Erano
le 23.30. mentre facevo il mio esame di coscienza inginocchiato
davanti alla bella immagine del Crocifisso della mia stanza, mi sono
venute in mente, ripensando alle molte ore in cui sono stato
impegnato nel mio lavoro, alcune cose che avevo visto e che cercherò
di sintetizzare in questo scritto.
Qualcuno
dirà: padre Aldo, il tuo esame di coscienza è un pochino insolito
rispetto a quello che normalmente troviamo nei manuali venduti nelle
librerie cattoliche, nei quali si deve rispondere a domande precise,
con riferimento ai dieci comandamenti. Apparentemente sì, tuttavia
monsignor Luigi Giussani mi ha educato a capire che l’esame di
coscienza non è rispondere a una lista di domande, ma è una
verifica della fede, dentro la realtà quotidiana. Verifica significa
riconoscere e vivere le implicazioni esistenziali della fede.
Papa
Benedetto XVI ha affermato che nel cristianesimo l’intelligenza
della fede deve diventare intelligenza della realtà. Per questo,
l’esame di coscienza è per me, innanzitutto, il riconoscimento
della presenza del Mistero dentro la realtà. Partendo da questa
positività germoglia una gratitudine per il dono dell’esistenza e
un grande dolore pieno di pace nel constatare le distrazioni che vivo
durante il giorno, quando mi lascio trascinare non dall’obiettività
della realtà ma dalle mie interpretazioni di essa, che si rendono
visibili nella modalità con la quale vivo i dettagli della mia vita
quotidiana.
E quando
parlo di dettagli parlo di cose molto semplici: di come mi alzo al
mattino, di come mi pettino o mi rado, se sono puntuale agli
appuntamenti oppure no, se guardo le persone che incontro, se lavo o
no la tazza del caffè che ho usato per colazione, se saluto ogni
persona che incontro. Cioè, la vita è fatta di dettagli e sono
quelli che la rendono bella. Pensiamo per esempio alla porta di una
casa. La sua bellezza dipende dal materiale, se è fatta di legno
massiccio o compensato, se ogni particolare che la compone è curato
fino ai minimi dettagli, come per esempio la qualità della
serratura, il fatto che si chiuda bene, che entrambe le ante siano
“perfette”.
Un falegname, se è un uomo è un artista, cioè uno che ama quello che fa e che esprime la sua creatività. Se è un uomo, vive una grande passione per quello che fa, “parla” col legno, lo padroneggia, lo cura, gode della sua bellezza. Pertanto, quando sta lavorando, quando sta creando qualcosa, i suoi gesti diventano carezze, i suoi occhi brillano di commozione. Il successo di un mobile, di una porta, deriva dal fatto che anche il più inesperto riesce a riconoscerne la bellezza. E gli viene voglia di toccarla, di mostrarla agli amici.
Un falegname, se è un uomo è un artista, cioè uno che ama quello che fa e che esprime la sua creatività. Se è un uomo, vive una grande passione per quello che fa, “parla” col legno, lo padroneggia, lo cura, gode della sua bellezza. Pertanto, quando sta lavorando, quando sta creando qualcosa, i suoi gesti diventano carezze, i suoi occhi brillano di commozione. Il successo di un mobile, di una porta, deriva dal fatto che anche il più inesperto riesce a riconoscerne la bellezza. E gli viene voglia di toccarla, di mostrarla agli amici.
Un
falegname è talmente appassionato al legno che arriva a parlare con
lui, come Michelangelo col suo Mosè. Quando visito la chiesa di
Yaguarón e vedo le porte della sagrestia, i suoi cardini, i suoi
disegni, (ognuno con colori naturali differenti in entrambe le ante),
quando vedo il grande mobile che custodisce i paramenti e gli oggetti
sacri necessari per la celebrazione della santa Messa, rimango
attonito fino ad affermare: “Che bello è il cristianesimo! Che
bella la sua liturgia!”. E vado con la mente al falegname, ai
pittori che alcuni secoli fa realizzarono un’opera tanto bella
curandone ogni particolare.
