lunedì 15 dicembre 2014

LE PICCOLE VIRTU' DELLA CORTESIA, DELLA DISCREZIONE, DELLA GRATITUDINE, DELLA MODESTIA, DELLA SINCERITA’ ,DELLA SPERANZA, DELL'ECONOMIA, DELL'ESATTEZZA - Estratto dal libro: Les petites vertus du foyer, Georges Chevrot, ed. Le Laurier, Paris




LA PICCOLA VIRTU’ DELLA CORTESIA
In una lettera a Madame de Chantal, san Francesco di Sales scriveva: "Piccola cortesia, virtù modesta, ma segno di una virtù maggio­re... E occorre esercitarsi nelle virtù piccole, senza le quali le grandi virtù sono spesso false ed ingannevoli". E' raro, infatti, rimanere estasiati davanti ad una persona regolarmente affabile e gentile. Ciononostante, questa affa­bilità e questa gentilezza presuppongono una vigilanza ed un dominio di sé poco comuni. Ora, vi è un certo numero di piccole virtù che, come la cortesia, non provocano un'ammira­zione rumorosa; ma quando vengono meno, le relazioni tra gli uomini sono tese, faticose, addirittura burrascose, a tal punto che talvolta portano a dei disastri. Queste "virtù modeste" sono esattamente quelle che rendono soppor­tabile e gradevole la nostra vita quotidiana. Perciò vorrei dedicare questa serie di conver­sazioni alle piccole virtù delle famiglie cri­stiane. A prima vista, è un proposito assai modesto. Eppure, non è forse logico che sia prima di tutto alla famiglia che l'insegnamen­to di Cristo apporti la sua luce, il suo calore ed i suoi semi di gioia?
Non è forse vero che è tra le quattro mura della stanza in cui vi trovate adesso che dove­te osservare la legge di Gesù Cristo? A questo riguardo, in molte menti bisognerebbe rettifi­care alcuni errori. Alcuni ritengono che l'uni­co oggetto della religione sia garantire agli uomini la felicità in un altro mondo. Certo, Gesù Cristo ci ha fatto questa promessa ed è per mantenerla che il Figlio di Dio è venuto a far parte della famiglia umana, si è incarnato e ci ha riscattati. Tuttavia, quel dono prodi­gioso di felicità eterna, senza paragone con le nostre risorse e le nostre ambizioni, ha come condizioni la nostra fede, la nostra buona volontà, i nostri sforzi sinceri, tutte cose che dobbiamo realizzare fin da adesso. In realtà, noi abbiamo soltanto una vita che, oltre la morte, non avrà fine. La nostra felice eternità è cominciata fin dal giorno del nostro battesi­mo. E' qui, sulla terra, che ha inizio per noi il nostro cielo, pregando Dio ed osservando i suoi comandamenti. La religione non è solo una questione riguardante l'aldilà; ha la sua bella funzione anche quaggiù. Essa deve rego­lare la nostra vita presente. Dicendo la nostra vita presente, intendo dunque la nostra vita reale, la nostra vita quotidiana. Anche a que­sto proposito, sbagliano molte persone, talvol­ta dei buoni cristiani. Costoro compiono una separazione artificiale tra ciò che chiamano vita profana ed i doveri propri della religione, che formerebbero una breve parentesi nella vita di ciascuno. Ma se, per la maggioranza degli uomini, il tempo riservato alla preghiera è per forza molto breve rispetto alle loro varie occupazioni, non dimentichiamo che noi viviamo tutto il giorno sotto lo sguardo di Dio, e che gli dobbiamo costantemente l'o­maggio della nostra obbedienza, il quale si traduce nell'offerta esplicita di ogni nostra attività. Per essere esatti, l'espressione "vita profana" non ha senso per un cristiano, perché tutta la sua vita è consacrata interamente a Dio, che egli deve onorare in ogni sua azione, perfino in quelle più ordinarie.
Che voi mangiate o che voi beviate, scrive san Paolo, qualunque cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio.

Alcune persone si dispiacciono di non avere tempo per andare in Chiesa di frequente: nel­l'attuale complessità dei lavori domestici, non trovano il tempo per concedere a Dio una lunga preghiera. Non credete che, per quanto breve, la vostra preghiera possa tuttavia esse­re molto fervente? E perché cercare Dio su una strada dove non vi aspetta affatto? Vi dà appuntamento sulla via in cui vi ha posto la sua Provvidenza: è là che l'incontrerete sicu­ramente, tra le vostre occupazioni giornaliere. Pensate solo ad offrirgliele, compiendole nel modo migliore. Le vostre giornate trascorrono sia sul luogo del vostro lavoro, sia all'interno della vostra casa... E' qui che dovete pratica­re le virtù cristiane... Certo a volte dovete compiervi dei doveri molto gravi - in quel momento si tratta di dedicarvi ad un malato o di far fronte ad una situazione materiale criti­ca, oppure di perdonare dei torti che vi hanno fatto soffrire - ma generalmente, un cristiano non fugge di fronte alle virtù difficili e que­st'occasione non gli si presenta che in modo intermittente. Invece, la vita familiare implica molti piccoli doveri che spesso vengono tra­scurati, sia perché sono molto numerosi, sia perché non sembrano molto importanti. Nondimeno, essi lo sono, ed è la ragione per cui meritano la vostra attenzione. D'altronde, come faceva notare san Francesco di Sales, queste virtù modeste richiedono una grande virtù, cioè un grande amore, quello che si manifesta nei dettagli più piccoli. Proponendovene la pratica, non vi raccoman­derò una perfezione di ripiego, ma la divina virtù della carità, di cui le piccole virtù del focolare domestico sono come la moneta spicciola. Scusatemi per essermi attardato su queste riflessioni preliminari: era necessario per spiegarvi le mie intenzioni. Avrò ancora tempo per spiegarvi la piccola virtù della cor­tesia? Basteranno poche parole. Che intimità incantevole quella in cui tutti si sforzano di mostrarsi gentili ed amabili, cortesi come dicevano i nostri avi! Essere gentili, come dice il nome stesso (NA.T. in francese "poli" vuol dire come primo significato "levigato"), presuppone che noi smussiamo le asperità del nostro carattere. Un oggetto che non sia stato levigato viene definito grossolano, e questo epiteto, quando viene applicato agli uomini, non ha davvero nulla di lusinghiero. Ma ecco, la gentilezza viene assai spesso considerata come un articolo d'esportazione. Cortesi ed affabili con gli estranei, una volta rientrati in casa propria, non ci si fa più scrupoli. Dopo tutto, non si torna a casa per rilassarsi? Sia pure a patto che la molla non ferisca nessuno rilassandosi troppo bruscamente.
E' forse indispensabile per rilassarsi alzare la voce a dismisura o assumere un' aria arcigna? Aggrottare le sopracciglia o mettere il broncio non sono segno di una vera distensione, men­tre il sorriso, le attenzioni e le premure reci­proche creano in casa un'atmosfera di riposo e di pace. La cortesia non crea degli obblighi solo negli inferiori rispetto ai superiori. Badate, diceva Nostro Signore, di non dis­prezzare nessuno di questi piccoli. Gesù vuole che rispettiamo in ogni uomo la sua duplice dignità: di essere dotato di ragione e di figlio di Dio. Ogni uomo, qualunque sia la sua con­dizione, ha diritto ai nostri riguardi. Non si potrebbe definire meglio la cortesia. Il vostro focolare sarà una famiglia cristiana se tutti già fanno a gara nell'avere premure nei confronti degli altri. Abbiate riguardo dell'età degli anziani, i cui capelli sono diventati bianchi; abbiate riguardo della debolezza di quelli che dovete consigliare o rimproverare; abbiate riguardo della stanchezza di coloro che si ripiegano un po' troppo su se stessi. Bandite dal vostro vocabolario e dai vostri comporta­menti le asprezze che non esprimono i veri e profondi sentimenti d'affetto che provate gli uni per gli altri. Volete impegnarvici questa set­timana? Vi garantisco otto giorni di felicità.
Il contrassegno sicuro d'amore verso Dio sta nel conformarsi pienamente a tuta i Suoi voleri e fare che non vi sia differen­za alcuna tra la nostra e la Sua volontà.
LA PICCOLA VIRTU’ DELLA SINCERITA’
Dite sì, se è sì; no, se è no. Tale è la regola che Gesù impone ai suoi discepoli. Vuole che ci si possa credere sulla parola. Non c'è vita socia­le possibile, in effetti, se non ci si può fidare delle dichiarazioni altrui. Ingannare qualcuno, è trattarlo da nemico, ma è al tempo stesso disonorare se stessi e rendersi indegni di fidu­cia. Si capisce che Nostro Signore non accet­ti che delle labbra cristiane proferiscano una menzogna. Nessuna scappatoia né inganno: diciamo semplicemente la verità: si, se è sì; no, se è no.
