Non
era solo.
I
muscoli che alzavano la mazza, gonfi di energia, lo innestavano in
una folla immensa.
Durò
sinchè i suoi piedi calcarono la terra.
Poi
una pietra gli frantumò le tempie, gli spezzò le fibre del cuore.
Raccolsero
il suo corpo, lo portarono via in una lunga fila silenziosa.
Da
lui grondava ancora la fatica, i torti subiti.
Loro
vestiti con le tute grigie, le scarpe grosse nel fango,
erano
il simbolo di tutto ciò che deve cambiare nella situazione
dell’uomo.
Il
tempo si fermò sui contagiri, le lancette scattarono
precipitando
sullo zero.
La
pietra bianca si avvinghiò al suo essere, fece di lui stesso una
pietra.
Chi
toglierà la pietra dal suo corpo?
Chi
crescerà di nuovo pensieri fra le tempie fracassate?
Così
si sgretola l’intonaco sui muri.
Lo
stesero in silenzio sopra un mucchio di ghiaia.
Venne
affranta la moglie, venne il figlio da scuola.
Fino
a quando?
Deve
passare ad altri la sua collera.
Essa
era vista in lui ad un amore suo, ad una
verità
tutta sua.
Possono
le generazioni utilizzarla soltanto come pietra, privarlo del suo
significato autentico?
E
di nuovo rimossero la ghiaia.
Il
carrello riprese a muoversi, tra i fiori.
La
sega elettrica incise nuovamente la cava.
Ma
il compagno si porta via con lui la struttura più intima del mondo.
Esploderà
l’amore finalmente, un giorno, quanto più alimentato
dall’ira
dell’oppresso.
Karol
Wojtyla (1956 - In memoria di un compagno di lavoro)
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