Capitolo
IV - L’UMILTA’ ESTERIORE
Disse
il profeta Eliseo ad una povera vedova: Prendi tutti i vasi vuoti che
hai e riempili d’olio. Per ricevere la grazia di Dio nei nostri
cuori, dobbiamo vuotarli di noi stessi. Il gheppio, stridendo e
fissando gli uccelli da preda, li mette in fuga per una forza
misteriosa; per questo è il preferito delle colombe, che vicine a
lui si sentono sicure. Allo stesso modo l’umiltà respinge Satana e
conserva in noi le grazie e i doni dello Spirito Santo. E’ per
questo che i Santi, e in modo particolare il Re dei Santi e sua
Madre, onorano e amano l’umiltà più di tutte le altre virtù
morali.
Sono
diverse le ragioni per le quali dobbiamo considerare vana la gloria
che ci viene attribuita: o perché non è in noi, o anche perché,
pur essendo in noi, non è nostra; o anche perché, pur essendo in
noi ed essendo nostra, non è meritata. La nobiltà della stirpe, il
favore dei potenti, la popolarità, sono glorie che non hanno radice
in noi, ma o nei nostri predecessori o nella stima degli altri. C’è
gente che va superba e altera perché cavalca un bel destriero,
perché ha un bel pennacchio sul cappello, perché indossa vestiti
meravigliosi. Non ti pare che quella gente sia un po’ matta? Se
proprio vogliamo parlare di gloria, spetta al cavallo, allo struzzo,
al sarto. Ci vuole proprio un bel coraggio per prendere in prestito
un po’ di stima da un cavallo, da una piuma, da una piega
dell’abito!
Altri
si sentono importanti e si danno delle arie per un bel paio di baffi
all’insù, per una barba ben curata, per i capelli ricciuti, per le
mani delicate; perché sanno danzare, giocare, cantare; e non ti pare
che anche questi abbiano una rotellina fuori posto? Vorrebbero
aumentare il proprio pregio e la propria reputazione con cose frivole
e insulse!
Ci
sono poi quelli che, per quel poco che sanno, esigono onore e
rispetto dal mondo intero; tutti dovrebbero, secondo loro,
precipitarsi a imparare qualcosina alla loro scuola. Loro si sentono
maestri, la gente li considera soltanto dei pedanti. Ci sono anche
quelli che sono convinti di essere molto belli e credono che tutti li
corteggino.
Tutto
ciò è tremendamente vuoto, sciocco e senza senso; la gloria che
proviene da "valori" così insignificanti deve essere
ritenuta vana, sciocca e frivola.
Il
bene vero si conosce come il vero balsamo: la prova della genuinità
del balsamo si fa distillandolo nell’acqua; se va a fondo e rimane
sommerso è valutato finissimo e prezioso. Allo stesso modo per
sapere se un uomo è veramente saggio, sapiente, generoso, nobile,
bisogna vedere se le sue doti tendono all’umiltà, alla modestia,
al nascondimento; in tal caso si tratta di doti genuine; ma se
galleggiano e si mettono in mostra sono false e tanto maggiori
saranno gli sforzi che faranno per farsi notare, tanto più sarà
evidente che non sono doti autentiche.
Le
perle nate e cresciute all’aperto, al vento e al rumore dei tuoni,
hanno soltanto l’involucro di perle, dentro sono vuote. Allo stesso
modo le virtù e le belle qualità degli uomini, nate e cresciute
nell’orgoglio, nell’esaltazione di sé e nella vanità, hanno
soltanto l’apparenza del bene, senza linfa, senza midollo e senza
solidità. Gli onori, la stirpe, le dignità sono come lo zafferano:
più lo calpesti e più si rinforza e rende bene. Essere belli,
quando ci si tiene, perde il suo pregio: la bellezza per piacere deve
essere disinvolta; la scienza ci rende ridicoli quando ci gonfia e
degenera in pedanteria.
Se
siamo puntigliosi per la stirpe, per il rango, per i titoli, offriamo
le nostre qualità all’esame sindacatore degli altri, alla loro
inchiesta su di noi, all’indagine e così ci ritroveremo le nostre
credute qualità svuotate e scostanti; sì, perché l’onore che è
bello quand’è ricevuto in dono, diventa dozzinale e di nessun
pregio quando è preteso, cercato e mendicato.
