposito di critiche o calunnie che le avevano riferito:
"Peccato che quelle cose siano state dette! Le si dimenticherà!
"».
Una pronipote, Isabella
Chancrin (15 anni), dice, a questo proposito: «A volte ella
diceva: "Non è bene". Ma non l'ho mai sentita dire male di
alcuno! ».
Qualche visita
La mamma d'Isabella ci
ha riferito qualche visita fatta in famiglia a zia Marta:
«Da bambina, le
portavo mazzi di fiori di campo (le piacevano tanto i fiori!) e
disegni, preoccupandomi anche di procurarle un paio di
pantofole, affinché potesse alzarsi! I bambini piccoli erano i
suoi preferiti ed avevano il privilegio di potersi sdraiare
vicino a lei, sfiorandole le guance "perché la loro pelle è
così dolce" - diceva con tenerezza.
Il mio primo ricordo
risale ad alcuni giorni di vacanza trascorsi alla Plaine, all'età di
sei anni circa. Il mio compleanno, a luglio, coincideva con la
festa di Marta e si faceva un simpatico spuntino tra bambini.
In occasione di
cerimonie familiari (battesimi, comunioni, matrimoni), il Padre
ci dava la gioia e l'onore di rappresentare zia Marta al tavolo
familiare. A volte, durante l'anno, prima del mio matrimonio
e della morte della nonna, tutta la famiglia pranzava con il
Padre alla Plaine; egli presiedeva il delizioso pasto che
Enrichetta e Teresa, devotissime di Marta, avevano preparato,
seguendone i consigli.
La famiglia aumentò...
Così, da qualche anno, ogni bambino era invitato con la rispettiva
famiglia e ci raccontavamo a vicenda, con gioia e tenerezza, le
visite fatte a zia Marta.
Ci parlava della
Chiesa, del Padre, dei membri del Focolare, dei Focolari, dei bambini
delle scuole, dei partecipanti ai ritiri. Non parlava mai di se
stessa e non osavamo farle una sola domanda che la riguardasse. Ci
sarebbe parso scorretto chiederle: "Come stai?», anche quando
la sentivamo tossire.
Interessandosi alle
famiglie del villaggio e dintorni, durante l'ultima visita dei
miei genitori, Marta chiese a papà chi abitasse le varie case
del villaggio, passandole tutte in rassegna.
Alla fine di ogni
visita recitavamo assieme una preghiera molto semplice: Padre Nostro,
Ave Maria, Gloria al Padre, qualche invocazione e poi ci
abbracciavamo. Non ci faceva mai la morale né il catechismo.
Conosceva la nostra situazione ma rispettava la nostra libertà
ed era molto discreta. Pregava e soffriva per noi, perché ci
amava molto più di quel che l'amavamo noi. Questo lo sapevamo senza
tuttavia esserne veramente consci.
L'ultima visita che,
con mio marito e le mie figlie, le facemmo, risale al Natale
'80: "Buongiorno! Buongiorno! Avvicinatevi! " ci disse zia
Marta. L'abbracciammo dandole buone notizie di tutta la
famiglia. Poi zia Marta, con la voce rotta dall'emozione, ci
parlò della morte recente di una persona che le era stata affidata e
del male incurabile di una ragazza dei dintorni. Parlammo anche
dell'imminente nascita del quarto figlio d'una coppia di vicini
e della loro preoccupazione per la difficile gravidanza... Marta,
parlando dei pronipoti, sottolineò l'impegno a scuola di
Chiara-Emanuela e di Celina e il talento di Eric, del quale disse,
con tono inimitabile: "È un vero pagliaccio!». Non dimenticò
Oliviero e la sua gioia di vivere. Poi, siccome Cristina e Isabella
cominciavano a bisbigliare tra loro, chiese che le parlassero
della scuola.
Intuendo le
preoccupazioni professionali di mio marito, educatore, gli chiese di
portarle e di leggerle gli appunti di psico-socio-pedagogia che aveva
scritto l'anno scorso. E mentre continuavamo a chiacchierare,
mio marito si addormentò nella poltrona vicino al letto. Marta disse
ridendo: "Lascialo dormire, se è stanco!".
Fu l'ultima visita. Il
più duro per noi, adesso, è non poter più confidare a Marta le
gioie e le pene a viva voce. Ma sappiamo che ella è con noi, ancor
più presente! Rendete grazie al Signore perché è buono ed eterno è
il suo amore! ».
Ricordi di amiche d'infanzia
Le amiche d'infanzia di
Marta, si contano ormai sulle dita di una mano, perché,
naturalmente, numerosi decessi hanno sfoltito le file, che
all'inizio del secolo erano nella scuola elementare... È dunque ora
di citare le testimonianze che concordano con quelle della famiglia
Robin.
«Ella amava la gente
di Chàteauneuf; chiedeva spesso notizie. Andai da lei, per l'ultima
volta nel gennaio '79. Ella mi disse: "Vorrei vedere il vostro
nipotino". Ma lassù non volevano riceverlo! Lo dissi a un
membro del Focolare che mi disse: "Scrivete a Marta"...
Fu subito ricevuto. Questo dimostra che era lei che governava la
casa» (signora Montagne).
«Ella chiedeva sempre
notizie di tutti. La vidi, per l'ultima volta, l'inverno scorso; mi
disse: "Dovete bere qualcosa prima di partire!».
Nonostante le sofferenze, non si ripiegò mai su se stessa.
Un'altra volta, nel
1960 o 1961, andai a vederla assieme a mia sorella. Entrai per prima,
mentre mia sorella aspettava in cucina. Poi arrivò padre Finet,
dicendo che c'era la moglie del vice-prefetto ed aveva fretta.
Marta non rispose e, dopo un attimo, mi disse: "Fate entrare
vostra sorella!'. Padre Finet ritornò, insistendo, ma Marta
fece con calma. Non le si faceva fare ciò che non voleva!» (signora
Boulord).
Capitolo XVI
MARTA E LA MADONNA
Un anziano parroco di
Saint-Martin d'Aout (comune vicino a Chàteauneuf-de-Galaure),
il reverendo Giuseppe Petit, diceva che, una volta, accompagnò
da Marta padre Garrigou-Lagrange. Quel domenicano, tomista,
professore all'Angelicum di Roma, di fama internazionale, era un
po' scettico nei riguardi della stigmatizzata. Al ritorno dalla sua
visita, si diceva come stralunato: «Se tu potessi parlare così bene
della Madonna!». Più tardi, poco prima della sua morte, lo si sentì
dire: «Chi sono io rispetto a quell'umile figliola?».
Ci si ricorderà come,
durante il primo incontro con padre Finet, il 10 febbraio 1936, Marta
gli parlò per un'ora della sua «cara Mamma» del cielo.
Questi due aneddoti,
lasciano intuire quanto Marta fosse strettamente unita a colei
che chiamava la Mediatrice di ogni grazia. Marta pensava che quello
dovesse essere il titolo preferito della Madonna.
Marta spiega il ruolo unico di Maria nel piano di Dio
Un giorno sarà senza
dubbio pubblicato tutto ciò che Marta disse sulla «Nuova Eva»,
«l'Arca di Noè» che fece ripartire l'umanità verso il «sì»
dell'Annunciazione. Per Marta fu quello l'avvenimento storico:
«La Trinità aspetta, dalla sua Diletta, la verginale risposta,
per far scendere in lei il soffio che l'anima eternamente».