Io vi farei un torto se sembrassi solo supporre che si osi mentire in un focolare cristiano. Sarò più categorico: laddove imperversa la menzogna, c'è solo forse la parvenza di un focolare, ma le mura hanno le crepe e la rovi­na, ahimè! è prossima. Non ci si può amare al di fuori della verità, e, nel linguaggio dell'af­fetto, la menzogna è né più né meno un tradi­mento.
Ma se è superfluo e, lo ripeto, offensivo ricor­dare ai membri di una famiglia unita il dove­re della franchezza, si può dire altrettanto della piccola virtù della sincerità?
Quando un giovane marmocchio s'imbroglia nelle spiegazioni che fornisce circa il suo comportamento, la madre lo interrompe: "Ma che mi racconti? Ti si muove il naso." E senza dubbio se il colpevole si guardasse allo spec­chio, contesterebbe a sua volta la veracità di sua madre. Ciononostante, costei non s'ingan­na. Le narici, le labbra, le palpebre del picco­lo fanfarone manifestano un leggero fremito che rivela che si sta prendendo qualche liber­tà con la verità. Ora questo difetto non è solo una cosa da bambini; i grandi, anche i molto grandi vi sono ugualmente soggetti, e, lo si voglia o no, queste distorsioni della verità costituiscono un certo abuso di fiducia, rischiano inoltre di aprire la porta a degli inganni più gravi. Bisogna proibirseli.
La caratteristica propria della sincerità è il non voler dire che delle cose vere. Alcuni hanno ipotizzato che questa parola derivereb­be dal latino sine cera, senza cera, alludendo alle cere, paste o unguenti di cui le dame romane si servivano per mascherare le rughe del viso. Anche le nostre Francesi conoscono questi segreti di bellezza, e poiché li impiega­no, io penso, per desiderio di risultare più gra­devoli a coloro che le circondano, ci si mostrerebbe ben severi biasimandole di una così lodevole attenzione, anche se nessun pre­parato varrà mai la freschezza naturale della giovinezza. Ma non si potrebbe scusare meglio chiunque ricorra a degli artifici simili per abbellire, colorare o camuffare la verità. La sincerità poggia su ciò che noi pensiamo e su ciò che noi facciamo. Essa ci obbliga dun­que in primo luogo a non essere del parere dell'ultimo che ha parlato e a non dissimulare il nostro modo di pensare. In famiglia capita che, col pretesto della carità, si preferisca abbondare come coloro che manifestano più energicamente la loro opinione. Per paura d'irritarli si dice amen a tutti i loro giudizi. "Perché contraddirli, dato che non li convin­ceremmo?" In tal modo garantite senz'altro la vostra tranquillità, ma non coprite la vostra ritirata sotto apparenze caritatevoli. E' lusin­ghiero per gli altri attribuire loro un carattere intero ed autoritario? Se voi ritenete che sba­glino, la carità vi consiglierebbe piuttosto di illuminarli con dolcezza, sottomettendo loro il vostro punto di vista che può allargare la loro visuale. La carità non vi costringe ad adottare un'opinione che non condividete affatto, vuole solamente che non feriate gli altri emet­tendo un parere differente dal loro.
Quando il re san Luigi domandò al signore di Joinville se non gli sembrasse meno grave essere colpito dalla lebbra piuttosto che com­mettere un peccato mortale, Joinville non temette di confessargli ingenuamente il suo modo di pensare. "Ed io, continuò, qui onc­ques ne mentis, dico che preferirei aver com­messo dieci peccati mortali che essere colpito dalla lebbra." Certo, il sovrano aveva ragione ed ammiriamo la sua santità, ma la lealtà del cavaliere non è meno ammirevole: "Io che non mento mai..." Ecco il tipo d'uomo since­ro, incapace di fingere.
La virtù della sincerità non si esercita soltan­to nell'esprimere il nostro pensiero, ma sul terreno più vasto dei fatti di cui noi siamo i testimoni o gli autori. Su questo punto, molte persone hanno difficoltà ad essere perfetta­mente oggettive, perché non vedono i soli fatti con i loro occhi e non li giudicano unicamen­te con la propria fredda ragione. Essi li inter­pretano sotto l'impulso, spesso incosciente, dei loro desideri o delle loro paure, della loro simpatia abile nello scusare i loro amici o della loro antipatia pronta a sospettare una cattiva intenzione presso gli altri.
Sapete che la funzione di testimone non è facile da compiere? Adempiervi bene suppor­rebbe che la nostra attenzione abbia osservato tutto e che la nostra memoria abbia trattenuto esattamente tutto come una lastra fotografica. Così, in mancanza di un'obiettività assoluta, raramente possibile, si deve possedere - e questa è una virtù - abbastanza disinteresse da dichiarare che noi riferiamo le cose come cre­diamo averle viste o sentite, tali almeno quali le abbiamo comprese, così come da esprime­re i nostri giudizi con le sfumature imposte dal rischio che corriamo sempre di snaturare anche se dico la realtà.
Tuttavia, il rischio è maggiore quando parlia­mo di ciò che abbiamo fatto noi stessi. Occorre un coraggio fiero per non accentuare ciò che ci mette in valore o per non attenuare quello che ci è sfavorevole. Ma esagerare la verità o rosicchiarla ingegnosamente, è sem­pre alterarla. Povera verità, sembra che uscen­do dal pozzo non abbia vestiti: questo spetta­colo ci è concesso raramente perché, quando si presenta in pubblico, qualcuno generalmen­te si è preso cura di vestirla. Che sia adorna di ricami innocenti, è un crimine benigno, pur­ché a forza di esagerazioni non sia resa irrico­noscibile. Ma chi non ha esagerato mai? Si esagera per rafforzare l'interesse di una storia; si esagera anche per vanità, per fare bella figura; va già meno bene, e non va più bene del tutto se si aggiusta la verità allo scopo di lusingare i gusti o le tendenze di un interlocu­tore. Lusingare qualcuno, significa fatalmente ingannarlo.
Forse siete più indulgenti verso quelli che sono spinti dalla timidezza a velare i propri errori o i propri torti. Capita, è sicuro, che si possa, senza mentire, non dire tutta la verità, ma, più spesso le reticenze e le preterizioni finiscono per falsarla. Bisogna quindi condan­narsi apertamente? E' talvolta un dovere che comporta, in compenso, il diritto d'invocare le circostanze attenuanti. Ma si guadagna sempre a parlare di sé con severità: quando ci si accusa, gli altri vi trovano delle scuse. E vice versa.
Infine il silenzio può, anche lui, testimoniare contro la verità. Per esempio, si è interrogati e, per dare una risposta soddisfacente, biso­gnerebbe dilungarsi in commenti. Allora, per pigrizia o per stanchezza, si semplifica, si schematizza, e della verità, non rimane un granché.
Ora, dei casi appena passati in rivista, questo mi pare il più pericoloso, perché viola la fidu­cia dovuta in famiglia. Se decidete che le vostre attività non interessino gli altri o che essi non vi abbiano niente a che vedere (eccet­to il caso, ben inteso, di un segreto di cui siate i depositari), voi create all'interno del focola­re domestico delle zone chiuse in cui l'indivi­dualismo rode poco a poco i legami della comunità familiare. Se sembrasse facile non dire tutto, presto sarà più semplice non dire nulla, e si finirà col vivere sotto lo stesso tetto, estranei gli uni agli altri. Non è forse lontano il momento in cui questo silenzio favorirà la dissimulazione di sentimenti e di azioni che non sono più completamente innocenti. Impercettibilmente abbiamo fatto il grande passo, siamo entrati nella menzogna. La pros­sima volta diremo che la carità pone dei limi­ti alla sincerità. Ma se siete autorizzati a tace­re certe cose a quelli che amate, proprio per­ché li amate, il medesimo principio vuole che abitualmente voi apriate loro largamente il santuario dei vostri pensieri e della vostra coscienza, che tutti voi mettiate in comune le vostre esperienze, le vostre riflessioni, i vostri desideri, che abbiate fiducia gli uni negli altri. Che un cristiano affermi o neghi, nessuno può contestare la sua parola: è si, se dice sì, e se dice no, è no.
