venerdì 1 maggio 2015

L’UMILTA - S. Francesco di Sales: La Filotea: Parte III



Capitolo IV - L’UMILTA’ ESTERIORE
Disse il profeta Eliseo ad una povera vedova: Prendi tutti i vasi vuoti che hai e riempili d’olio. Per ricevere la grazia di Dio nei nostri cuori, dobbiamo vuotarli di noi stessi. Il gheppio, stridendo e fissando gli uccelli da preda, li mette in fuga per una forza misteriosa; per questo è il preferito delle colombe, che vicine a lui si sentono sicure. Allo stesso modo l’umiltà respinge Satana e conserva in noi le grazie e i doni dello Spirito Santo. E’ per questo che i Santi, e in modo particolare il Re dei Santi e sua Madre, onorano e amano l’umiltà più di tutte le altre virtù morali.
Sono diverse le ragioni per le quali dobbiamo considerare vana la gloria che ci viene attribuita: o perché non è in noi, o anche perché, pur essendo in noi, non è nostra; o anche perché, pur essendo in noi ed essendo nostra, non è meritata. La nobiltà della stirpe, il favore dei potenti, la popolarità, sono glorie che non hanno radice in noi, ma o nei nostri predecessori o nella stima degli altri. C’è gente che va superba e altera perché cavalca un bel destriero, perché ha un bel pennacchio sul cappello, perché indossa vestiti meravigliosi. Non ti pare che quella gente sia un po’ matta? Se proprio vogliamo parlare di gloria, spetta al cavallo, allo struzzo, al sarto. Ci vuole proprio un bel coraggio per prendere in prestito un po’ di stima da un cavallo, da una piuma, da una piega dell’abito!
Altri si sentono importanti e si danno delle arie per un bel paio di baffi all’insù, per una barba ben curata, per i capelli ricciuti, per le mani delicate; perché sanno danzare, giocare, cantare; e non ti pare che anche questi abbiano una rotellina fuori posto? Vorrebbero aumentare il proprio pregio e la propria reputazione con cose frivole e insulse!
Ci sono poi quelli che, per quel poco che sanno, esigono onore e rispetto dal mondo intero; tutti dovrebbero, secondo loro, precipitarsi a imparare qualcosina alla loro scuola. Loro si sentono maestri, la gente li considera soltanto dei pedanti. Ci sono anche quelli che sono convinti di essere molto belli e credono che tutti li corteggino.
Tutto ciò è tremendamente vuoto, sciocco e senza senso; la gloria che proviene da "valori" così insignificanti deve essere ritenuta vana, sciocca e frivola.
Il bene vero si conosce come il vero balsamo: la prova della genuinità del balsamo si fa distillandolo nell’acqua; se va a fondo e rimane sommerso è valutato finissimo e prezioso. Allo stesso modo per sapere se un uomo è veramente saggio, sapiente, generoso, nobile, bisogna vedere se le sue doti tendono all’umiltà, alla modestia, al nascondimento; in tal caso si tratta di doti genuine; ma se galleggiano e si mettono in mostra sono false e tanto maggiori saranno gli sforzi che faranno per farsi notare, tanto più sarà evidente che non sono doti autentiche.