Il Vangelo,
etimologicamente la Buona Novella, comincia con il saluto dell'Angelo
a Maria. Con Maria, Marta si rallegra di tale avvenimento
dicendo l'Angelus al mattino, mezzogiorno e sera. E il Focolare
di Carità segue fedelmente questa tradizione.
La spiritualità
mariana di Marta, non è dunque un tessuto letterario di epiteti, ma
si basa su una solida teologia. Dio avrebbe potuto fare a meno di
Maria per dare suo Figlio agli uomini, ma volle che Egli avesse una
madre, per condividere interamente la condizione umana: «La Vergine
Immacolata - dice Marta - è dunque sola sulla terra, per dare a
Dio suo Figlio».
Per questo, Maria ha,
nel piano di Dio, un ruolo unico. «Il Padre ci ha amati al punto di
darci il suo unico Figlio; e ce l'ha dato attraverso Maria per darci
una Madre, una Mediatrice presso di lui».
Marta vive di questa
teologia con un cuore di fanciulla. Se le sue mani, a causa delle
braccia paralizzate, non possono sgranare la corona, le sue
labbra dicono delle «Ave Maria» tutto il giorno. E la gioia di
Marta era d'invitare i visitatori a dire con lei il saluto
dell'Angelo.
Ciò che Marta aspetta da Maria
Quello che Marta
aspetta da Maria, lo dice in una preghiera composta il giorno dei
Santi.
«O Madre Diletta, voi
che conoscete così bene le vie della Santità e dell'Amore,
insegnateci ad elevare spesso il nostro spirito ed il nostro
cuore alla Trinità e a fissarvi la nostra rispettosa e affettuosa
attenzione. E poiché percorrete con noi il cammino che conduce alla
vita eterna, non disinteressatevi dei deboli pellegrini che la vostra
carità vuole raccogliere; volgete il vostro sguardo
misericordioso, attirateci nella vostra luce, inondateci con la
vostra dolcezza, portateci nella luce e nell'amore, portateci
sempre oltre ed in alto, nello splendore dei cieli; che niente possa
turbare la nostra pace, né allontanarci dal pensiero di Dio, ma
che in ogni minuto penetriamo sempre più nelle profondità
dell'augusto mistero, fino al giorno in cui l'anima nostra,
pienamente aperta alle illuminazioni dell'unione divina, vedrà
ogni cosa nell'eterno Amore e nell'Unità. Amen».
In questa preghiera,
ritroviamo quel soffio lirico già notato, che però non è mai a
scapito dell'esattezza teologica.
La gloria di Maria è,
secondo Marta, di darci suo Figlio.
Chàteauneuf-de-Galaure, terra mariana
Non dimentichiamo la
testimonianza della signora Serve, sorella maggiore di Marta:
«So che mia madre m'ha sempre detto che la Madonna le appariva».
Testimonianza insufficiente, se fosse unica, ma ne abbiamo tante
altre. Padre Betton, l'anziano professore di filosofia di cui abbiamo
già parlato, divenuto parroco di Saint-Rambert d'Albon nel
1934, parlò di quelle apparizioni. Marta gli descriveva la Madonna
dicendo: «Vedo soprattutto il suo sorriso».
«Da parte mia, dice la
parrocchiana di Saint-Rambert che ci ha riferito le cose
succitate di padre Betton, dinanzi ai dubbi e alle critiche
formulati su Marta Robin, dissi a padre Betton che speravo non ci
fosse lo zampino del demonio. Ma lui rispose: "Siatene invece
assolutamente certa"».
Padre Finet, da parte
sua, ci tiene a dire ai partecipanti ai ritiri: «Qui siete in
terra mariana».
Alcuni fioretti
Si potrebbero scrivere
innumerevoli fioretti sulle guarigioni ottenute da Marta Robin per
intercessione della Madonna. Riportiamo qui due fatti, raccolti
a Chàteauneuf-de-Galaure.
Primo fatto:
«Era il 1946. Il mio
piccolo Gilberto aveva un ascesso. Poco tempo dopo, gli si gonfia il
braccio, paralizzandosi. Mi rivolsi al dr. Rey, arrivato da poco a
Chàteauneuf, il quale mi disse che non poteva assumersene la
responsabilità, dovendosi assentare per un po' di tempo. Mi
rivolsi allora al medico di Saint-Sorlin, il quale mi mandò da
un suo collega di Beaurepaire. Ma nessuno dei due era
d'accordo, né sulla diagnosi, né sulla cura. Ne parlai a Marta
che disse: "Andate all'Hotel-Dieu, a Lione!». Là non vi
era più posto... Ma un interno (il futuro padre Colon del Focolare)
ci raccomandò all'ospedale Bebrousse. Quando arrivammo, ci
dissero: "Era ora! L'ascesso ha raggiunto l'osso, forse
saremo costretti ad amputargli il braccio...-". Ne parlammo
nuovamente a Marta, che reagì vigorosamente: "La Madonna
non ci farà questo! Lo guarirà senza bisogno di amputargli il
braccio! ". Ed infatti, Gilberto non ebbe il braccio
amputato».
La persona che ci ha
narrato l'accaduto, concludeva ricordando che «Marta diceva
spesso: "Bisogna fare tutto il possibile umanamente ed io
pagherò..."».
Anche il secondo fatto
è una guarigione. Esso risale al 1960 e ci fu riferito dai
genitori della bimba che fu guarita:
«Marta è sempre,
stata presente nella nostra vita di sposi e di genitori,
condividendone le gioie e i dolori, perché di ogni avvenimento
parlavamo con lei.
Nel 1960 avevamo tre
bimbe premature. La prima mori molto presto e la più piccola, che
alla nascita pesava un chilo, mentre era ancora nell'incubatrice
prese la broncopolmonite. Questa malattia, già grave per un
neonato normale, non lasciava speranze in un esserino così fragile e
indifeso. Su nostra richiesta, si alternavano all'incubatrice,
dove la bimba faceva sincopi su sincopi (a volte diventava
tutta nera e, quando invece riusciva a bere un cucchiaio di
latte, diventava bianca come un lenzuolo), il medico di Valence, la
suora (che partecipava con le cure ma, più ancora, con la preghiera
alla lotta contro la morte della bambina) e le ostetriche ed
infermiere, convinte che ella morisse. Noi, sostenuti da Marta e
dalla comunità, rinnovavamo la fiducia in Maria e nel Signore.
Un giorno di grande
sconforto, andai a pregare alla cattedrale di Valence e chiesi
dell'acqua di Lourdes ad un sacerdote che era in sacrestia.
Quella sera, celebrò la messa per la bimba (era la festa del Sacro
Cuore, mi pare) ed io portai il flacone d'acqua di Lourdes
sull'incubatrice. Il medico (protestante) era molto stupito; voleva
che la si facesse bollire... La suora ne metteva qualche goccia nel
biberon. Il dottore non credeva che sarebbe guarita ed ogni
giorno chiedeva: "È ancora lì? Non posso nemmeno
auscultarla, perché se la girassimo sulla schiena morirebbe
nelle nostre mani...".
Quando fu totalmente
guarita, ringraziai il medico per le cure date a mia figlia. Mi
rispose: "L'ho curata sì, ma non sono stato io a guarirla".
Quando, ringraziandola, lo dicemmo a Marta, ella mormorò:
"E’ la Madonna! "».
Capitolo XVII
«PADRE, PERCHE’
M'HAI ABBANDONATA?»