LA PICCOLA VIRTU DELLA DISCREZIONE
Al dovere della sincerità di cui ho parlato, avrete apportato il correttivo richiesto, vale a dire che "la verità non sempre è cosa buona a dirsi". Io sottoscrivo volentieri questa riserva, se si tratta del bene della persona cui si parla: in tal caso, la carità è un limite legittimo; ma se la verità dovesse solo attirare dei fastidi a colui che parla, tacere non sarebbe sempre una ragione plausibile, e potrebbe accadere che la verità fosse cosa buona da dire, anche a scapito nostro. Resta fuori discussione che non si debba parlare senza discernimento, e l'arte di discernere ciò che si deve dire, così come la maniera di dirlo, costituiscono l'og­getto della virtù della discrezione.
Ancora una virtù "piccola", ma che contribui­sce fortemente alla pace del focolare. La virtù della discrezione consiste principalmente nel non voler conoscere tutto, e secondariamente nel saper non dire tutto.
Abbasso gli indiscreti che cercano d'infor­marsi su tutto di tutti e che vi fanno delle domande a bruciapelo su delle cose che non li riguardano! E' fin troppo chiaro che la verità non è dovuta a quelli che non vi hanno diritto, e che, per di più, potrebbero fare cattivo uso della risposta che vi avessero strappato. L'indagatore inopportuno non ha motivo di lamentarsi se avete eluso la sua richiesta edu­catamente o... bruscamente. Ogni famiglia ha la sua storia, i suoi progetti, i suoi segreti che può difendere dalla curiosità di quelle specie di ladri che sono gli indiscreti.
Ma ecco un caso più delicato. In una stessa famiglia si possono avere dei segreti gli uni per gli altri? Rispondo che ciascuno ha l'ob­bligo di rispettare la vita personale degli altri e di non tentare di forzarne l'accesso. Va da sé che quando il capofamiglia è medico o avvo­cato, è rigorosamente legato dal segreto pro­fessionale, che nessuno deve cercare di sco­prire. Convenite anche che una moglie, per quanto ami teneramente suo marito, non è maggiormente autorizzata a metterlo al cor­rente di una confidenza di un'amica venuta a cercare da lei un consiglio per una questione molto intima. Così come non ci permetterem­mo di disporre di una somma di denaro accet­tata in deposito, allo stesso modo il segreto che abbiamo acconsentito ad ascoltare non ci appartiene, è proprietà di colui che ce l'ha confidato; non abbiamo il diritto di divulgar­lo. I genitori possono avere dei segreti nei confronti dei loro figli già grandi; ma può suc­cedere il contrario, e ciò richiede molto tatto da parte dei genitori.
Senza dubbio, nei momenti critici attraversati talvolta dagli adolescenti, raramente essi tro­veranno, in genere, dei confidenti più attenti e più caritatevoli del proprio padre e della pro­pria madre. Ma vorranno confidarsi con essi solo se i genitori non faranno subire loro un interrogatorio troppo serrato e se non si lamenteranno troppo amaramente dei silenzi prolungati del figlio che cresce. A quest'ulti­mo direi: " Su, scuotiti un po', fai uno sforzo per partecipare alla conversazione familiare." E consiglierei ai genitori: "Lo vedete pensoso, imbronciato, il vostro intuito non v'inganna, ha un segreto. Il vostro affetto sia al tempo stesso vigile e paziente. Una domanda troppo diretta lo farebbe rinchiudere nel suo muti­smo. Aspettate. Presto una parola lo tradirà. Non la rilevate subito. Ma quando sarete in intimità con lui, chiedetegli con dolcezza cosa significasse quella parola. La confidenza verrà da sé."
Il metodo efficace è di essere noi stessi aperti e sorridenti, di ascoltare sempre gli altri - oh! Sì, bisogna aver cura di ascoltare, - ma anche di rispettare il loro silenzio. La fiducia altrui è proporzionata alla nostra discrezione.
E' forse necessario aggiungere che anche se le confidenze non le cerchiamo, è poi un dovere conservarle gelosamente per sé? E questo ci conduce al secondo aspetto della virtù della discrezione, di cui abbiamo molteplici occa­sioni nella vita di ogni giorno, intendo la pre­cauzione di non dire sconsideratamente tutto quello che si sa.
Gli antichi avevano fatto della discrezione una dea. La sua statua la rappresentava con le lab­bra ben chiuse, e l'avevano posta nel tempio della gioia. Questo è molto istruttivo, perché la discrezione porta in sé la sua ricompensa. Parlare troppo nuoce, afferma un proverbio; al contrario, normalmente non abbiamo che da rallegrarci per non aver parlato troppo. L'apostolo san Giacomo dichiara che l'uomo capace di dominare la propria lingua è un uomo perfetto, ma reputa che questa padro­nanza non sia una cosa comune. Questo era anche il parere dell'autore dell'Imitazione: "Più di una volta, confessa, ho rimpianto di non aver taciuto."
Sicuramente, un certo rilassamento nelle con­versazioni familiari è del tutto usuale. Si deve poter dire liberamente quel che si pensa: biso­gna comunque aver cura di pensare prima di parlare. E poi, anche in famiglia, a tutti è gra­dito che non si parli senza posa: allora si gusta forse maggiormente il piacere di trovarsi riuniti, mentre ciascuno è intento alla propria occupazione personale, chi la lettura, chi il cucito, chi i propri studi. Trattenersi, riposare, lavorare insieme è già una delle gioie dell'a­micizia, molto più sensibile quando non venga turbata con dei discorsi senza interesse. Ciononostante, specialmente in famiglia il più delle volte si parlerà. Prima precauzione da prendere: astenersi dal ripetere tutto quello che si è appreso fuori, prima di averlo con­trollato noi stessi. Naturalmente, più la notizia è inattesa, piccante, insolita, più si ha fretta e piacere nel divulgarla. Attenti alla reputazione del prossimo. Non rassicuratevi troppo presto. "Non c'è fumo senza fuoco", direte voi. In genere, nelle dicerie c'è più fumo che fuoco. "Questa diceria scherzosa non è tanto catti­va!" E' forse l'opinione di colui al quale, così allegramente, tagliate i panni addosso? Il pun­giglione della zanzara è meno spesso di un capello: tuttavia la sua puntura non ha niente di piacevole. E sareste lusingati che si facesse lo stesso nei vostri confronti? La discrezione costringe a discernere il vero dal falso nella storia che ci è stata raccontata; nell'incertez­za, non la ripetiamo; rinunciamo piuttosto a far ridere a scapito della verità e a spese degli altri. Anche se i fatti sfavorevoli agli altri fos­sero esatti, anche se fossero il segreto di Pulcinella, non diamo pubblicità ad una colpa. La teologia cattolica ha formulato, a proposito della maldicenza, una regola di ele­vata saggezza: "Non si ha il diritto di parlare delle colpe e dei difetti del prossimo che quando se ne ha il dovere." Sì, mettete in guardia gli altri dalla malaugurata influenza o dai cattivi comportamenti di terzi. Dite allora ciò che sapete per conoscenza certa, ma dite­lo gravemente, senza malizia, unicamente nel­l'interesse di colui che avete il dovere di pro­teggere. Infine, la virtù della discrezione c'impone di non dire agli altri ciò che dareb­be loro inutilmente un dispiacere. Notate l'av­verbio "inutilmente". I genitori devono riprendere un bambino colpevole; tra fratelli e sorelle, ci si può far notare reciprocamente i propri difetti: questo fa parte dell'educazione. Se l'avvertimento è pubblico, che esso sia breve e che si parli subito d'altro. Ma il rim­provero sarà più efficace e meno umiliante se viene fatto in privato. Gesù in persona ce lo consiglia: Se tuo fratello commette uno sba­glio, vallo a trovare e riprendilo da solo a solo. Al di fuori di questi casi necessari di correzione fraterna, badiamo a non dare dis­piaceri a qualcuno che ci ama, anche se, occa­sionalmente, ci fa perdere la pazienza o ci irri­ta. Avete la pretesa di dirgli il fatto suo. E per­ché? Lo ignoro, ma invece so che siete in col­lera. Se volete dirgli il fatto suo, ebbene!, cominciate col riconoscere tutte le sue quali­tà, dopodiché, passerete al capitolo dei difetti; nel frattempo, il vostro corruccio sarà cessato e sarete in grado di riprenderlo molto gentil­mente e con maggior profitto. No, non datevi dei dispiaceri in questo focolare in cui avete tanti altri motivi d'essere indulgenti. Certo, vi stuzzicate. S'indispettisce solo colui al quale si vuole molto bene. Imparate soltanto a maneggiare i dispetti. Gli scherzi migliori sono quelli brevi: non insistete su quel picco­lo difetto, su quel piccolo errore. La vostra vittima deve essere la prima a ridere della vostra osservazione. Fermatevi appena il riso comincia a diventare amaro. Cancellate la punzecchiatura con una buona dose di tene­rezza. Ma non usate mai - avete capito, mai - l'ironia, soprattutto i più anziani verso i più giovani. L'ironia ferisce sempre e le sue ferite sono profonde. Voi affermate: " La cugina Berta ha un bisogno irrefrenabile di cantare, e l'infelice è stonata. Le dovrò dire che è into­nata?" Certamente no, ma poiché ci mette tutta l'anima a cantare (o ad eseguire) la sua romanza, ditele che quella romanza è molto graziosa. Non mentirete e non l'addolorerete. Dopo tutto, la sua mania innocente vi avrà un po' divertito. Dunque saranno tutti contenti. Tutti? Non pensate che il mondo sia diviso in due categorie? A fianco di quelli che cercano di dare dei dispiaceri, ci sono tutti quelli, assai più numerosi, che si sforzano di far piacere. Avete già scelto da tanto tempo, siete fra i secondi. Ecco ciò che vi aiuterà a decidere con la discrezione voluta i casi di coscienza che vi ho sottoposto, con uguale rispetto della verità e della carità.
