mercoledì 22 ottobre 2014

Poesia scritta da San Giovanni Paolo II, in occasione di un incidente mortale sul lavoro, avvenuto nella cava di calcare in cui aveva lavorato come manovale dal 1940 al 1944.



CAVA DI PIETRA

Non era solo.
I muscoli che alzavano la mazza, gonfi di energia, lo innestavano in una folla immensa.
Durò sinchè i suoi piedi calcarono la terra.
Poi una pietra gli frantumò le tempie, gli spezzò le fibre del cuore.
Raccolsero il suo corpo, lo portarono via in una lunga fila silenziosa.
Da lui grondava ancora la fatica, i torti subiti.
Loro vestiti con le tute grigie, le scarpe grosse nel fango,
erano il simbolo di tutto ciò che deve cambiare nella situazione dell’uomo.
Il tempo si fermò sui contagiri, le lancette scattarono
precipitando sullo zero.
La pietra bianca si avvinghiò al suo essere, fece di lui stesso una pietra.
Chi toglierà la pietra dal suo corpo?
Chi crescerà di nuovo pensieri fra le tempie fracassate?
Così si sgretola l’intonaco sui muri.
Lo stesero in silenzio sopra un mucchio di ghiaia.
Venne affranta la moglie, venne il figlio da scuola.
Fino a quando?
Deve passare ad altri la sua collera.
Essa era vista in lui ad un amore suo, ad una
verità tutta sua.
Possono le generazioni utilizzarla soltanto come pietra, privarlo del suo significato autentico?
E di nuovo rimossero la ghiaia.
Il carrello riprese a muoversi, tra i fiori.
La sega elettrica incise nuovamente la cava.
Ma il compagno si porta via con lui la struttura più intima del mondo.
Esploderà l’amore finalmente, un giorno, quanto più alimentato
dall’ira dell’oppresso.

Karol Wojtyla (1956 -  In memoria di un compagno di lavoro)


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