Se negli ultimi anni
Marta fu favorita da numerose apparizioni della Madonna, è
senza dubbio perché aveva particolarmente bisogno di quella
presenza consolante, perché il demonio moltiplicava gli
assalti, colpendola duramente e facendole credere che la sua
sofferenza non serviva a nulla, che anzi era persino un ostacolo
all'avanzata del Regno...
Gli ultimi tempi
Il 1° novembre 1980,
Marta ebbe la colonna vertebrale contorta. Il dolore divenne
intollerabile. Nelle ultime settimane del 1980, Marta tossiva sempre
di più; non poteva quasi più parlare né ricevere visite. «Con
difficoltà ascoltava la lettura della posta e con difficoltà
si univa alle preghiere dei membri della piccola comunità che la
circondava». Lunedì 2 febbraio 1981, festa della Presentazione
della Madonna, Marta disse a padre Finet: «Il demonio m'ha detto che
andrà fino in fondo».
«Il mercoledì sera, 4
febbraio, Marta si preparava a ricevere, come ogni settimana, la
comunione.
Le numerose persone che
la circondavano recitarono le preghiere che ella amava: litanie della
Madonna, consacrazione di S. Luigi Grignion di Montfort, preghiera a
San Giuseppe, invocazioni, corona, preghiera di Pio XII,
preghiera dell'Angelo a Fatima e qualche altra invocazione. Quindi,
Marta ricevette il Corpo di Cristo ed entrò in estasi, come tutti i
mercoledì.
Ma siccome Marta gli
aveva detto che il demonio sarebbe andato fino in fondo, padre
Finet era preoccupato. Il giovedì sera rimase vicino a Marta,
accompagnandola con le sue preghiere mentre entrava nei dolorosi
momenti dell'Agonia e della Passione».
Padre Finet se ne andò
verso le dieci di sera.
«Partì» il primo
venerdì del mese
L'indomani, 6 febbraio,
il Padre ritornò nel tardo pomeriggio. Aprendo la porta, trovò
Marta distesa al suolo, vicino al divano; con le braccia gelide ed il
corpo rigido.
Era il primo venerdì
del mese...
«Aiutato dalla persona
che viveva accanto a Marta, padre Finet la rimise sul suo
giaciglio, facendola coprire con parecchie coperte. Poi pregò per
due ore, supplicando il Signore di farla rinvenire... Verso le
19, constatando che Marta non aveva più dato segno di vita, chiamò
i suoi collaboratori. Tutti dovettero arrendersi all'evidenza,
condividendo il suo dolore di fronte alla morte...».
Arrivo del Vescovo di Valence
Poco dopo la
constatazione del decesso, fatta dal medico di Chàteauneuf, dottor
Andolfatto, fu avvertito per telefono il vescovo di Valence,
mons. Marchand, che immediatamente venne a pregare ai piedi del
divano. Guardò padre Finet e disse: «Se il chicco di grano
caduto in terra non muore, resta solo, ma, se muore, produce molto
frutto...». Quindi vennero dei membri della famiglia e del
Focolare. Marta fu rivestita della tunica che mettono i bambini
della scuola del Focolare quando fanno la professione di fede.
Furono cambiate le lenzuola (da un po' di tempo non si osava più
farlo, talmente si temeva di far soffrire Marta). Intanto «chiazze
di sangue al posto dov'erano i piedi e sul piccolo panno vicino alla
testa. Gli occhi non avevano sanguinato quella notte ma macchie di
sangue che risalivano alle notti precedenti, si vedevano sulla
fronte»; le hanno notate tutte le persone venute a pregare nella
camera mortuaria. Si mise una corona tra le sue mani scarne.
Con il viso tranquillo,
quasi sorridente, Marta poteva finalmente contemplare nella
gloria Colui col quale aveva condiviso la Passione ogni venerdì.
Capitolo XVIII
L'ADDIO A MARTA
La notizia della morte
di Marta si sparse ai quattro venti, il sabato 7 febbraio. Non
solo la stampa regionale e nazionale pubblicò articoli su colei che
fu allora definita «la stigmatizzata della Dróme», ma anche le
diverse stazioni radio e canali televisivi, dedicarono numerosi cenni
all'avvenimento. Franceinter, il 12 febbraio, riservò la
trasmissione delle 19, «Il telefono squilla», a Marta Robin.
L'invitato era il noto gesuita, padre Russo.
Sabato 7, domenica 8 e
lunedì 9 febbraio, i parenti, i membri del Focolare di
Chàteauneuf e di diversi altri Focolari francesi, gli amici di
Chàteauneuf e dintorni, i mille alunni dei collegi, salirono
alla Plaine, non a pregare per Marta ma a pregare con lei...
Marta è portata al Focolare per la prima volta
Il corpo fu messo nella
bara martedì 10 febbraio, nel primo pomeriggio. Alle ore 15, 45 anni
esatti dopo la prima visita di padre Finet alla Plaine, Marta
lascia la piccola cascina dove lavorò, pregò, amò e soffrì tutta
la vita. Arrivati al gran Focolare, la bara fu posta nella cappella;
poco dopo, scompariva sotto una montagna di fiori. Marta non era
mai stata in quella casa costruita dietro sua ispirazione.
Più di duecento concelebranti alla messa di sepoltura
I funerali si svolsero
al Focolare, giovedì 12 febbraio. Il cielo era blu intenso,
l'aria fresca, ma gradevole, il vasto santuario traboccava di
gente, ce n'era anche negli annessi e nel grande piazzale. Erano
stati organizzati pullman speciali, non solo nella Dròme, ma
nell'estremo nord e nell'estremo sud della Francia. Alcuni belgi
erano venuti in treno. La polizia stradale aveva messo numerosi
poliziotti per assicurare e organizzare la circolazione e la
sosta in Chàteauneuf, le cui strade non erano mai state invase
da tanto traffico.
La messa (in cui furono
distribuite seimila comunioni), fu concelebrata dal vescovo di
Valence, con più di duecento concelebranti, da quattro vescovi:
mons. Vignancour, arcivescovo di Bourges, mons.
Chabbert, arcivescovo di Rabat, mons. Thien, anziano
vescovo del Vietnam. Il cardinal Thiandoum, arcivescovo di Dakar, non
aveva potuto venire, ma era rappresentato dal vicario generale, il
reverendo Seck. Il corteo avanzava e si faceva in qualche modo il
portavoce di Marta: «Mio Signore, sono tua e la mia Gioia è
suprema... Sono arricchita della tua Croce, o Signore, e sono a Te».
Poi, il corteo entra
lentamente nel santuario «Santa Maria Madre di Dio». Il vescovo di
Valence saluta la sorella di Marta, signora Serve, e i membri
della famiglia. La messa si svolse con fervore e senza
trionfalismo alcuno.
All'omelia il vescovo
disse:
«Riuniti attorno a
Cristo risuscitato, questa sera noi accompagniamo Marta. La sua vita
terrestre è finita. Come Gesù, è passata dalla morte alla
vera vita. Ogni morte è una pasqua».
Poi, commentando la
parabola evangelica «Se il chicco di grano non muore», mons.
Marchand aggiunge:
«Marta è questo
chicco di grano e la sua vita offerta è stata uno sprofondare, nella
sofferenza prima, e adesso, nella morte. Ma questo sprofondare è
stato anche la gioia del dono e la gioia dell'incontro. Vivendo
così, discretamente, la Passione di Cristo, ella è stata quel
chicco di grano. Il frutto che porta è per la gloria del Padre».