LA PICCOLA VIRTU DELLA GRATITUDINE.
La piccola virtù della gratitudine completa la prima trilogia delle virtù domestiche. Ci si fa da parte senza fatica davanti agli altri appena si pensa a ciò che ci danno, e la nostra rico­noscenza si manifesta usando delle cortesie a loro riguardo.
In seno alle famiglie, l'ingratitudine positiva, quella che si manifesta con la cattiveria, for­tunatamente è poco frequente. Il figlio ingrato che scappa dalla casa paterna sbattendo la porta, il padre despota che tratta sua moglie ed i suoi figli da schiavi costituiscono delle mostruosità. Ciò che è meno raro, in compen­so, è il dimenticare i piaceri che ci fanno gli altri o anche solo la pessima abitudine di non esprimere mai loro la nostra contentezza. A questi spiacevoli difetti occorre contrapporre la piccola virtù della gratitudine.
Gli smemorati sono, a quanto pare, molto numerosi. Ci autorizzerebbe a crederlo un episodio del Vangelo, mi riferisco a quello dei dieci lebbrosi che Gesù aveva guarito nei pressi di un villaggio. Quando queste persone videro che il loro male era scomparso, ce ne fu soltanto uno che andò a gettarsi ai piedi del Salvatore per ringraziarlo. Gesù non poté fare a meno di osservarlo: Non sono forse stati guariti in dieci? Dove sono gli altri nove? Quelli benedicevano senz'altro nel proprio cuore l'inviato di Dio che aveva avuto pietà della loro miseria; ma, ansiosi di far constata­re la propria guarigione dalle autorità ufficiali per poter rientrare nella comunità, trascuraro­no un atto di riconoscenza pure assai elemen­tare. Ora i nove smemorati erano dei compa­trioti di Gesù, e l'unico che abbia pensato a manifestargli la sua gratitudine era un Samaritano, uno straniero!
Nostro Signore sottolinea egli stesso questo contrasto a prima vista paradossale, ma che non è inaudito. Mentre spesso aspettiamo invano i ringraziamenti delle persone che abbiamo aiutato a costo di veri sacrifici, altri per i quali abbiamo fatto assai meno se ne ricordano molto tempo dopo e non sanno cosa inventare per contraccambiare. Non succede forse anche che, attenti al ringraziare un estraneo di un beneficio occasionale, sembria­mo non accorgerci nemmeno dei piaceri quo­tidiani che ci fanno i nostri parenti? Da parte loro, queste gentilezze sono quanto c'è di più naturale. E sia, ma lo sarebbe anche il dir loro che noi ne siamo riconoscenti.
La nostra memoria è singolarmente capriccio­sa, a meno che non si tratti del nostro cuore. Se noi dimentichiamo una cortesia di cui siamo stati oggetto, con che precisione man­teniamo il ricordo di una mancanza di riguar­do o di una parola offensiva! Lo dice un pro­verbio: La memoria del male ha una lunga traccia, quella del bene passa presto. Come sappiamo ricordare agli altri i nostri buoni servizi o la briga che ci siamo presi per far loro un favore! Il ricordo dei favori resi è più tenace di quello dei favori ricevuti. La vanità è così abile a falsare le prospettive! Ed è senza
dubbio meno grave che le nostre ingratitudini siano imputabili ad un prurito dell'amor pro­prio piuttosto che ad una mancanza d'affetto verso coloro che ci amano: eppure la cosa migliore sarebbe che il nostro affetto fosse abbastanza forte da rimanerci sempre ben in mente.
Bisogna quindi combattere il nostro maledet­to amor proprio e cominciare la lotta molto presto. In quale casa non si è sentito il seguen­te dialogo? Al pranzo familiare, il figlio chie­de un pezzo di pane a suo padre. Questi pren­de la pagnotta e ne taglia una bella fetta, che il figlio morde subito con grande appetito.
- Ebbene! Chiede il papà, come si dice? Con la bocca piena, il moccioso mormora un timi­do grazie. - Grazie a chi? - Grazie, papà...
E quante volte si ripresenterà questa scena? Una delle prime parole articolate dai vostri bambini è: no. Quella, è inutile insegnargliela, ma quante ripetizioni sono necessarie per inculcare loro l'abitudine di dire: grazie. Istintivamente, tendono la mano per ricevere: "Ancora, ancora!.." Il ringraziamento non risale dalle oscure regioni dell'istinto, scaturi­sce da una coscienza rischiarata dall'educa­zione.
Molti adulti a questo riguardo rimangono dei bambini per tutta la vita. Non sono mai soddi­sfatti; reclamano ancora; vogliono sempre di più. Insaziabili, si rendono infelici, affliggono e stancano gli altri dai quali esigono ancora e sempre di più. Come portarli a riconoscere che ciò che manca loro è poca cosa in con­fronto a tutto quello che hanno ricevuto? Come persuaderli soprattutto ad apprezzare maggiormente ciò che possiedono? Anche loro dovrebbero imparare a dire grazie.
Grazie, questa parolina gioiosa che termina con una sonorità cristallina, è la parola magi­ca che introduce nella famiglia la cortesia, il buon ordine e la serenità.
Grazie, è già la preghiera che da una famiglia cristiana si eleva a Dio per ringraziarlo. Avete notato il posto che occupa questo atto di gra­titudine nelle nostre preghiere abituali? Al mattino, diciamo: "Mio Dio, vi ringrazio di tutte le grazie che mi avete fatto fin qui. E' ancora per effetto della vostra bontà che vedo questo giorno..." E alla sera: "Quali azioni di grazie vi renderò, o mio Dio, per tutti i beni che ho ricevuto da voi. Voi avete pensato a me da tutta l'eternità, mi avete creato dal nulla, avete dato la vostra vita per riscattarmi e mi colmate, ancora ogni giorno, di un'infinità di favori..." Rifletteteci, non c'è un solo giorno in cui Dio non vi abbia concesso un beneficio particolare; perfino nei giorni in cui siamo stati provati, cercando bene, osserveremo che accanto alla nostra tristezza si è insinuata una piccola gioia. Non è forse una grande felicità l'unione che regna nel vostro focolare? Voi che vi amate, ringraziate Dio di una sorte tanto dolce.