Quando
il pavone fa la ruota per farsi notare, drizzando le sue belle piume,
scopre tutto il resto e fa vedere da tutte le parti ciò che ha di
meno bello; i fiori sono belli quando sono piantati in terra; una
volta staccati appassiscono. Il profumo della mandragora può esserci
di aiuto per capire: coloro che la odorano da lontano e di passaggio,
ne rimangono conquistati; ma coloro che la odorano da vicino e con
insistenza ne rimangono intontiti o addirittura ammalati; lo stesso
avviene per gli onori che danno una dolce consolazione a chi li gode
da lontano e solo leggermente senza spenderci troppo e diventare
ansioso; ma chi ci si attacca e se ne ciba, merita di essere
biasimato e ripreso.
La
ricerca e l’amore della virtù ci rende già un po’ virtuosi; la
ricerca e l’amore degli onori invece, ci rende soltanto meritevoli
di disprezzo e di rimprovero. Le persone serie non perdono tempo
nell’inutile groviglio di gerarchie, di onori, di saluti; hanno
altro da fare! Questo è un terreno per il perditempo.
Chi
può avere perle non va alla ricerca di conchiglie: coloro che
tendono alla virtù, non si agitano alla caccia di onori.
Ognuno
ha diritto di rimanere nel proprio rango senza mancare di umiltà, a
condizione che ciò avvenga con naturalezza e senza contese.
Mi
sembra che si possa fare un paragone con quelli che tornano dal Perù
i quali, oltre all’oro e all’argento, portano con sé anche
scimmie e pappagalli; costano poco e non pesano molto per il carico
della nave; così è di coloro che tendono alla virtù senza per
questo lasciare il loro rango e gli onori inerenti; a condizione che
ciò non sottragga loro troppo tempo e troppa attenzione e che sia
senza gravarsi di dubbi, d’inquietudine, di dispute e di contese.
Tuttavia non parlo di coloro la cui dignità è in rapporto con una
carica pubblica e nemmeno di alcune situazioni particolari nelle
quali le conseguenze potrebbero incidere negativamente; in tali casi
ognuno deve rimanere al posto che gli compete con prudenza e
discrezione, accompagnate sempre da carità e cortesia.
Capitolo
V -L’UMILTA’ INTERIORE
Tu,
Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho
detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello
dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti
non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente,
non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e
nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino
dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei
suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi
proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio
quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua
giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha
fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come
dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare
alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i
doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre
presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da
noi.
Rifletti:
i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali
solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti
al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E
se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il
contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la
conoscenza genera la riconoscenza.
Ma
se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in
qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile:
pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla
nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio
non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad
imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne
proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il
merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La
Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto
per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore,
dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso
diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la
spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla
lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’
proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo
perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli
ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma
soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà
vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà;
perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma
soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse
lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe
atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere
completamente ignorata e nascosta.
Eccoti
il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure
diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle
parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non
giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero.
Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione;
aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che
cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno;
questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta
della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso
di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta
male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune
espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non
sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che
le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare
rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un
significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di
male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente
preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente
possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e
dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità
affettuosa.
L’uomo
sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché
lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a
nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di
cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia
contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti
affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti
perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il
coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono
sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere
causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della
loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro
talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono
la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di
qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri.
Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di
umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con
molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o
almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria
opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda
a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del
mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo
domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso.
Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando
d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole
dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è
orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è
obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo
perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più
possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite
ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova
tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più
diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in
Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra
debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra
miseria.
Molto
umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato
opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la
responsabilità della nostra anima.
Pensare
di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il
sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è
una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente
nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando
lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e
dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile
all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà
nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando
lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà
richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte
chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude
soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che
questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e
nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire
solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo,
non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù
sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di
umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non
vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà
mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi
impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria
all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la
finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E
anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per
essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per
lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto
motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a
trarre conclusioni per noi.