E concludeva:
«Ognuno deve occupare
il suo posto nella Chiesa, ognuno con i propri doni e qualità e
con la sete di Dio. Marta ha occupato il suo posto e l'ha occupato
bene. Rendiamo grazie per il suo senso della Chiesa e il suo amore
per essa, per la Chiesa diocesana e per quella universale.
Consacrando a Dio la sua vita, testimoniando l'assoluto di Dio,
ella volle sempre essere figlia della Chiesa. Ma volle vivere
tutto ciò nella discrezione e nell'umiltà, sapendo bene, col suo
grande buon senso, che la fede non rientra nell'ordine del
sensazionale. Per questo noi rispettiamo ciò che ella ha
vissuto, ricordando la forza della sua adesione al Signore... Marta
Robin, che Maria vi conduca, Maria, Madre di Dio e Madre della
Chiesa, Maria, che così spesso pregaste, vi conduca verso suo
Figlio risuscitato, il Redentore dell'uomo».
Dopo l'omelia, le
intenzioni furono lette da Isabella Chancrin, figlioccia e
pronipote di Marta, da padre Pagnoux di Dakar, a nome dei Focolari
dell'Africa, padre Bradley di Boston, per i Focolari
dell'America, padre Quennouelle del Giappone, per i Focolari
dell'Asia, padre Gerarduzzi, per i Focolari d'Europa, padre Mac Cabe,
per i Focolari d'Oceania. All'offertorio, il popolo di Dio cantava
con emozione:
«Prendi questo pane,
Signore, prendi questo pane! Che questo pane sia preghiera!
Prendi questo pane, Signore, prendi questo pane! Che questo pane
diventi il tuo Corpo...
Prendi la mia vita,
Signore, prendi la mia vita! Che la mia vita sia preghiera! Prendi la
mia vita, Signore, prendi la mia vita! Che la mia vita assomigli
alla tua vita! Che la mia vita assomigli alla tua vita! ».
Memento dei defunti:
sono rievocati i nomi dei genitori di Marta, del fratello e della
sorella deceduti e anche dei parroci di Chàteauneuf che
conobbero Marta; infine, di mons. Pic, protettore del Focolare.
Alla comunione,
quaranta sacerdoti danno alla folla Colui di cui Marta visse tutta la
sua mistica vita.
La messa termina coi
canti del Magnificat e della Salve Regina, poi il corteo funebre
lascia la chiesa.
Sul grande piazzale, la
folla l'onora cantando l'Ave Maria di Lourdes. Tre pullman di
sacerdoti accompagnano la salma di Marta al cimitero di
Sannt-Bonnet-de-Galaure, a due chilometri, dove c'è la tomba
di famiglia. Era suo volere essere seppellita discretamente con
i suoi.
Dopo il 12 febbraio
'81, visitatori si recano ogni giorno sulla tomba di Marta, fiorita
in permanenza. Si tratta di curiosi? No, certamente! Su quella tomba
ho perfino sentito delle religiose che rinnovavano la loro
consacrazione. È il messaggio che hanno rilevato da Marta:
«Padre, che lo Spirito Santo faccia di noi un'eterna offerta
alla tua gloria».
Capitolo XIX
TESTIMONIANZE POSTUME
Dal 1936 al 1981,
migliaia e migliaia di persone si recarono al quartiere della Plaine
per incontrare Marta. Se tutti riferissero le conversazioni avute con
lei, si potrebbe fare una vera biblioteca di testimonianze.
Così, le pagine seguenti potrebbero essere un primo abbozzo dei
libri che si potranno scrivere fra qualche anno. Le testimonianze che
seguono, sono tuttavia sufficienti per permetterci di apprezzare
fino in fondo Marta Robin ed il suo irradiamento.
Mercoledì e giovedì, giorni di visite
I partecipanti ai
ritiri del Focolare di Chàteauneuf-de-Galaure che desideravano
vedere Marta, erano scritti in una lista e si dividevano in due
gruppi. Uno saliva alla Plaine il mercoledì, l'altro il giovedì. A
volte, anche gli alunni delle scuole o altri visitatori potevano
andare da Marta. Si aspettava il proprio turno nella cucina
rustica, i cui mobili non sono cambiati. Poi si era introdotti
nella camera, dove si intravedeva appena una forma bianca su un
minuscolo letto. La conversazione si iniziava molto
semplicemente.
Un dono di leggere nei cuori, ma una donna molto semplice
Un'anziana parrocchiana
di padre Perrier di SaintUze, ci dice:
«All'inizio (nel 1930)
non ci credevo. Senza padre Perrier non sarei mai andata a
vederla. Si parlava con lei come ad una vicina di casa, ma alla
fine si pregava, dicendo un Padre Nostro e un'Ave Maria. Una
volta, si faceva un ritiro. Marta sapeva che avevamo
chiacchierato in camera quando non si doveva. "A proposito di
quel che dicevate! ... ", ci fece poi notare. Ne eravamo
sconvolte! Aveva veramente il dono di leggere nei cuori. Un giorno,
per esempio, disse ad un membro della mia famiglia: "Siete una
stupida! Avete promesso al Signore di andare tutti i giorni a
messa e non mantenete la promessa! ". Era vero!
Un'altra volta disse a
padre Perrier: "C'è un signore che aspetta, potete dirgli
di andarsene: è venuto perché io gli dica il futuro!...".
Parlava poco di se stessa, ma un giorno mi disse: "Pregate,
perché io sia sempre il piccolo 'sì' vivente di Nostro
Signore". Era la sua vocazione».
«Ho spiegato a
Marta quello che mi causava tanta preoccupazione»
Molti venivano per
confidare a Marta i loro problemi e le loro miserie. E lei,
immobilizzata da cinquant'anni, inchiodata sul letto senza
potersi voltare, cieca e che non mangiava mai, non solo non si
lamentava e non diceva "ed io ..." ma ridava la pace e la
serenità! Se Marta rifiutava di rispondere alle domande tipo
"ci sarà una terza guerra mondiale? ", perché non
era una chiromante, sapeva tuttavia ascoltare, capire,
condividere le pene altrui, in particolare quelle dovute alla
solitudine.
Ecco la testimonianza
di una donna molto tribolata:
«... Dopo un'attesa di
un quarto d'ora, fui introdotta nella camera. Si doveva fare
attenzione a non toccare il letto, se no le si procuravano terribili
sofferenze. Ci si sedeva su una sedia bassa, ai piedi del letto
e si diceva il proprio nome, cognome e provenienza. Poi parlava
Marta. Mi ricordo di averle detto (era l'agosto 1961) che mia sorella
aveva fatto un ritiro qualche anno prima. Allora Marta mi
chiese: "A proposito, come sta vostra nipote? ". Ero un po'
stupita, perché effettivamente la figlia di mia sorella aveva subito
una grave operazione (l'ablazione della milza), fatta a Lione
dal professor Senty. Il fatto che Marta se ne ricordasse al solo
citarle mia sorella era inaudito. Poi le parlai di certi scrupoli di
coscienza che mi facevano soffrire molto e che a volte mi inducevano
a pensare di essere dannata. Lei mi disse, alzando la voce: "è
il vostro punto di vista, ma non quello di Dio". In quel periodo
non avevo tutte le preoccupazioni di adesso... Recitammo una
breve preghiera e Marta mi disse: "Restiamo coraggiose e
preghiamo a vicenda! ".
La vidi, per la seconda
volta, tre mesi prima che morisse... Padre Finet assisteva il nostro
incontro, perché Marta Robin era molto stanca: non smise di gemere.