Ma sappiate anche rivolgervela gli uni agli altri quella parolina che costa così poco da dire e che fa tanto bene ascoltare. Prima di addormentarvi, qualche volta riportate alla mente tutto ciò che, nella giornata che sta per finire, avete ricevuto dagli altri. Da tutti gli altri, perché è notevole il numero degli uomi­ni e delle donne che lavorano ogni giorno per nutrirvi, vestirvi, procurarvi le comodità del­l'esistenza. Anche se limitate il calcolo ai membri della vostra famiglia, sarete letteral­mente stupefatti da tutto quello che in un solo giorno ricevete da loro; tutto quello che vi hanno insegnato; i consigli che vi hanno dato; la manforte che vi hanno dato; talvolta un incoraggiamento, talaltra un avvertimento ma sempre per il vostro bene; una parola amore­vole che vi ha toccati, una parola divertente che ha dissipato le vostre noie; i loro successi di cui siete stati fieri; i loro sforzi che hanno stimolato i vostri. In una famiglia è un bel cal­colare ciò che ciascuno riceve dagli altri. Ed ecco certamente di che impegnarvi per non essere sempre colui che riceve. Domandatevi quindi: " Che cosa ho dato loro? Che posso dar loro in cambio?" Ma aspettando l'occa­sione di servirli con altrettanta generosità, non perdete quella di dire grazie quando essa si presenta. Grazie al minimo piacere reso da chi che sia, ma pronunciato senza affettazione, come si scambia uno sguardo. Da sé sola que­sta parolina ricompensa di tutte le fatiche; se necessario rimedia la frase un po' forte che vi è scappata poco prima; equivale ad un sorriso e spesso lo provoca; rende felice colui che la dice e colui al quale è rivolta. E' sorprendente osservare che nel momento in cui Nostro Signore andava volontariamente incontro alla morte per meritare agli uomini la vita eterna, ha voluto a ringraziare i suoi apostoli per l'at­taccamento che gli avevano provato quando viveva con loro. "Voi, disse loro, siete rimasti vicino a me nelle mie prove". La grandezza dell'anima di Gesù si rivela in questa delica­tezza. Egli non ha smesso di colmare i suoi apostoli, ha dato loro tutto, ed è lui che li rin­grazia.
Non è forse proprio di un cuore davvero gene­roso mostrarsi riconoscente verso gli altri per il poco che cercano di fare per lui? Gli ingra­ti si reclutano tra i cuori egoisti, gli spiriti meschini ed i caratteri mediocri. La piccola virtù della gratitudine è la prova di un gran cuore. Anche nei confronti di colui che è mal­destro o che sbaglia, dal momento che ha buona volontà, siate riconoscenti almeno per la sua intenzione. Quanto a quello che vi parla in questo momento, poiché avete avuto la pazienza di ascoltarlo, non può finire meglio che dicendovi grazie.
LA PICCOLA VIRTU’ DELLA MODESTIA
Virtù evangelica, senza ombra di dubbio. Osservate la Beata Vergine Maria. L'inizio del racconto di san Luca gravita intorno a Lei; è lei che ottiene da suo Figlio il miracolo di Cana; poi lei non interviene che una sola volta durante la missione del Salvatore. Nel tempo rimanente, lei resta nell'ombra, lasciando il posto alle pie donne che si prendono cura del Maestro e degli apostoli. Lei si fa da parte fino all'ora tragica della croce, quando ritorna vicino a Gesù che sta per morire.
Quale altro modello di riservatezza è san Giuseppe! Il Vangelo segnala la sua presenza ogni volta che il Bambino e sua Madre hanno bisogno dei suoi servigi. Dopo di che, non si parla più di lui. Quanto a Gesù, il Figlio di Dio che si è abbassato al nostro livello di crea­ture, ponete mente al modo in cui si sottrae alle ovazioni delle folle. Non vuole che si rumoreggi sulle guarigioni che opera. Si fa da parte davanti a suo Padre, di cui non è che l'inviato. Sono venuto, dichiara, non per esse­re servito, ma per servire. Perciò può racco­mandare al suo discepolo di non ricercare le situazioni onorifiche: Tu, gli dice, quando sei invitato ad un banchetto, va' a metterti all'ul­timo posto. Se sei degno di un rango più ele­vato, vi sarai condotto sicuramente. Avete inteso il consiglio di Nostro Signore: " Fatti da parte di fronte agli altri. Se puoi scegliere, occupa l'ultimo posto". Non ve ne lamentate, in questo modo sarete più vicini a Lui. Charles de Foucauld, l'eremita dell' Hoggar, di cui conoscete la strana carriera, dovette la sua conversione a questa semplice parola dell'aba­te Huvelin: Gesù ha talmente preso l'ultimo posto che nessuno ha potuto sottrarglielo.
Ma - c'è sempre un ma - il nostro amor pro­prio non ha il suo tornaconto in questo farsi da parte, e fa presto a rivendicare i suoi diritti quando addirittura non li pretenda, cosa che capita spesso. Farsi da parte? Rimanere nel­l'ombra? Gliela raccontiamo bella! L'amor proprio si afferma, campeggia, s'insedia, riconduce tutto a lui. Gli contrapponete gli altri? Degli altri non conosce che ciò che gli devono o che può ricavarne. Da qui nascono i conflitti che distruggono la buona intesa tra gli uomini. "Perché dovrei venire dopo gli altri, non sono altrettanto capace?" penserà uno. "Ho i loro stessi bisogni, ritiene un altro, e per lo meno altrettanti meriti". Io sono il capo, stima un altro, il mio ruolo è forse quel­lo di farmi da parte, dal momento che devo esercitare l'autorità?". E siamo ad un passo dal concludere che l'umiltà non possa essere ritenuta una virtù, perché se la si mettesse in pratica, condurrebbe all'annichilimento di ogni personalità. Ecco ciò che denota un'e­strema confusione delle idee. Il Vangelo - avremo occasione di riaffermarlo - è una scuola di grandezza e di audacia. Ben lungi dall'annichilirci, ci obbliga al contrario a trar­re tutto il profitto possibile dalle nostre quali­tà naturali, a metterci in avanti per agire, ma dopo aver fatto del nostro meglio, per non metterci in valore. E' il primo aspetto della virtù del cancellare se stessi (della virtù di modestia, n. d. r.). Del resto, la parola lo indica molto chiaramente. Lo scolaro non avrebbe nulla da "cancellare" sulla lavagna se non vi avesse precedentemente scritto delle cifre o delle lettere. Io non posso farmi da parte che dopo aver agito; non posso tenermi nell'om­bra se non dopo essermi mostrato. L'umiltà non consiste nel nascondersi per non fare niente, ma nel non avere ammirazione per se stessi quando si è fatto il più ed il meglio pos­sibile. Dirò di più. Se si vuol portare a buon fine un lavoro, bisogna avere di mira solo il lavoro, senza ricercare gli applausi. Se si vuol parlare in modo utile, bisogna pensare unica­mente a quel che si dice, senza ascoltarsi par­lare. Non si può essere contemporaneamente spettatori ed attori; non ci si può mettere alla finestra per vedersi passare per strada. Il buon artigiano è tutto preso dalla sua opera; si fa piccolo davanti ad essa. Purché sia ben fatta, è soddisfatto e rifiuta come indegno di lui ogni moto di vanità e sentimento di sufficienza. Si vuol pretendere che la sua modestia l'abbia annichilito? Da parte mia trovo che questa persona umile sia straordinariamente fiera. Perché la fierezza non è l'orgoglio: ben oltre, essa lo esclude. Non soltanto la piccola virtù del farsi da parte non ci sminuisce, ma presenta un altro aspetto sotto il quale s'impa­renta con la carità. Il discepolo di Gesù Cristo, se non prova ammirazione per sé, in compen­so si compiace nel riconoscere ciò che gli altri fanno di buono e soprattutto ciò che fanno meglio di lui. Non lo si sente vantarsi, ma è il primo a lodare con gioia i successi altrui. Così come si fa piccolo dietro al suo operato ben fatto, rimane molto semplicemente nell'om­bra davanti alle qualità ed ai meriti dei suoi simili. Di questa disposizione, san Paolo non esita a fare un precetto universale: Che cia­scuno di voi, scrive, reputi in tutta umiltà che gli altri gli sono superiori. Non protestate. L'Apostolo non vi chiede di negare l'eviden­za. No, non chiudete gli occhi sulle vostre qualità personali; anche voi, su parecchi punti, siete più abili o più virtuosi di molte persone. Ciò non toglie che anche coloro di cui avete il diritto di stimarvi superiori abbia­no delle attitudini e forse anche delle virtù che voi non possedete, o almeno allo stesso grado. Se noi guardiamo con obiettività, non c'è nes­suno che non ci superi in qualche cosa: quel tale è più energico, quell'altro più ingegnoso, questa più vivace, quella più indulgente. Cerchiamo sempre di riconoscere le qualità degli altri e facciamoci da parte lealmente di fronte alla loro superiorità. Ancora un passo ed arriviamo alla perfezione. Poiché gli altri hanno come noi dei meriti e dei diritti, perché dovremmo esigere che si pieghino sempre ad ogni nostra volontà? Dobbiamo saper farci da parte di fronte ai desideri o alle preferenze delle persone con cui viviamo.
Sicuramente, esistono delle circostanze in cui un capo famiglia deve imporre la sua decisio­ne, per non tradire il proprio dovere di stato; ma allora, non è la sua opinione o il suo gusto personale che fa prevalere: pretende il rispet­to di una legge superiore alla quale si sotto­mette per primo. All'infuori di questi casi in cui l'autorità ha il dovere di esercitare le sue responsabilità, la buona intesa sarà garantita sempre meglio a quella famiglia in cui ognu­no si proporrà di far piacere agli altri.