Le perle nate e cresciute all’aperto, al vento e al rumore dei tuoni, hanno soltanto l’involucro di perle, dentro sono vuote. Allo stesso modo le virtù e le belle qualità degli uomini, nate e cresciute nell’orgoglio, nell’esaltazione di sé e nella vanità, hanno soltanto l’apparenza del bene, senza linfa, senza midollo e senza solidità. Gli onori, la stirpe, le dignità sono come lo zafferano: più lo calpesti e più si rinforza e rende bene. Essere belli, quando ci si tiene, perde il suo pregio: la bellezza per piacere deve essere disinvolta; la scienza ci rende ridicoli quando ci gonfia e degenera in pedanteria.
Se siamo puntigliosi per la stirpe, per il rango, per i titoli, offriamo le nostre qualità all’esame sindacatore degli altri, alla loro inchiesta su di noi, all’indagine e così ci ritroveremo le nostre credute qualità svuotate e scostanti; sì, perché l’onore che è bello quand’è ricevuto in dono, diventa dozzinale e di nessun pregio quando è preteso, cercato e mendicato.
Quando il pavone fa la ruota per farsi notare, drizzando le sue belle piume, scopre tutto il resto e fa vedere da tutte le parti ciò che ha di meno bello; i fiori sono belli quando sono piantati in terra; una volta staccati appassiscono. Il profumo della mandragora può esserci di aiuto per capire: coloro che la odorano da lontano e di passaggio, ne rimangono conquistati; ma coloro che la odorano da vicino e con insistenza ne rimangono intontiti o addirittura ammalati; lo stesso avviene per gli onori che danno una dolce consolazione a chi li gode da lontano e solo leggermente senza spenderci troppo e diventare ansioso; ma chi ci si attacca e se ne ciba, merita di essere biasimato e ripreso.
La ricerca e l’amore della virtù ci rende già un po’ virtuosi; la ricerca e l’amore degli onori invece, ci rende soltanto meritevoli di disprezzo e di rimprovero. Le persone serie non perdono tempo nell’inutile groviglio di gerarchie, di onori, di saluti; hanno altro da fare! Questo è un terreno per il perditempo.
Chi può avere perle non va alla ricerca di conchiglie: coloro che tendono alla virtù, non si agitano alla caccia di onori.
Ognuno ha diritto di rimanere nel proprio rango senza mancare di umiltà, a condizione che ciò avvenga con naturalezza e senza contese.
Mi sembra che si possa fare un paragone con quelli che tornano dal Perù i quali, oltre all’oro e all’argento, portano con sé anche scimmie e pappagalli; costano poco e non pesano molto per il carico della nave; così è di coloro che tendono alla virtù senza per questo lasciare il loro rango e gli onori inerenti; a condizione che ciò non sottragga loro troppo tempo e troppa attenzione e che sia senza gravarsi di dubbi, d’inquietudine, di dispute e di contese. Tuttavia non parlo di coloro la cui dignità è in rapporto con una carica pubblica e nemmeno di alcune situazioni particolari nelle quali le conseguenze potrebbero incidere negativamente; in tali casi ognuno deve rimanere al posto che gli compete con prudenza e discrezione, accompagnate sempre da carità e cortesia.


Capitolo V -L’UMILTA’ INTERIORE


Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.
Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.
Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.
L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.
Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.
Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.
Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.
Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.