Il Padre mi disse di spiegare il motivo della mia venuta. Era a causa
di mia figlia, abbandonata dal marito, con due figli. Mentre dicevo
quello. Marta m'interruppe, dicendo a voce alta: "E vostra
nipotina?». Ho infatti una nipotina di dieci anni, ma non so perché
mi fece quella domanda. Le dissi: "Come?" ma lei rispose
brevemente: "Niente, niente, continuate". Le dissi che
era troppo, che certi giorni pensavo di farla finita con la vita e
pensavo che il Signore non mi avrebbe punita. Allora mi disse
con voce quasi severa: "Ne siete proprio sicura?».
Terminai il mio esposto e padre Finet mi disse: "Bene.
Marta ha capito tutto; vi prende nelle sue preghiere e
aggiusterà tutto". Quindi recitò un Padre Nostro, un'Ave Maria
e un Sacro Cuore di Gesù, venga il vostro Regno, ed io uscii dalla
camera della signorina Robin. Ella disse le preghiere a voce alta,
seguendo padre Finet».
Marta ci «prendeva» nella sua preghiera
Spesso Marta pregava
alla fine di una visita, ma non sistematicamente, solo se vedeva
buone disposizioni. A volte adattava la preghiera all'incontro.
L'invito alla preghiera veniva fatto con naturalezza: «Volete
che preghiamo assieme?». E proponeva un Padre Nostro, un'Ave
Maria, a volte una decina. Quando c'erano dei coniugi diceva:
«Cominciate voi, signor...?». Il suo modo di pregare,
dolcemente e lentamente, con voce grave e decisa, era già un
insegnamento.
Quando la si era
avvicinata, ci si sentiva «presi a carico» da lei. Diceva: «Vi
prendo nella mia preghiera», come un'aquila che vi porta verso il
cielo. Una «Dròmoise» testimonia: «Ella ci prendeva veramente
nel suo cuore, senza maternalismi, con sconvolgente rispetto».
I suoi stati mistici non l'allontanavano dalle piccole
contingenze quotidiane, materiali. A delle aspiranti alla
maturità, venute a visitarla, al termine consigliava: «Non
dimenticate di prendere un buon caffè».
Marta e i poveri
Alla fine di ogni
ritiro, come abbiamo già accennato, c'è l'usanza di mettere in un
cesto tutto quello a cui i partecipanti ai ritiri intendono
rinunciare: tessili, libri, tabacco, magnetofono, ecc. È il
«cestino di Marta», grazie a cui numerosi pacchi da tre, da
dieci o venti chili, confezionati alla cascina della Plaine, vengono
inviati ai poveri, ai «suoi piccoli vecchi», come diceva Marta, ai
prigionieri, alle missioni o ai Focolari del terzo mondo.
Le spedizioni non si
facevano senza che Marta, pur cieca e paralizzata, desse indicazioni:
«Mandate medicinali a quel Focolare dell'America del Sud -
oppure - Poiché c'è ancora posto nella scatola, aggiungete qualche
corona e dei dolciumi». Marta voleva assicurarsi della solidità
delle funicelle e del cartone, raccomandava di scrivere chiaramente
l'indirizzo con inchiostro indelebile. Non si limitava a
trasmettere quello che la gente aveva offerto ma, con gioia evidente,
stabiliva la composizione e la destinazione dei pacchi,
mettendovi tutta se stessa. Siccome era in corrispondenza
regolarmente con un'assistente sociale che lavorava nelle prigioni,
Marta s'interessava a tutto quel che- avveniva dietro le sbarre.
Giacomo Fesch, il condannato a morte ghigliottinato a 27 anni e
convertitosi in prigione, deve molto a Marta. L'ultima sigaretta
che Bontemps (un altro condannato a morte) fumò proveniva da un
pacco di Marta. Quando parlava dei prigionieri, diceva Renato,
Michele o Giacomo ed i prigionieri erano molto sensibili a quelle
attenzioni ed agli invii.
Fermezza
Marta, ce ne siamo già
resi conto, non era una «pasta frolla» che approvava
obbligatoriamente tutto ciò che le si diceva. Ad una ragazza,
per esempio, che da cinque anni ritardava l'entrata in convento
perché la madre era ammalata, ella disse: «Non si fa aspettare il
Signore».
Il grido di Marta per gli handicappati
Una trappista non ha
dimenticato il grido di Marta a favore degli handicappati, nel
1979.
«Marta parlava a voce
alta, chiara e un po' rotta, da persona anziana. Il nostro scambio di
vedute, molto personale, durò quasi mezz'ora. Per due volte
bussarono alla porta, per dire che la visita doveva finire, ma
noi continuavamo a parlare.
Voglio soprattutto
trasmettere quello che considero come un messaggio di Marta. Le
parlavo di un giovane venticinquenne, infermo moto-cerebrale, di
quelli cioè che non parlano, non comunicano niente, non possono
mangiar da soli. E le dissi che quelli che gli stavano attorno
si chiedevano se era veramente un uomo! Marta gettò un grido e,
con voce straordinariamente forte, disse: "Oh! Quand'è proprio
lui l'eletto, il prescelto, il redentore!». E mi raccomandò di
pregare a nome suo, poiché lui non poteva farlo.
Tutte le volte che
riferii quelle parole di Marta a persone che si occupavano di tali
handicappati, o di altro genere, constatai che erano profondamente
colpiti».
L'umorismo che non le mancava
A forza d'ascoltare,
lei paralizzata, i problemi e le miserie di quelli che stavano bene,
avrebbe dovuto esserne un po' afflitta. Al contrario, era
sempre allegra e rideva di cuore. Se i giornali-sensazione
la fecero talvolta soffrire, sfruttando in modo commerciale il suo
vivere la Passione di Cristo o prendendola per una «veggente» che
avrebbe avuto delle «rivelazioni», ella rise pure dei loro
procedimenti. Marcello Clement le parlò un giorno di una sua
foto, riprodotta su un giornale a grande tiratura. «So che
l'hanno comprata - disse Marta - a meno di un denaro, secondo quel
che mi ha detto il Padre. Valgo molto meno di Gesù» (alludendo al
fatto che Gesù fu tradito per trenta denari).
Un'altra volta, disse a
Giovanni Guitton, candidato all'Accademia Francese: «Mi
piacerebbe essere membro dell'Accademia Francese; ma non credo
che si arrivi in cielo in poltrona!».
Il dono del consiglio
Si è scritto molto sul
dono del consiglio di Marta Robin. Questo significa non che lei
potesse parlare «dottoralmente» di tutto senza sbagliare, ma
che, in discussioni con credenti e non-credenti, -persone
incolte come lei o sommità intellettuali, politiche o religiose
e, nella maggior parte dei casi, in situazioni difficili, Marta si
sforzava di capire, reagiva con robusto buon senso e spirito
evangelico. La signora Teresa Villard, di Lione, dice:
«Vidi Marta Robin tre
volte in trentatré anni, sul suo letto di sofferenze. Le devo
l'intero orientamento della mia vita dopo la conversione. Fu per
me una guida sicura, ripiena di Spirito di Dio, dai consigli
pieni di saggezza e chiaroveggenza. Molto semplice e molto
umana, s'interessava profondamente a tutto ciò che le si diceva. Ad
un certo punto si sentiva che si raccoglieva in Dio e gli affidava
tutto quello di cui si era parlato. Mai un lamento! Mai una parola di
se stessa... Io, le tre volte che la vidi, seguii scrupolosamente i
suoi consigli. Ho 63 anni e non posso che lodarne la saggezza».