Penso che in questo nessuno mi contraddirà. Se la madre ha il merito di essere definita la regina del focolare, non è perché tutti le obbe­discono ma perché ella si fa continuamente piccola per essere al servizio di tutti. Gesù non ha forse affermato che è più grande colui che serve gli altri? Ebbene! Sarebbe ingiusto che la mamma fosse l'unica a farsi da parte. Tutti devono imitarla e, così facendo, tutti contribuiscono al benessere della famiglia. Le famiglie infelici sono quelle rette dalle due brutte leggi del "ognuno per sé" e del "io prima di tutto". Al regno dell'egoismo, Cristo ha sostituito quello dell'amore, che implica l'abnegazione. Nelle famiglie cristiane, l'or­dine egoistico è rovesciato: "Prima gli altri: io, dopo." Si trova la felicità nel rendere felici gli altri. Invece di impossessarsi della sedia più comoda o di far ambire la parte migliore, ciascuno pensa ad offrirle agli altri e si ralle­gra nel concedere loro quel piacere.
Gli sposi sono sempre d'accordo quando, prima di esprimere un desiderio, il marito e la moglie, ognuno per conto proprio, si chiedo­no intimamente: "Lei, che cosa preferisce?" "Lui, cosa desidera?" E' una gara a chi accon­tenterà l'altro. E voi, figlioli, credete che papà e mamma non rinuncino spesso ai loro como­di per farvi piacere? Sono felici della vostra gioia. A vostra volta, non perdete nessuna occasione per indovinare le loro preferenze e fatevi da parte, gentilmente, senza farlo nota­re. Non dite: "Non si pensa a me, sono sacri­ficato." In una famiglia in cui tutti si sforzano di praticare la virtù di modestia, nessuno è sacrificato. Non c'è più bisogno di pensare a sè, gli altri ci pensano prima di voi. Nessuno viene dimenticato allorché ognuno dimentica se stesso per gli altri.
- E' il paradiso in terra?
- In fede mia, lo penso davvero, e desidero con tutto il cuore che voi lo possiate speri­mentare.
Estratto dal libro: Les petites vertus du foyer, Georges Chevrot, ed. Le Laurier, Paris.
Sapete voi quali sono i cuori che amano veramente Dio? Sono quelli, che senza far distinzione di peccato grave o leggero, si guardano per quanto possono, dal darGli il più piccolo disgusto.
LA PICCOLA VIRTU’ DELLA SPERANZA
(…) …la speranza è una grandis­sima virtù, sia perché il suo oggetto è Dio stesso posseduto in cielo, sia perché per non dubitare di una tale felicità, noi che viviamo nell'oscurità, nelle, difficoltà nella sofferenza, dobbiamo fare un atto di fede totale nella bontà di Dio ed amarlo di un amore simile al suo, amore che si dà prima di aver ricevuto. Ma questo prezioso lingot­to della speranza soprannaturale si paga nel corso di tutta la vita con una quantità di atti di fiducia in Dio, che ci autorizzano a par­lare, secondo Péguy, della "piccola speran­za" quotidiana, "quella che ci dà il buon­giorno ogni mattina". E' questa che vorrei veder risplendere in tutte le vostre famiglie in quest'inizio di anno nuovo. Nel linguag­gio cristiano, la speranza non è una previ­sione, contrariamente a ciò che immagina­no tante persone per cui "sperare" consiste nello scrutare l'avvenire, nel soppesare le probabilità per stabilire pronostici; dopodi­ché, concludono: Per me ci sono buone speranze, o al contrario: non ho grandi spe­ranze, che significa in realtà: credo di avere o non avere delle probabilità di successo. Vi sorprenderei forse dichiarando che quei calcoli non hanno nulla in comune con la speranza cristiana? Questa, benché rivolta al futuro, sta interamente nel presente. Sperare, non è essere sicuri del domani, è avere fiducia oggi, non fiducia negli avve­nimenti imprevedibili, ma in Dio che li dirige e ci ama. "Lasciate ai pagani, dice­va Gesù, la preoccupazione di sapere ciò che avranno da mangiare o di cosa si vesti­ranno domani". Si diano pure pensiero, le loro preoccupazioni non prolungheranno  la loro vita di un minuto. Dio non vi avrebbe chiamati alla vita se non avesse provveduto ai vostri mezzi di sussistenza. Sulla terra c'è di che nutrire e vestire tutti gli uomini. Che tutti siano fedeli ai suoi comandamen­ti e pratichino la giustizia, nessuno quaggiù mancherà di nulla. Per ciò che vi riguarda, fate coscientemente il vostro dovere, impe­gnatevi coraggiosamente nel vostro compi­to ed abbiate fiducia nel vostro Padre cele­ste che conosce i vostri bisogni." E Gesù traccia la nostra regola di condotta in una forma divenuta proverbiale: Non vi preoc­cupate del domani. Domani avrà cura di se stesso. Ad ogni giorno basta la sua pena. Ecco la Speranza secondo il Vangelo: non si fonda sull'impossibile sicurezza del domani, ma ci procura la pace nell'insicu­rezza di ogni giorno. E' oggi che noi spe­riamo, senza sapere nulla di ciò che ci riser­va il domani: la nostra sicurezza risiede nella certezza che Dio ci ama; è in lui che noi speriamo. Ahimè! Una paura istintiva ci spinge a scrutare l'avvenire, questo "Spettro sempre mascherato che ci segue fianco a fianco - E che si chiama domani, - Come dice il poeta. - Oh! domani, è la grande questione, - Di che sarà fatto doma­ni?... - Domani, è il bagliore nel velo, - E' la nuvola sulla stella..." I versi di Victor Hugo abitano la nostra memoria.
Tuttavia il ­grande poeta qui s'inganna. La grande que­stione non è domani. La grande questione, è oggi. Oggi, noi possiamo scongiurare i mali di domani che deriverebbero dalle nostre imprudenze: domani, sarebbe troppo tardi. Oggi noi possiamo pesare le conse­guenze dei nostri atti. Domani, non ci sarà più che da subirle. Ad ogni giorno basta la sua pena. La speranza cristiana obbligan­doci a vivere giorno per giorno ci risparmia le delusioni e gli scoraggiamenti. Costruire dei castelli in Spagna è il mezzo più sicuro di finire a dormire a cielo aperto, al contra­rio il timore di non avere più un tetto para­lizza i nostri sforzi. Non sogniamo dei domani fantastici, non inquietiamoci di domani tragici, facciamo tranquillamente il dovere del giorno presente che conosciamo e sapremo riempire quello di domani che noi ignoriamo.
Ad ogni giorno basta la sua pena. Com'è buono Dio ad averci nascosto l'avvenire! Se conoscessimo la prova che ci attende nei giorni a venire, il suo peso ci spaventereb­be e ci schiaccerebbe in anticipo. Pensiamo solamente a sopportare il fardello di oggi, è adeguato alle nostre forze. Domani avrà cura di se stesso. Domani Dio ci darà delle nuove forze per far fronte alle nuove diffi­coltà che ci sono sconosciute. Gesù ci proi­bisce di preparare questi domani? Niente affatto, perché coloro che non vedono oltre il presente corrono incontro alla rovina.
Il Signore ci proibisce soltanto di inquietar­ci del domani. L'imprevidenza è una colpa, perché sacrifica l'avvenire al presente; ma l'inquietudine non è un errore minore, per­ché sacrifica il presente all'avvenire. L'inquietudine è, sempre nociva, è gene­ralmente illusoria. Quando ci si è ben pre­muniti contro tutte le disgrazie possibili, o non se ne avvera nessuna e ci si è affannati per niente, oppure ne sopraggiunge un'altra che non avevamo previsto. Costui si è pri­vato per anni per non aver bisogni nei gior­ni della sua vecchiaia, ed ecco che la svalu­tazione non gli lascia altro che pezzi di carta senza valore. Quest'altro che si mette al sicuro da tutte le malattie future, non gode della salute presente tanto ha paura dei microbi e delle correnti d'aria. "I pau­rosi, scrive Shakespeare, muoiono parec­chie volte prima della loro morte." L'inquietudine è demoralizzante; non eli­mina le disgrazie temute, le anticipa; ingrandisce le difficoltà; distrugge la pas­sione del rischio senza la quale l'uomo non ha coraggio. Ricordate queste frasi così semplici e così vere di Péguy: "Non amo, dice Dio, colui che specula sul domani, non amo colui che sa meglio di me quello che sto per fare. Pensate al domani, non vi dico: calcolate il domani. Non siate quell'infeli­ce che si rigira e si consuma nel suo letto ­per sapere come sarà la giornata di domani. Sappiate solo che quel domani di cui si parla sempre è il giorno che verrà e che esi­sterà per ordine mio come gli altri." Cari amici, coltivate nella vostra famiglia la pic­cola virtù della speranza che, elevando i vostri sguardi verso Dio, vi renderà capaci di ogni coraggio perché vi libererà da tutte le paure.