Davide,
saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti
all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto
semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la
gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando
sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso
all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale
schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di
disprezzo per il suo Dio.
Per
questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta
devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o
pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non
ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.
Capitolo
VI - L’UMILTA’ CI FA AMARE L’ABIEZIONE
Procedo
oltre, Filotea, e ti dico di amare l’abiezione sempre e in tutto.
Ma, mi chiederai, che cosa vuol dire amare la propria abiezione? In
latino abiezione vuol dire umiltà e umiltà vuol dire abiezione; di
modo che, quando la Madonna nel suo Cantico dice che, poiché il
Signore ha visto l’umiltà della sua serva, tutte le generazioni la
chiameranno beata, vuol dire che il Signore, con bontà, ha guardato
la sua abiezione, la sua meschinità, la sua bassezza, per colmarla
di grazia e di favori. C’è tuttavia differenza tra la virtù
dell’umiltà e l’abiezione; l’abiezione è la pochezza, la
bassezza e la meschinità che alberga in noi, senza che ci pensiamo;
la virtù dell’umiltà invece, è la conoscenza veritiera e
l’ammissione della nostra abiezione.
L’apice
dell’umiltà così intesa consiste non soltanto nel riconoscere la
nostra abiezione, ma nell’amarla ed esserne contenti; non per
mancanza di coraggio o di generosità, ma per esaltare maggiormente
la Maestà divina e dare al prossimo una stima maggiore che a noi
stessi. Ti incoraggio a questo e, per essere più esplicito, ti dirò
che, tra i mali che ci affliggono, alcuni sono spregevoli, altri
onorati; a quelli onorati molti si adattano, ma nessuno vuol saperne
di quelli spregevoli. Prendi, per esempio, un devoto eremita, coperto
di cenci e tremante dal freddo: tutti onoreranno il suo abito a
brandelli e proveranno compassione per la sua sofferenza; ma se un
povero artigiano, un povero galantuomo o una povera ragazza si
trovano nelle stesse condizioni, verranno coperti di disprezzo,
derisi e la loro povertà sarà spregevole.
Se
un Religioso accetta con devozione un duro richiamo dal superiore, o
un figlio dal padre, tutti chiameranno quel comportamento
mortificazione, obbedienza, saggezza; se un cavaliere o una dama
dovessero subire, per amore di Dio, la stessa cosa da parte di
qualcuno, di qualunque cosa si tratti, tutti la chiameranno codardia
o vigliaccheria: ecco un altro male spregevole.
Poni
il caso che uno abbia un tumore al braccio e un altro al volto: il
primo soffre soltanto il male, ma il secondo, con il male, si trova
il disprezzo, l’isolamento e l’abiezione.
Io
ti dico che non soltanto devi amare il male, il che è opera della
virtù della pazienza; tu devi amare anche l’abiezione, e questo è
opera dell’umiltà.
Ci
sono poi delle virtù disprezzate e delle virtù onorate: la
pazienza, la dolcezza, la semplicità e la stessa umiltà, per i
mondani , sono virtù vili e da disprezzare; per contro stimano molto
la prudenza, il valore, la liberalità.
Ci
sono addirittura atti della stessa virtù che a volte sono
disprezzati e a volte onorati; prendi, ad esempio, l’elemosina o il
perdono delle offese; sono entrambi atti di carità: la prima è
onorata da tutti, il secondo è disprezzato dal mondo. Un giovanotto
o una ragazza che non si lasciano trascinare ai disordini di una
brigata dissoluta nel parlare, nel giocare, nel ballare, nel bere,
nel vestire come loro, saranno scherniti e criticati e il loro
riserbo sarà chiamato bigottismo o esibizionismo. Amare queste
conseguenze vuol dire amare la propria abiezione.