Capitolo VI - L’UMILTA’ CI FA AMARE L’ABIEZIONE
Procedo oltre, Filotea, e ti dico di amare l’abiezione sempre e in tutto. Ma, mi chiederai, che cosa vuol dire amare la propria abiezione? In latino abiezione vuol dire umiltà e umiltà vuol dire abiezione; di modo che, quando la Madonna nel suo Cantico dice che, poiché il Signore ha visto l’umiltà della sua serva, tutte le generazioni la chiameranno beata, vuol dire che il Signore, con bontà, ha guardato la sua abiezione, la sua meschinità, la sua bassezza, per colmarla di grazia e di favori. C’è tuttavia differenza tra la virtù dell’umiltà e l’abiezione; l’abiezione è la pochezza, la bassezza e la meschinità che alberga in noi, senza che ci pensiamo; la virtù dell’umiltà invece, è la conoscenza veritiera e l’ammissione della nostra abiezione.
L’apice dell’umiltà così intesa consiste non soltanto nel riconoscere la nostra abiezione, ma nell’amarla ed esserne contenti; non per mancanza di coraggio o di generosità, ma per esaltare maggiormente la Maestà divina e dare al prossimo una stima maggiore che a noi stessi. Ti incoraggio a questo e, per essere più esplicito, ti dirò che, tra i mali che ci affliggono, alcuni sono spregevoli, altri onorati; a quelli onorati molti si adattano, ma nessuno vuol saperne di quelli spregevoli. Prendi, per esempio, un devoto eremita, coperto di cenci e tremante dal freddo: tutti onoreranno il suo abito a brandelli e proveranno compassione per la sua sofferenza; ma se un povero artigiano, un povero galantuomo o una povera ragazza si trovano nelle stesse condizioni, verranno coperti di disprezzo, derisi e la loro povertà sarà spregevole.
Se un Religioso accetta con devozione un duro richiamo dal superiore, o un figlio dal padre, tutti chiameranno quel comportamento mortificazione, obbedienza, saggezza; se un cavaliere o una dama dovessero subire, per amore di Dio, la stessa cosa da parte di qualcuno, di qualunque cosa si tratti, tutti la chiameranno codardia o vigliaccheria: ecco un altro male spregevole.
Poni il caso che uno abbia un tumore al braccio e un altro al volto: il primo soffre soltanto il male, ma il secondo, con il male, si trova il disprezzo, l’isolamento e l’abiezione.
Io ti dico che non soltanto devi amare il male, il che è opera della virtù della pazienza; tu devi amare anche l’abiezione, e questo è opera dell’umiltà.
Ci sono poi delle virtù disprezzate e delle virtù onorate: la pazienza, la dolcezza, la semplicità e la stessa umiltà, per i mondani , sono virtù vili e da disprezzare; per contro stimano molto la prudenza, il valore, la liberalità.
Ci sono addirittura atti della stessa virtù che a volte sono disprezzati e a volte onorati; prendi, ad esempio, l’elemosina o il perdono delle offese; sono entrambi atti di carità: la prima è onorata da tutti, il secondo è disprezzato dal mondo. Un giovanotto o una ragazza che non si lasciano trascinare ai disordini di una brigata dissoluta nel parlare, nel giocare, nel ballare, nel bere, nel vestire come loro, saranno scherniti e criticati e il loro riserbo sarà chiamato bigottismo o esibizionismo. Amare queste conseguenze vuol dire amare la propria abiezione.
Passiamo a un altro campo: la visita agli ammalati. Se ti mandano dal più reietto secondo il mondo, per te sarà un’abiezione; per questo l’amerai. Se ti mandano da gente bene sarà un’abiezione secondo lo spirito, perché il merito e le virtù saranno minori; amerai anche quella abiezione. Se si cade nel bel mezzo della strada, oltre al male, ci trovi la vergogna; anche questa va amata. Ci sono alcune colpe che non comportano altro male all’infuori dell’abiezione; l’umiltà non esige che le commettiamo apposta, ma, che una volta commesse, non ce ne preoccupiamo. Si tratta di certe sciocchezze, mancanze di educazione, o sbadataggini, che vanno evitate finché si è in tempo, per comportarsi educatamente e con prudenza; ma una volta che ci siamo caduti, bisogna accettare l’abiezione che ne consegue ed accettarla di cuore per amore dell’umiltà.
Ma vado oltre: se per collera o mancanza di controllo, mi sono lasciata andare a parole indecorose o offensive di Dio e del prossimo, me ne pentirò sinceramente e sarò profondamente dispiaciuta per l’offesa che cercherò di riparare meglio che potrò; ma non lascerò passare l’occasione per accettare volentieri l’abiezione e il disprezzo che ricadranno su di me. Se fosse possibile separare le due cose, respingerei con forza il peccato e terrei umilmente l’abiezione.
Ma pur amando l’abiezione che deriva dal male, non bisogna arrendersi alle fatalità del male che ne è la causa; bisogna correre ai ripari. Occorre farlo in modo efficace e con cura, soprattutto poi, quando il male è soltanto una conseguenza.
Se sono afflitta da un male spregevole al volto, farò di tutto per guarire, senza far nulla perché sia dimenticata l’abiezione che me ne è venuta. Se ho commesso qualche cosa che non offende alcuno, non cercherò scuse, perché, pur trattandosi di un difetto, non è permanente; se mi scusassi sarebbe solo per evitare l’abiezione che me ne viene. Questo l’umiltà non lo permette. Ma, se per disattenzione o leggerezza, ho offeso o scandalizzato qualcuno, riparerò l’offesa con qualche scusa che risponda a verità; perché in tal caso, il male ha radici e la carità esige che lo sradichi.
Qualche volta capita anche che la verità esiga che poniamo rimedio all’abiezione per il bene del prossimo, al quale è necessaria la nostra buona reputazione; in tal caso pur togliendo l’abiezione dagli occhi del prossimo, per impedirne lo scandalo, dobbiamo rinchiuderla e nasconderla nel nostro cuore perché ne sia edificato.
Tu, Filotea, vuoi sapere quali sono le abiezioni migliori: ti dico subito, e senza esitazione, che quelle più utili all’anima e più gradite a Dio, sono quelle che incontriamo per caso o che sono legate alla nostra condizione; la ragione è che non le abbiamo scelte noi, ma le abbiamo ricevute come Dio ce le ha mandate. E Lui sa scegliere sempre meglio di noi. Se fosse necessario scegliere, ricordati che le più grandi sono le migliori; e sai quali sono le più grandi? Quelle maggiormente contrarie alle nostre inclinazioni, sempre, beninteso, in linea con la nostra vocazione. Te lo dico una volta per sempre: la nostra scelta e la nostra preferenza rovina, o almeno diminuisce, tutte le nostre virtù. Chi ci farà la grazia di poter dire con il grande Re Davide: "Ho scelto di essere abietto nella casa del Signore. Piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori"?
Il solo che lo può, cara Filotea, è Colui che per innalzare noi, è vissuto e morto come obbrobrio degli uomini e abiezione del popolo.
Ti ho detto molte cose che potranno sembrarti dure quando ci rifletterai sopra; ma, credimi, risulteranno più dolci dello zucchero e del miele, quando le metterai in atto.