LA PICCOLA VIRTU' DELL'ECONOMIA
Temo che leggendo questo titolo molti di voi siano trasaliti. "Come, avrete pensato, con i tempi che corrono, in cui abbiamo tante diffi­coltà a sbarcare il lunario, si può forse pensa­re di fare economie?" Mi affretto a dirvi che non è questa la mia intenzione. Una delle caratteristiche della lingua francese è quella di accettare che si metta da parte del denaro per averlo un domani. Del resto, questa misura di prudenza difficilmente potrebbe passare per un atto di virtù. La virtù dell'economia consi­ste nello sforzarsi di non perdere nulla e di far uso di ogni cosa nel miglior modo possibile. Ammetterete senza sforzi che essa ha la sua importanza nelle vostre case e perfino che è molto d'attualità.
Aggiungo, ed è questo che mi dà il coraggio di affrontare questo argomento, che è stato Nostro Signore in persona a predicarci l'eco­nomia in una circostanza che voi conoscete bene, dopo la prima moltiplicazione dei pani. Vi ricorderete di come una folla di cinquemi­la uomini avesse ascoltato i suoi insegnamen­ti per tutta la giornata; giunta la sera, il Maestro non volle rimandarli a casa digiuni. Ma in prossimità del luogo deserto in cui si trovavano, non c'era un paese in cui potesse­ro rifornirsi di pane; Gesù fece dunque siste­mare i suoi ascoltatori in gruppi di cento e cinquanta e, prendendo le cinque focacce d'orzo che gli offriva un ragazzino, le molti­plicò con tale abbondanza che tutti i presenti ne ebbero a sazietà. Molto di più, tenuto conto dei commensali accorti che non trascurarono di conservare per il cammino qualche pezzo dell'alimento veramente caduto dal cielo, rimanevano qua e là per terra gli avanzi del pasto. Si spreca più facilmente il pane che non abbiamo dovuto faticare a guadagnarci da sé. Fu allora che il Signore, rivolgendosi agli apostoli, dette loro un ordine che, a prima vista, contrasta stranamente con la prodigalità di cui aveva appena dato prova: Raccogliete, disse, i pezzi che restano, affinché niente vada perduto. Effettivamente, gli avanzi così riuni­ti riempirono dodici ceste. Il pranzo dell'in­domani, insomma. La precauzione non era stata inutile.
Devo forse confessarvi che questa lezione di economia non m'impressiona meno del mira­colo stesso? Si può quindi essere al tempo stesso generosi ed economi; bisogna addirit­tura essere economi per potersi mostrare generosi. Inoltre, Gesù ci insegna che i doni di Dio, anche quelli più inattesi, non devono ren­derci passivi. Contare su Dio non ci dispensa dal contare su di noi. Noi riceviamo da Lui tanti beni; il tempo, gli alimenti, i vestiti, il denaro che ce li procura, e la salute, l'intelli­genza, l'abilità, la forza... La buona resa della nostra attività e l'agiatezza della nostra fami­glia ci ingiungono di non sprecare niente e di utilizzare al meglio le nostre minime risorse: questo è l'oggetto della virtù dell'economia. La parola "economia" deriva dal greco e let­teralmente si tradurrebbe la legge della casa, o l'ordine nella casa. Voi lo sapete, una casa è piacevole solo se vi regna l'ordine. Mi par di sentire la buona mamma, custode vigile del focolare, ripetervi la parola di Gesù: "Raccogliete tutto quello che è fuori posto." Ed il padre farle eco: "Un posto per ogni cosa e ogni cosa a suo posto." Dei vestiti spazzola­ti regolarmente e piegati con cura durano più a lungo. Gli oggetti sistemati dopo averne fatto uso sono meno esposti a rompersi. Il tempo che occorre a sistemare le proprie cose è meno lungo di quello perso a cercare dove abbiamo potuto perderle.
In una casa ordinata, non si è soliti sprecare e si trae profitto da cose che altri mandano ai rifiuti. Un foglio di carta, un pezzettino di stoffa, un pezzo di spago o di lana, invece di essere buttati nel secchio della spazzatura, sono riposti in una scatola o in un cassetto speciale, e un giorno si è contenti di trovarli. L'economia non deve essere confusa con la tirchieria, essa al contrario permette di spendere, ma consapevolmente. C'è gente che si rovina spendendo a sproposito. Si lascia ten­tare dall'attrattiva di un prezzo poco elevato, ma ha secondo quello che spende. Mi diceva qualcuno: "Non sono abbastanza ricco da comprare della paccottiglia." Calcolare non è spilorceria, ma perspicacia in vista di spese utili. Certo, ora è difficile stabilire un bilancio, anche quello della famiglia. Qui di nuovo l'eco­nomia non stringerà impietosamente i cordoni della borsa, ma ordinerà saggiamente le spese, lesinando sul superfluo per garantire l'indispen­sabile. Se in questa materia avessi voce in capi­tolo, direi al marito: "Dia a sua moglie un po' più di quello che le chiede", ed alla moglie: "Spenda sempre meno di quanto non contasse fare." Ecco quello che ristabilirà l'equilibrio e salvaguarderà la pace della coppia.
Siamo ben lontani dalla religione, penserà qual­cuno. Affatto. La parola di Nostro Signore citata poco fa basta a convincervi che non abbiamo lasciato il terreno religioso.
La virtù dell'economia, in effetti, c'insegna a rispettare l'opera di Dio riconoscendo il prez­zo di tutti i beni di cui godiamo. Chi può dire a Dio: Dacci oggi il nostro pane, colui che spreca o colui che non vuole perdere niente, perché ne conosce il valore? Ricordatevi sotto quali tratti Gesù ci ha dipinto il peccatore. Non è andato a cercare nei bassifondi della società un criminale sordido. Ha rappresenta­to il figlio cadetto di un coltivatore, che dila­pida stupidamente la fortuna acquisita lenta­mente da suo padre. Il prodigo, il dissipatore offendono Dio, perché disconoscono il frutto del lavoro umano.
Perché dobbiamo amministrare saggiamente i beni di cui disponiamo? Perché non c'e alcu­na cosa di cui disponiamo senza l'aiuto dei nostri simili. Siete proprio voi che vi siete guadagnati il pane che mangiate; ma quel pane è anche il lavoro degli altri. Lo dovete al contadino che ha seminato il grano, ai mieti­tori che l'hanno falciato e riposto nel granaio, al mugnaio che l'ha trasformato in farina, ed infine al panettiere. Passate in rassegna tutti gli oggetti di cui vi servite: testimoniano la meravigliosa collaborazione degli uomini, in cui ognuno è al servizio degli altri. Ne conse­gue che non abbiamo il diritto di sprecare. In una magnifica pagina in cui condanna gli uomini che abusano delle loro ricchezze, P. Gratry s'interrompe per predicare il rispetto e la stima del denaro: "Che cos'è dunque il denaro, scrive, e da dove proviene? Il denaro, è lavoro accumulato, è tempo, è vita umana, è sangue, sudore, lacrime. Ecco quello che tenete fra le mani. Non avete il diritto di pro­fanarlo."
Sì, colui che spende a destra e a manca non nuoce solo ai suoi propri interessi, fa torto agli altri, annientando ciò che potrebbe, di conseguenza ciò che deve servire a qualcuno. Se il Vangelo ci comanda di essere economi, è prima di tutto per aumentare le nostre possi­bilità di aiutare alcuni meno fortunati di noi. Vista sotto questa angolatura, l'economia non ci appare più come una vecchietta misera e avara che ha sempre paura di mancare di tutto e che finisce con l'incontrare un imbroglione che la deruba. L'economia, io la vedo al con­trario come una persona molto curata nel suo abbigliamento e lungimirante: non lo fa vede­re, ma non ce n'è un'altra come lei per scova­re le buone occasioni. Lei si accontenta di quello che ha, perché è ricca... di tutti i biso­gni inutili che non si è creata. Vi vede in dif­ficoltà? Vi aiuta subito, perché lasciando che nulla vada perduto, ha sempre qualcosa da dare. L'avete riconosciuta, non è lontana da voi. Vi faccio le mie congratulazioni, la vostra casa non mancherà di nulla.