Passiamo
a un altro campo: la visita agli ammalati. Se ti mandano dal più
reietto secondo il mondo, per te sarà un’abiezione; per questo
l’amerai. Se ti mandano da gente bene sarà un’abiezione secondo
lo spirito, perché il merito e le virtù saranno minori; amerai
anche quella abiezione. Se si cade nel bel mezzo della strada, oltre
al male, ci trovi la vergogna; anche questa va amata. Ci sono alcune
colpe che non comportano altro male all’infuori dell’abiezione;
l’umiltà non esige che le commettiamo apposta, ma, che una volta
commesse, non ce ne preoccupiamo. Si tratta di certe sciocchezze,
mancanze di educazione, o sbadataggini, che vanno evitate finché si
è in tempo, per comportarsi educatamente e con prudenza; ma una
volta che ci siamo caduti, bisogna accettare l’abiezione che ne
consegue ed accettarla di cuore per amore dell’umiltà.
Ma
vado oltre: se per collera o mancanza di controllo, mi sono lasciata
andare a parole indecorose o offensive di Dio e del prossimo, me ne
pentirò sinceramente e sarò profondamente dispiaciuta per l’offesa
che cercherò di riparare meglio che potrò; ma non lascerò passare
l’occasione per accettare volentieri l’abiezione e il disprezzo
che ricadranno su di me. Se fosse possibile separare le due cose,
respingerei con forza il peccato e terrei umilmente l’abiezione.
Ma
pur amando l’abiezione che deriva dal male, non bisogna arrendersi
alle fatalità del male che ne è la causa; bisogna correre ai
ripari. Occorre farlo in modo efficace e con cura, soprattutto poi,
quando il male è soltanto una conseguenza.
Se
sono afflitta da un male spregevole al volto, farò di tutto per
guarire, senza far nulla perché sia dimenticata l’abiezione che me
ne è venuta. Se ho commesso qualche cosa che non offende alcuno, non
cercherò scuse, perché, pur trattandosi di un difetto, non è
permanente; se mi scusassi sarebbe solo per evitare l’abiezione che
me ne viene. Questo l’umiltà non lo permette. Ma, se per
disattenzione o leggerezza, ho offeso o scandalizzato qualcuno,
riparerò l’offesa con qualche scusa che risponda a verità; perché
in tal caso, il male ha radici e la carità esige che lo sradichi.
Qualche
volta capita anche che la verità esiga che poniamo rimedio
all’abiezione per il bene del prossimo, al quale è necessaria la
nostra buona reputazione; in tal caso pur togliendo l’abiezione
dagli occhi del prossimo, per impedirne lo scandalo, dobbiamo
rinchiuderla e nasconderla nel nostro cuore perché ne sia edificato.
Tu,
Filotea, vuoi sapere quali sono le abiezioni migliori: ti dico
subito, e senza esitazione, che quelle più utili all’anima e più
gradite a Dio, sono quelle che incontriamo per caso o che sono legate
alla nostra condizione; la ragione è che non le abbiamo scelte noi,
ma le abbiamo ricevute come Dio ce le ha mandate. E Lui sa scegliere
sempre meglio di noi. Se fosse necessario scegliere, ricordati che le
più grandi sono le migliori; e sai quali sono le più grandi? Quelle
maggiormente contrarie alle nostre inclinazioni, sempre, beninteso,
in linea con la nostra vocazione. Te lo dico una volta per sempre: la
nostra scelta e la nostra preferenza rovina, o almeno diminuisce,
tutte le nostre virtù. Chi ci farà la grazia di poter dire con il
grande Re Davide: "Ho scelto di essere abietto nella casa del
Signore. Piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori"?
Il
solo che lo può, cara Filotea, è Colui che per innalzare noi, è
vissuto e morto come obbrobrio degli uomini e abiezione del popolo.
Ti
ho detto molte cose che potranno sembrarti dure quando ci rifletterai
sopra; ma, credimi, risulteranno più dolci dello zucchero e del
miele, quando le metterai in atto.
Capitolo
VII - COME VA CONSERVATO IL BUON NOME PRATICANDO L’UMILTA’
Per
una virtù ordinaria non ci si scomoda a lodare, ad onorare, a dare
gloria a chi la possiede; questo si fa soltanto quando la virtù è
eccellente.