A volte aveva il dono
di leggere nell'anima o dare un sorprendente consiglio ad una
persona che non aveva studiato. Altre volte, senza che lei dicesse
niente di straordinario, il visitatore, mentre lei parlava, riceveva
un'illuminazione interiore. Allora la parola dettata dal buon senso o
dallo spirito evangelico assumeva particolare rilievo e spingeva
l'interlocutore ad impegnarsi maggiormente o a correggere
la propria condotta. Questo accadeva specialmente quando diverse
persone erano presenti e la cosa, riferita da uno, non era stata
sentita dagli altri. Finalmente l'incontro in buona fede con
questa mistica poteva essere per qualcuno l'occasione di riconoscersi
peccatore.
Una voce che ridà forza per avanzare nel vivere quotidiano
È ancora troppo presto
per parlare di conversioni di abitanti di Chàteauneuf-de-Galaure. Un
giorno si potranno fare nomi, ma, per adesso, ecco la testimonianza
della signora Elena Sorensen, di Digione, che ha ritrovato la fede al
Focolare di Carità:
«Io e numerosi amici
avevamo perso la fede cristiana da diversi anni. Facemmo dei
ritiri a «La Roche d'Or», Focolare vicino a Besançon e a
Chàteauneuf-de-Galaure, per cercare di trovare Dio ed abbiamo
ricevuto l'immensa grazia della conversione. Fu la mia «strada di
Damasco», che cambiò l'intera mia vita. Capii che non dovevo
perdere altro tempo, che dovevo fare di tutto per servire Dio ed i
fratelli nella costruzione del Regno d'Amore. Capii che Marta
Robin, con la sua ammirabile vita, offerta per la redenzione del
mondo, era una serva di Dio, molto magnanima nel nascondimento, nella
discrezione, nell'umiltà e nel suo voler rimanere nascosta,
considerandosi, come la Madonna, la più piccola serva... Ella è
per me e per molti, il piccolo grano di senape che, accettando
nell'obbedienza amorosa di restare tanti anni nell'ombra, permette a
tanti uomini e donne del mondo intero, di rinascere veramente
alla vera vita...
Nel mese d'agosto 1980
ebbi la grande gioia d'incontrare Marta nella sua oscura
cameretta; ma che calore, che luce interiore! Rimasi ore intere a
ricevere i suoi consigli, incoraggiamenti e la sua gioiosa
speranza. La sua voce fresca, paragonabile ad una sorgente, era piena
di gioia e di giovinezza; una voce che proclama l'amore e ridà
forza per continuare il vivere quotidiano...
Alla messa, il
celebrante dice: "L'acqua è unita al vino nel sacramento della
Nuova Alleanza, così sia segno della nostra unione con la vita
divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana".
E’ questo, Marta Robin! Questa grande cristiana che ha detto si a
Dio, che ha voluto dare assolutamente tutta la sua vita (come
l'acqua si unisce al vino) per unirla al sangue di Gesù Cristo.
Marta Robin è la grande serva dell'Eucarestia».
Una santa che non ha smesso di portarci nel cuore
Una persona di
Pierrelatte (Dróme) che ha fatto un ritiro a Chàteauneuf-de-Galaure,
dice:
«La trasformazione
interiore, constatata durante o dopo i ritiri... non è dovuta al
caso. E per colui che recita nel Credo: "Credo nella comunione
dei Santi", non c'è dubbio che la nascita spirituale di
persone passate al Focolare di Carità, sia collegata
all'offerta, instancabile e concreta, di Marta Robin in questi
ultimi cinquant'anni.
Bisogna contemplare
questa misteriosa partecipazione alle sofferenze di Cristo, con gli
occhi della fede ed il rispetto nel cuore.
In un secolo sedotto
dalle scoperte scientifiche, Marta, crocifissa con Cristo, viene a
ricordarci che siamo riscattati col sangue e con sofferenze che non
immaginiamo!
L'avvenire ci dirà
cosa dobbiamo a questa santa, che non smise di portarci nel cuore e
il cui corpo fu contrassegnato dalle impronte del mistero della
Passione. Possa ella, almeno, convertire la nostra indifferenza
nei riguardi della croce!».
Guarigione miracolosa
La signora ed il signor
Octave, di Vaulx-en-Velin (Rodano), ma originari della Dróme,
attribuiscono una guarigione all'intercessione di Marta:
«Nella nostra bella
valle di Galaure, le nostre famiglie la chiamavano da parecchio
tempo "la Santa". Nell'anno santo 1950, mia moglie ed
io, durante il pellegrinaggio, le mandammo una cartolina da
Assisi, per ringraziarla della miracolosa guarigione ottenuta per sua
intercessione (giugno 1941).
All'ospedale «
HStel-Dieu» di Lione, mia moglie aveva preso la febbre puerperale
dopo la nascita di Alein, nostro figlio. Suor Lautru, di
Chàteauneufde-Galaure, andava a vederla ogni giorno. Con
delicatezza, fui avvertito che mia moglie la davano per
spacciata. La mia sofferenza era inimmaginabile. Eravamo sposati
da nemmeno quattro anni (novembre 1937).
Poiché la medicina era
impotente, o perlomeno incerta, mi rivolsi a Nostra Signora del Sacro
Cuore, la speranza dei disperati. La mia novena non fu inutile.
Ignoravo che suor Lautru avesse messo sotto il cuscino di mia moglie
dei panni che erano stati toccati da Marta. In seguito andai da suor
Lautru, a Chàteauneuf-de-Galaure, la quale mi confermò che la
guarigione era stata miracolosa, secondo Marta. Come dimenticarlo?
Impossibile!».
Non esageriamo!
Per terminare la
citazione di testimonianze postume, ascoltiamo un provenzale,
che ci spiega ciò che pensava di Marta Robin prima d'incontrarla e
in che modo fu sconvolto:
«L'unica volta che
incontrai Marta Robin, fu durante un ritiro, nell'agosto del
1970. Ero allora ad una difficile svolta. Mi aspettavo molto da
quella visita. Mi avevano detto tante cose stupefacenti su quella
contadina della Dróme, stigmatizzata, con le piaghe che sanguinavano
tutti i venerdì nel momento della Passione di Cristo. Si diceva che
avesse pure dato i suoi occhi, durante la seconda guerra mondiale.
Non mangiava, dal 1930, se non l'ostia consacrata e, per di più,
quei doni mistici le davano una certa preveggenza profetica.
Quale non fu la mia
sorpresa quando, entrando nell'oscura cameretta dove ella giaceva in
permanenza, vidi una donna molto semplice. Mi aspettavo grandi
illuminazioni sulla mia vita, ed ecco che ella mi parla della pioggia
e del bel tempo, relativizzando d'un colpo le cose che mi
angosciavano!
Da quel momento capii
che Marta era un'autentica mistica. Ed anche una grande mistica. Sono
i falsari che esagerano e cercano di abbagliare. Quella certezza
fu confermata rapidamente da una grazia particolare, ricevuta
l'ultimo giorno del ritiro, grazia che corrispondeva esattamente al
problema che mi preoccupava.
C'è bisogno
d'aggiungere che fu l'inizio d'una profonda conversione che
sconvolse la mia vita e di cui, ancor oggi, undici anni dopo,
sperimento i frutti? Ecco la forza della preghiera di quella donna
senza apparenza. Siccome accettò di darsi totalmente al
Signore, Dio fece in lei, come nella Madonna, grandi cose».