L’amara
sorpresa
Quando
rientro a casa, entro nella nuova sagrestia e vedo la porta rovinata,
la maniglia “nuova” (fatta secondo il criterio oggigiorno
dominante nel lavoro dell’“usa e getta”) che si muove come la
coda di un cane, mi afferrano un malessere e un’angoscia grandi. Si
vede, si tocca con mano la mancanza di amore in tutti quelli che, in
un modo o nell’altro, sono stati responsabili della costruzione di
quella porta. Senza Cristo, anche un gioiello diventa sterco; con
Cristo, invece, uno sterco diventa qualcosa di prezioso. Pane al pane
e vino al vino! Neanche gli imbianchini fanno eccezione, perché
quello che fa la differenza nel modo di trattare la realtà è la
coscienza o meno che questa è il corpo di Cristo, proprio come
afferma san Paolo.
Innanzitutto,
un imbianchino che ha nel suo Dna i criteri della fede, prepara bene
l’ambiente prima di dipingere. Sposta i mobili, li avvolge
accuratamente con tele cerate, con pagine di giornale o altri
materiali simili; poi copre i pavimenti per assicurarsi che non si
rovinino con le gocce di pittura, e infine nasconde bene i bordi
delle piastrelle, le intelaiature delle finestre, i battiscopa,
eccetera con del nastro adesivo di carta. Solo quando tutto è
pronto, prende il pennello e dà inizio all’opera, badando a non
sprecare nemmeno una goccia di vernice. Una volta terminato il suo
lavoro, lo “consegna” al proprietario, lasciando una pulizia
impeccabile nella stanza e in generale in ogni ambiente dove è
passato.
Poche
volte ho visto un imbianchino con questo atteggiamento, con questa
attenzione. Però quando ho avuto la fortuna di vederlo mi sono
meravigliato. Qui in Paraguay è una continua lotta. Per questo sto
loro addosso, spiegando e ripetendo ogni giorno le stesse cose, senza
stancarmi. Col tempo, insistendo, arriva il momento in cui
l’imbianchino cambia modo di lavorare, cambia atteggiamento. Ma non
sempre è così. Molto spesso le risposte ai miei richiami sono di
questo tipo: «Padre, non si preoccupi se mentre dipingo la parete
sporco il pavimento, dopo si pulisce». Come a dire: «Una volta
finito il lavoro arrangiati».
Alcuni
giorni fa sono andato a verificare il lavoro che era stato fatto in
un bagno nuovo. Che amara sorpresa! L’imbianchino aveva sporcato
con il colore le piastrelle delle pareti. E non solo quello! Il
muratore che aveva piastrellato il pavimento, aveva lasciato tra
l’una e l’altra mattonella fessure differenti: o troppo vicine
tra loro o troppo separate. E per finire un’ultima sorpresa:
controllando i bagni nuovi di una casa, trovo che l’idraulico aveva
messo lo scarico della doccia, grande come quello di una vasca da
bagno e la griglia della base del lavello dieci volte più grande di
quello della doccia. Inoltre, senza alcuna pendenza, così ogni volta
l’acqua allaga il bagno quando ci si lava. Che cosa fare?
Si
vede da come usi il bagno. Continuo
ancora a verificare ogni cosa col Rosario in mano e nella mente
faccio memoria del famoso “Cristo della pazienza”, molto caro nel
mio paese. Qualcuno si domanderà del perché mi devo preoccupare io
di tutte queste cose. Romano Guardini risponderebbe così:
«Nell’esperienza di un grande amore (…) tutto ciò che accade
diventa un avvenimento nel suo ambito». L’amore è una gran cosa
ma è fatto di dettagli. San Benedetto educò i barbari convertiti a
vivere il quotidiano in forma eroica e l’eroico nella vita
quotidiana. Il Vangelo dice di Gesù: «Bene omnia fecit» (Ha
fatto bene ogni cosa). Partendo da queste cose, Benedetto creò le
civiltà europee e i padri gesuiti quella delle Riduzioni.
Si
tratta di imparare cosa significano le implicazioni esistenziali
della fede o, come affermava papa Benedetto XVI, «l’intelligenza
della fede deve diventare intelligenza della realtà». Vuol dire che
non sono le prediche, le chiacchiere, i discorsi che educano, ma
l’esempio. Io per primo devo prendere in mano la scopa e insegnare
a usarla in modo corretto per pulire il pavimento, con l’allegria
di un uomo innamorato di Cristo. Ci sono persone che vengono qui e
che conoscono tutto di Cristo. Ma se uno entra nella loro stanza,
sviene… O Cristo ha a che vedere con tutto, perfino col modo di
usare il bagno, oppure non mi interessa per niente.
Febbraio
9, 2014
padre
Aldo Trento, missionario in Paraguay
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