Con
la lode, infatti non vogliamo portare gli altri ad avere stima per le
ottime qualità di qualcuno; con l’onore facciamo sapere a tutti
che quella stima noi l’abbiamo; la gloria, poi, a mio parere, è il
lustro della reputazione che scaturisce dalla somma di molte lodi e
onori: possiamo dire che le lodi e gli onori sono come pietre
preziose, dalla composizione delle quali, come un gioiello, nasce la
gloria.
L’umiltà
non accetta che noi pensiamo di essere migliori e che abbiamo diritto
di essere anteposti agli altri; non permette nemmeno che andiamo alla
caccia di lodi, di onori, di gloria, cose che devono essere tributate
soltanto all’ottimo.
Accetta
il consiglio del Saggio che dice di aver cura del nostro buon nome,
perché il buon nome è la stima, non dell’ottimo, ma soltanto di
una semplice e ordinaria prudenza e onestà di vita, che l’umiltà
non ci impedisce di riconoscere in noi stessi; di conseguenza non ci
vieta di desiderarne il relativo buon nome.
E’
vero che l’umiltà disprezzerebbe il buono nome se la carità non
ne avesse bisogno; ma visto che è uno dei fondamenti della società
umana, e che, senza di essa, noi siamo addirittura dannosi per la
gente e non soltanto inutili, a motivo dello scandalo che daremmo; la
carità richiede e l’umiltà di buon grado accetta, che noi
desideriamo e conserviamo con cura il buon nome.
Prendi
a paragone le foglie degli alberi che, di per sé, non valgono gran
che, e tuttavia rendono un grande servizio, non solo nel dare un
bell’aspetto all’albero, ma anche nel proteggere i frutti finché
sono teneri; è la stessa cosa per il buon nome che, per sé, non è
da considerare fortemente; tuttavia è molto utile, non soltanto come
abbellimento della vita, ma anche per proteggere le nostre virtù, in
modo particolare quelle ancora tenere e deboli.
L’obbligo
di conservare il buon nome e di essere realmente come la gente ci
stima, esige che abbiamo un coraggio generoso sostenuto da una forte
e dolce violenza.
Conserviamo
le nostre virtù, cara Filotea, perché sono gradite a Dio, grande e
sommo fine di tutte le nostre azioni; ma allo stesso modo che coloro
i quali vogliono conservare i frutti, non si accontentano di fare
marmellate, ma li sigillano in vasi adatti alla conservazione, così,
pur rimanendo l’amore di Dio la principale garanzia per le nostre
virtù, possiamo servirci, a tale scopo, anche del buon nome e con
utilità.
Tuttavia
nella difesa del nostro buon nome non dobbiamo essere troppo zelanti,
esatti e puntigliosi: quelli che sono delicati e sensibili in modo
esagerato per tutto ciò che concerne la loro reputazione,
assomigliano a quelli che ingurgitano medicine per il minimo
disturbo: costoro, infatti, volendo proteggere la loro salute, la
rovinano del tutto; così, chi vuole, con troppa premura, proteggere
il proprio buon nome, lo perde del tutto, e sai perché? La tenerezza
verso se stessi rende strani, ribelli, insopportabili, pasto ideale
per i maldicenti.
Non
dar peso e disprezzare l’ingiuria e la calunnia, ordinariamente è
un rimedio molto efficace del risentimento, della contestazione,
della vendetta: il dispetto le rende evanescenti; chi se ne inquieta,
invece, dà l’impressione di confessare.
I
coccodrilli fanno del male soltanto a coloro che ne hanno paura; la
maldicenza fa del male solo a chi se ne preoccupa.
Il
timore eccessivo di perdere il buon nome dimostra mancanza di fiducia
nel suo fondamento, che è la vita onesta. Le città dotate di ponti
di legno su grandi fiumi, ad ogni alluvione temono di vederli
travolti; quelle invece che sono dotate di ponti in pietra, temono
soltanto in caso di piene eccezionali. Similmente coloro che hanno
un’anima cristiana con solide basi, non fanno abitualmente caso
alle alluvioni delle lingue malefiche; coloro invece che si sentono
deboli, temono di essere travolti ad ogni occasione.
Chi
vuol godere di un buon nome nei confronti di tutti, lo perde proprio
nei confronti di tutti: merita di perdere l’onore chi vuole
mendicarlo da coloro che il vizio ha reso indiscutibilmente infami e
senza onore.