Come diceva mons.
Marchand, appena dopo l'annuncio della morte: «Con la sua
preghiera e la sua vita offerta ella ha contribuito all'esistenza e
all'irradiamento dei Focolari di Carità. La sua morte è stata
semplice e discreta come la sua vita. Sappiamo rispettare ciò che
ella ha voluto essere e ciò che ella ha vissuto» (Riportato da
«Semaine Provence», settimanale cattolico di Marseille, il 20
febbraio 1981).
Capitolo XX
SANTA O SIMULATRICE?
Giunti alla fine di
questa piccola biografia, il lettore può, senza dubbio,
rispondere con maggiore chiarezza alla domanda postasi da certi
giornalisti, l'indomani della morte di Marta: è una vera santa o una
simulatrice?
È la questione che
dobbiamo affrontare decisamente in quest'ultimo capitolo, non
senza ricordare che le nostre convinzioni si basano su testimonianze
umane e che perciò restiamo interamente sottomessi al giudizio
che la Chiesa potrà emettere un giorno.
Non confondere prodigi e santità
Ciò che colpisce di
primo acchito nella vita di Marta Robin sono i fenomeni straordinari,
così bene attestati:
Una persona di
Saint-Vallier, la signora Collon dice:
«Alcuni dicono che non
si sono mai viste le stigmate di Marta. E’ assolutamente
falso. Mi ricordo che l'intera classe di prima e l'intera classe di
filosofia andarono a vedere Marta, era il venerdì santo 1946.
Marta era stesa sul letto, con gli occhi chiusi. Si vedevano lacrime
di sangue coagulate sulle guance, e tracce della corona di
spine. Mi pare che avesse le mani una nell'altra e si vedevano
tracce di ferite. Entrammo nella camera, a una a una. Padre
Finet illuminava con una pila elettrica il viso di Marta: pareva una
persona addormentata. Chiedete a mia sorella (signora Antonia,
di Hauterives), che vide la stessa cosa qualche anno dopo».
Non è difficile
raccogliere testimonianze di questo genere e tante persone
interpretano lo straordinario fenomeno, delle stigmate o delle
estasi, come un segno della santità di Marta. Per giudicare, non
bisogna tuttavia correre troppo.
Una cosa prodigiosa può
certo avere una spiegazione divina, ma anche satanica e, forse,
dopo un po' di tempo, semplicemente scientifica. Uno dei maestri
del pensiero anticristiano, il dr. Couchoud, diceva a Giovanni
Guitton, a proposito di Marta Robin: «In quanto medico e
psichiatra, ho visto casi analoghi in soggetti dai vasi capillari
fragili, i quali, dopo aver meditato sulla Passione di Cristo,
vedono sul loro corpo tracce di sangue. Ce ne sono negli
ospedali».
Il caso di Marta era
però ben diverso: paralizzata dall'età di vent'anni
(ventisette per la precisione), il suo sistema muscolare era
bloccato e non poteva deglutire. Tuttavia, secondo me, non è
questo l'importante, benché si debba spiegare scientificamente
da dove provenisse il sangue versato ogni settimana. L'importante è
che era una donna superiore, che aveva una specie di genialità.
«Non ho mai chiacchierato con lei senza riportarne una luce o
illuminazione...» (Jean Guitton, dell'Accademia Francese, nel
«Figaro» del 2 marzo 1981).
Più o meno come il dr.
Couchoud, il cardinal Daniélou diceva, a suo tempo: «la
persona più straordinaria non è Giovanni XXIII, né il
generale De Gaulle; è Marta Robin».
Registriamo questo
parere di un non credente, che converge con quello di un uomo di
Chiesa ma, per quanto superiore il suo buon senso e per quanto
curiosa la sua inedia, quello che riteniamo di gran lunga più
importante, in Marta Robin, è la sua esperienza di Dio.
«Essere tutta
vostra»
Già mentre leggevamo,
nelle pagine precedenti, le preghiere e le poesie di Marta, ci siamo
resi conto della sua unione col Signore. Lungi dal glorificarsene,
diceva: «Non parlate di me. Il mio ruolo è di pregare e offrire».
Ella pregava per essere tutta di Dio, comunicava per essere una sola
persona col Cristo. La sua preghiera di ringraziamento dopo la
comunione, esprime questa conformità alla volontà del Signore:
«Signore, mio Dio,
fate che, nutrita ogni giorno del vostro Corpo sacro, inondata dal
vostro sangue redentore, arricchita dalla vostra santa Anima,
sommersa dalla vostra divinità, io desideri, ami, cerchi,
voglia e gusti voi solo.
Che il mio cuore e
tutto il mio essere sospirino e tendano a voi solo. Che io sia tutta
vostra e mi occupi di voi solo e rimanga sempre con voi, in voi,
unita a voi, per essere consumata nella fornace ardente del
vostro Cuore divino, unita al Cuore immacolato della cara Madre
mia, tramite la quale voglio glorificarvi, lodarvi, servirvi e
obbedirvi per sempre».
Crocifissa con Cristo
Questo voler essere una
cosa sola con il Cristo la spinse ad accettare di condividere con lui
le sofferenze della Passione. «Vuoi essere come me?». Il
calvario di Marta Robin non è altro che il calvario di Cristo in
Marta Robin. Ella volle «morire con lui sulla croce, per vivere
eternamente con lui nella Gloria» (preghiera del 6 settembre 1933).
E ancora: «Gesù riconosce i veri amici sulla croce». Oppure:
«La croce è la scala divina che, gradino per gradino, ci eleva
verso Gesù». E ancora: «Non ho mai l'impressione che il mio letto
sia un letto, ma piuttosto un altare, la croce».
La croce, lo sappiamo,
è il segno distintivo del cristiano; è così importante, nella
storia della salvezza, che Gesù, annunciandola, la definiva «la
sua ora», l'ora della sua vita. Quell'ora fu anche quella di Marta
Robin, che la rivisse ogni settimana, per cinquant'anni.
L'elemento più
importante della vita di Marta è, senza dubbio, il suo sì al
Signore, per «completare nella sua carne ciò che manca alla
Passione di Cristo, per il suo corpo, che è la Chíesa». Un sì che
richíedette un po' di tempo prima di essere detto (cfr. il capitolo:
Una svolta spirituale?) ma che, infine, fu detto in modo deciso
ed irrevocabile: «Se dovessi, un giorno, essere infedele alla vostra
sovrana volontà su di me... Oh, ve ne scongiuro, fatemi la
grazia di morire subito»: Le stigmate, che colpiscono tanta
gente, devono essere superate, sono solo il segno, impresso nel
corpo di un amore straordinario, di un immenso desiderio di
lavorare per la salvezza degli uomini, con Cristo. E’ in questo
duplice amore, di Dio e degli uomini, che risiede la santità.
Trasportata nella Trinità
In Marta, la santità
non risulta essere una collezione di atti eroici, benché le sia
occorso un eroismo permanente per non ribellarsi mai nella prova
e per essere sempre disponibile ai visitatori. Essere santa, per
Marta, significa corrispondere all'amore del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, con i quali è in stretta relazione. Significa
abbandonarsi totalmente alla loro volontà.