LA PICCOLA VIRTU' DELL'ESATTEZZA
Nel linguaggio corrente, dire di qualcuno che è esatto, significa elogiarlo per essere presen­te all'ora stabilita. Noi ripetiamo che "l'esat­tezza è la cortesia dei re". Quello è solo uno dei significati dell'esattezza. La nostra parola "esatto" è la traduzione di un participio latino che significa compiuto, oppure eseguito con­formemente a regole e modelli determinati. Così si parla di una riproduzione esatta o di un calcolo esatto. Un lavoro esatto è fatto con cura, come una narrazione oggettiva e precisa costitui­sce un racconto esatto. Questa cura e questa pre­cisione caratterizzano l'uomo puntuale, il quale fa al momento giusto quello che deve.
II campo della virtù dell'esattezza di cui devo parlarvi è così vasto che mi limiterò a conside­rarla sotto l'aspetto della puntualità.
In che modo la puntualità potrebbe non esse­re una virtù, dato che il suo contrario, l'ine­sattezza, è un difetto terribile? Che il pranzo non sia pronto quando tutti i commensali sono riuniti, o che si debba aspettare un ritardatario per mettersi a tavola, non occorre altro per caricare d'elettricità l'atmosfera domestica. Ci può senz'altro capitare di dimenticare occasionalmente l'ora, di aver calcolato male il nostro tempo, o di essere in ritardo a causa di un incidente imprevedibile. Un'eccezione si può tollerare. In compenso, le persone abi­tualmente in ritardo sono delle vere calamità. Avete notato il posto occupato dall'esattezza nelle parabole del Vangelo? E' la storia delle cinque damigelle d'onore che arrivano in ritardo alla sala delle nozze e trovano la porta impietosamente chiusa, o per contrasto l'apo­logo dei servitori che spiano il ritorno del loro padrone per potergli aprire appena egli bussi. L'inesattezza implica una trasgressione alla carità e spesso alla giustizia verso il prossimo. Il bambino che non rientra all'ora stabilita talvolta dà alla propria madre una preoccupa­zione che doveva risparmiarle. Se è sconve­niente far aspettare un superiore, far aspettare un inferiore è un' impertinenza sempre offen­siva. In ogni caso, il ritardatario fa perdere a quelli che lo aspettano un tempo che avrebbe­ro potuto utilizzare meglio. Si dice del can­celliere di Aguesseau, che dei capricci dome­stici condannavano a pasti a delle ore irrego­lari, che ingannasse l'impazienza scrivendo; così riuscì a scrivere un'opera importante che naturalmente dedicò a sua moglie: gentile e giusta vendetta. Poiché non tutti hanno queste risorse, non resta altroché maledire la noncu­ranza dei "cronofagi" a cui pensava quell'uo­mo d'affari americano, che fece pubblicare nei giornali, per quelli che lo avevano deruba­to del suo tempo, il seguente annuncio: "Il Sig. X... questa settimana ha perso due ore d'oro, ognuna di sessanta minuti di diamanti. Non si promettono ricompense, perché non le ritroveremo mai."
Nell'inesattezza vi è una forte dose d'egoi­smo che dovrebbe farci riflettere. E dato che attendere ci risulta così sgradevole, impegnia­moci a non far aspettare gli altri. Non far aspettare la mamma che controlla il quadran­te dell'orologio per paura che l'arrosto sia troppo cotto. Non far aspettare il cliente che vorrebbe entrare in possesso della sua ordina­zione. Non far aspettare il regolamento della nota del fornitore che ha bisogno del proprio denaro. Ed in genere non far aspettare il ser­vizio promesso. Dice un proverbio: " Chi dà presto, dà due volte."
Ma se il ritardatario danneggia i suoi simili, fa un grave torto a se stesso. Le sue inesattezze sono la prova che è incapace d'imporsi una disciplina, sia che bighelloni e sprechi il pro­prio tempo, sia che voglia fare più cose di quelle che può. In effetti, ci sono due tipi di ritardatari, quelli cha hanno sempre tempo, i perdigiorno, e quelli che hanno sempre fretta, i trafelati. Ora il tempo è la ricchezza più preziosa che Dio abbia messo a nostra disposi­zione e ci chiederà conto dell'uso che ne avre­mo fatto: dunque non bisogna perderne nulla; ma Dio ha fissato anche il ritmo del tempo e noi dobbiamo rispettarne il cammino. Qualcuno ha detto: "non ho tempo di avere fretta." Niente di più giusto. Se pretendiamo di sbrigare in venti minuti un affare che ne richiede il doppio, il lavoro sarà affrettato, l'operato mal fatto: bisognerà ricominciarlo e, per aver voluto guadagnare tempo andando troppo in fretta, ci troveremo in ritardo.
Noi saremo esatti se eviteremo questi due difetti. E prima di tutto le perdite di tempo. Verso la fine del suo ministero, Nostro Signore fece questa riflessione davanti ai suoi apostoli: Bisogna che compia la mia opera finché è giorno; giunta la notte, non si può più lavorare. Padrone del tempo, Gesù cono­sceva il prezzo delle ore. Seguendo il suo esempio, prendiamo il tempo sul serio. E' vero che la nostra vita è breve: tuttavia quan­te cose si possono fare in una vita d'uomo, se si utilizzano le giornate in modo esatto! Troppe persone, invece di iniziare subito un'opera necessaria, la rimandano all'indo­mani dicendo: "C'è tempo." E quando, dopo qualche giorno, non l'hanno ancora comincia­ta, con perfetta mancanza di logica, adducono come scusa: "non ho avuto tempo."
So che la maggior parte di voi deve fornire delle ore di lavoro che assorbono la miglior parte della vostra attività. Tuttavia, senza con­tare i giorni di riposo di cui disponete libera­mente, anche nei giorni lavorativi vi resta un po' di tempo per voi. Fate fruttare il tempo che vi appartiene. Sul suo letto d'ospedale, Jacques d'Arnoux pensava: "La tua vita sarà breve, bisogna che sia piena", e pregava così: "Mio Dio, dammi l'esecrazione dei minuti perduti." E non perdendo tempo, possiamo imparare e fare molte cose, e al tempo stesso evitiamo la precipitazione, l'altro nemico dell'esattezza. Organizziamo le nostre giornate senza conge­stionarle, prevedendo perfino una parte d'im­previsti. Il progresso ci fa dei brutti scherzi: a forza di dividere il tempo seguendo il mecca­nismo preciso dei nostri orologi che ignorano lo stato del cielo, siamo arrivati al punto di non distinguere più il giorno dalla notte. Il coltivatore, invece, regola la propria giornata sul sole e fa i conti con le stagioni, così come il pescatore fa con la luna ed il movimento delle maree. Restando in contatto con la natu­ra, obbediscono alle leggi del Creatore: così il loro lavoro risulta più metodico e la loro vita più regolare, non perdono tempo facendo le cose col tempo dovuto.
Sappiamo, come loro, consultare la natura e fare le cose col tempo dovuto. Essere pronti senza essere di fretta. Lo strapazzo e la dis­persione nuocciono alla qualità dell'azione. Molti credono di agire quando non fanno che agitarsi; affermano di macinare tanto lavoro ma, per una triste legge del contrappasso, l'eccesso di lavoro li schiaccia a sua volta. Riserviamoci ogni giorno dei momenti di svago; non sono minuti persi, soprattutto quando li dedichiamo a conversare e a diver­tirci in famiglia. Crediamo all'insostituibile potenza del riposo.
A cosa dobbiamo che ci siano tanti ritardata­ri? Al fatto che si alzano all'ultimo minuto e dopo non possono più recuperare il ritardo mattutino? E perché si alzano tardi? Perché sono andati a letto troppo tardi.
Gratry, che mi compiaccio di citarvi (perché questo precursore ha detto tutto), scriveva: "Noi siamo sterili per la mancanza di riposo ancor più che di lavoro... Il riposo del corpo, è il sonno... Il riposo per la mente e l'anima, è la preghiera." Neppure il tempo concesso alla preghiera è tempo perso. Quello, lo rigua­dagniamo presto. Ponendoci ogni giorno alla presenza di Dio noi capiamo meglio il valore del tempo ed impariamo a svolgere il nostro compito con esattezza.
Estratto dal libro: Les petites vertus du foyer, Georges Chevrot, ed. Le Laurier, Paris
Dal sito http://www.preghiereagesuemaria.it/


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