Il
buon nome è l’insegna che indica dove alloggia la virtù; è
evidente che la virtù viene prima. Ecco perché, se ti dicono: sei
un ipocrita perché ti sei incamminata nella devozione; se ti
considerano un uomo senza carattere perché hai perdonato
un’ingiuria, lascia correre, non farci caso. Per prima cosa abbi
presente che tali giudizi sono emessi da persone vuote e
superficiali; quand’anche poi il buon nome si perdesse davvero,
l’importante è non perdere la virtù e non deviare dal suo
cammino; mi pare logico che si dia la preferenza ai frutti sulle
foglie, ossia ai beni spirituali interiori su quelli esteriori. Va
bene essere gelosi del proprio buon nome, ma non idolatri! E’ vero
che non bisogna scandalizzare l’occhio dei buoni, ma nemmeno si
deve contentare quello dei cattivi. La barba è un ornamento adatto
al volto dell’uomo e i capelli a quello della donna: se si
strappano alla radice i peli dal mento o i capelli dalla testa ,
probabilmente non rispunteranno più; ma se li tagli soltanto, o
magari anche li radi, rispunteranno molto presto, più forti e più
folti. Lo stesso avviene per il buon nome: la lingua dei maldicenti
può tagliarlo o anche addirittura raderlo, giacché, dice Davide, è
come un rasoio affilato; ma niente paura! Rispunterà presto più
bello di prima e anche più forte! Se invece il nostro buon nome
viene distrutto dai nostri vizi, dalle vigliaccherie, dalla nostra
cattiva condotta, beh! Allora possiamo aspettare tutto il tempo che
vogliamo, e non rispunterà! Sarà inutile l’attesa perché abbiamo
estirpato la radice.
La
radice del buon nome è la bontà e l’onestà della vita; finché
sono presenti in noi, possono sempre rigenerare il buon nome
giustamente conquistato.
Lascia
quella vuota conversazione, quell’attività inutile, quell’amicizia
frivola, quella compagnia equivoca, se danneggiano il tuo buon nome,
perché il buon nome vale più di tutte quelle vuote soddisfazioni;
ma se la gente mormora, riprova o calunnia perché ti impegni nella
pietà per avanzare nella devozione e nel cammino verso il bene
eterno, lascia abbaiare i cani contro la luna; anche se dovessero
riuscire a costruire un’opinione negativa sul tuo buon nome, e in
tal modo tagliare e radere i capelli e la barba del buon nome, sta
tranquilla che presto rispunterà. Il rasoio della maldicenza sarà
utile al tuo onore, come la roncola alla vigna, perché la rende
copiosa di frutti.
Teniamo
sempre gli occhi fissi a Gesù Cristo crocifisso, camminiamo al suo
servizio con fiducia e semplicità, accompagnata da saggezza e
devozione: sarà lui a proteggere il nostro buon nome. Se permette
che ci sia tolto è solo per darcene uno migliore o per favorirci
nella crescita dell’umiltà. Ricorda bene che un’oncia di umiltà
vale più di mille libre di onore.
Se
veniamo ripresi ingiustamente, opponiamo serenamente la verità alla
calunnia; se persiste, insistiamo nell’umiltà. Mettiamo il nostro
buon nome, unitamente alla nostra anima nelle mani di Dio,; non
potremo trovare migliore garanzia.
Serviamo
Dio nella buona e nella cattiva fama, sull’esempio di S. Paolo;
potremo così dire con Davide: Mio Dio, è soltanto per Te che ho
sopportato l’obbrobrio e che ho tollerato che la vergogna coprisse
il mio volto.
Faccio
eccezione per certi crimini talmente atroci e infamanti che nessuno
deve accettare di vedersene attribuita la paternità; anzi bisogna
liberarsi anche del sospetto se si può fare nel rispetto della
giustizia.
La
stessa eccezione va fatta per le persone dal cui buon nome dipende
l’edificazione di molti; in tali casi è necessario perseguire la
riparazione del torto ricevuto, e questo secondo la più rigorosa
morale teologica.
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