L'atto di consacrazione
del 1925, ricorda la preghiera di Sant'Ignazio di Loyola:
«Prendete Signore l'intera mia libertà, la memoria,
l'intelligenza e tutta la mia volontà. Tutto quel che sono e che ho,
me l'avete dato voi; ve lo restituisco senza riservarmi niente;
disponete secondo il vostro desiderio. Datemi soltanto il vostro
amore e la vostra grazia, sarò assai ricco e non chiedo
nient'altro».
La differenza che si
potrebbe fare tra Marta e un teologo solo teologo è questa: il
teologo farebbe un discorso su Dio partendo dalla parola di Dio, il
che non cambierebbe la sua vita; Marta, invece, ricevendo la
parola di Dio, come la terra riceve il seme, ne ritrae molto
frutto. «Dopo che la si era vista - diceva Giovanni Guitton - il
Vangelo era come fosforescente». Invece il contatto con un teologo
che non vive la sua fede è portatore di pura concettualità.
Una mistica con i piedi in terra
Quel che in Marta ci
pare ammirabile è che non si isola in Dio come certi falsi devoti,
che non si mette in un faccia a faccia individuale che la
taglierebbe fuori dal mondo e dalle persone che le sono vicine.
Ella non cerca Dio tra le nuvole, ma lo trova nel servizio degli
altri.
Per esempio, l'anno
della fondazione del Focolare di Carità, il 12 febbraio 1936,
due giorni dopo il primo incontro con padre Finet, ella non
sogna progetti meravigliosi, ma scrive a sua nipote, signora
Wanthony: « Più di quindici giorni fa avevo ordinato un
servizio da tavola e da caffè; temo che tu non l'abbia ricevuto...
Oppure non ti piace e perciò non dici niente. Eppure ne sono sicura,
è stato ordinato quello che avevi scelto. Scrivimi presto; ti
scriverò una lunga lettera, quando la mia segretaria avrà un
po' più di tempo!».
Appena la nipote le
notifica di aver ricevuto il servizio da tavola e da caffè, Marta
detta alla segretaria una lettera di quattro pagine. Tra
l'altro, dice a sua nipote che le manderà «un incantevole
cofanetto, di cui sei vincitrice. Ricordi che m'avevi preso due
biglietti per un'opera di carità, dicendo, naturalmente, che non
vincevi mai? Ora, non si tratta di una sala da pranzo, né di
un'auto, ma è un piccolo ricordo d'una partecipazione ad un'opera
pia e, spero, un incoraggiamento a continuare!».
E conclude:
«Nell'immenso Amore, vi resto intimamente e umilmente unita,
cari nipoti, per amare e ringraziare. Prego per voi e per le
vostre intenzioni, soprattutto perché siate e restiate pii e
fedeli al Signore nei vostri doveri. Non dimenticatemi nelle
preghiere».
È la stessa Marta
realista che, nell'agosto 1947, ricevette in modo birichino, il
giornalista Marcello Clément, intimidito di dover parlare con lei:
«E voi da dove
uscite?!».
«Avevo preparato
qualche frase molto bella per intavolare il discorso, ma eccole
ridotte in briciole!» - ammette M. Clément.
E Marta Robin si mise a
parlargli... della malattia, delle capre, e della visita del
veterinario! Marcello Clément era «esterrefatto».
Quando, anni dopo,
ricorderà a Marta quell'inaspettata conversazione, lei,
ridendo, dice: «Eravate un vero santo nella nicchia! Bisognava
pur semplificarvi un po'...» (L'«Homme nouveau», numero
speciale del primo marzo 1981, dedicato a Marta Robin).
Semplice come una colomba
«Semplificarvi un
po'...». È forse con una facezia che Marta ci rivela il segreto
della sua anima. Era semplice come una colomba. Troppo semplice per
fingere durante cinquant'anni e più! La verità finisce sempre
col venire a galla... E’ impensabile che Marta abbia potuto farsi
beffe di genitori, familiari, vicini, amici, numerosi medici,
membri del Focolare, un uomo realista come padre Finet, teologi,
filosofi, migliaia di visitatori... E che nello stesso tempo
ella abbia dimostrato tanta pazienza, superamento nella
sofferenza, attenzione agli altri, in particolare ai più poveri e
derelitti, moralmente e fisicamente.
Ci sembra
psicologicamente impensabile che una simulatrice abbia potuto
seminare la speranza in Dio, la voglia di pregare, la gioia d'amare,
la pace del cuore. I frutti dello spirito, quali li enumera
l'apostolo Paolo, sono troppo abbondanti perché si possa sospettare
un inganno.
Non si può essere,
contemporaneamente, falsi per più di cinquant'anni, il che
manifesterebbe un sovrano disprezzo degli altri, e fare del bene
a quelli che ci sono vicini e a migliaia di persone. La cosa è
inconciliabile.
La conferma della grafologia
La grafologia conferma
le precedenti considerazioni. Se Marta avesse simulato, la
scrittura lo avrebbe in qualche modo rivelato. Ora, i documenti
scritti da Marta all'inizio della malattia, nel 1923 e 1925,
attestano che la «scrittrice era aperta agli altri, accogliente,
affabile, generosa, che in lei il serio e il reale hanno la meglio
sull'immaginazione». Nel 1925, «dalla firma risulta che un lavorio
interiore si sta avviando e richiede protezione da indiscrezioni, per
poter giungere a termine». La signora Giacomina Genét, psicologa e
grafologa di Valence, che ha esaminato la scrittura, senza
conoscere la vita di Marta Robin, conclude: «C'è da
rimpiangere di non aver documenti posteriori che permettano di
seguire l'evoluzione».
Magnificati
Se dunque l'idea di
dissimulazione deve essere assolutamente scartata, dobbiamo
pensare che questa donna ha vissuto un'azione di Dio
straordinaria. Ella, che dimostrò di avere una conoscenza
intuitiva e profonda del Signore e che si mise totalmente
nelle sue mani, che dimostrò una costante attenzione agli altri,
nonostante le infermità che l'inchiodavano al letto, ecco che è
all'origine di un'opera, la cui espansione nel mondo intero ha
del sorprendente.
« I veri mistici -
scriveva Bergson - si rivelano essere grandi uomini d'azione,
con grande sorpresa di coloro per i quali il misticismo non è che
visioni, trasporti, estasi...».
A questo punto, sarebbe
esagerato suggerire che Marta Robin fa parte di quella razza di umili
che, come Francesco d'Assisi e Caterina da Siena, furono inviati dal
Signore a confondere l'orgoglio dei saggi e dei grandi? Allora sale
in noi, irresistibilmente, un canto mariale: «L'anima mia magnifica
il Signore. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente; Santo è
il suo nome».
EPILOGO
Appoggiandomi alle
numerose testimonianze raccolte a Chàteauneuf-de-Galaure e
nella regione, mi sono sforzato di ritracciare la vita di Marta
Robin. Era utile collocare le diverse fasi di un'esistenza fuori
dell'ordinario.
Tuttavia, il lettore
che ha letto, anche molto attentamente, ogni pagina del presente
libretto, non conosce ancora Marta.
Per andare oltre, ed in
modo più chiaro, gustoso o sconvolgente, bisogna leggere tutto
ciò che fu scritto sotto sua dettatura.
Quanti testi, che si
comincia appena a scoprire, sono da pubblicare, nei quali Marta ci
porta con lei, per aprirci gli occhi sulle realtà invisibili.
Quando quei testi
saranno pubblicati, potrete chiudere questa modesta biografia, che vi
sembrerà pallida come una lampada elettrica alla luce naturale...
Valente, 21 novembre 1981
Festa della Presentazione
di Maria
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