Capitolo VII - COME VA CONSERVATO IL BUON NOME PRATICANDO L’UMILTA’


Per una virtù ordinaria non ci si scomoda a lodare, ad onorare, a dare gloria a chi la possiede; questo si fa soltanto quando la virtù è eccellente.
Con la lode, infatti non vogliamo portare gli altri ad avere stima per le ottime qualità di qualcuno; con l’onore facciamo sapere a tutti che quella stima noi l’abbiamo; la gloria, poi, a mio parere, è il lustro della reputazione che scaturisce dalla somma di molte lodi e onori: possiamo dire che le lodi e gli onori sono come pietre preziose, dalla composizione delle quali, come un gioiello, nasce la gloria.
L’umiltà non accetta che noi pensiamo di essere migliori e che abbiamo diritto di essere anteposti agli altri; non permette nemmeno che andiamo alla caccia di lodi, di onori, di gloria, cose che devono essere tributate soltanto all’ottimo.
Accetta il consiglio del Saggio che dice di aver cura del nostro buon nome, perché il buon nome è la stima, non dell’ottimo, ma soltanto di una semplice e ordinaria prudenza e onestà di vita, che l’umiltà non ci impedisce di riconoscere in noi stessi; di conseguenza non ci vieta di desiderarne il relativo buon nome.
E’ vero che l’umiltà disprezzerebbe il buono nome se la carità non ne avesse bisogno; ma visto che è uno dei fondamenti della società umana, e che, senza di essa, noi siamo addirittura dannosi per la gente e non soltanto inutili, a motivo dello scandalo che daremmo; la carità richiede e l’umiltà di buon grado accetta, che noi desideriamo e conserviamo con cura il buon nome.
Prendi a paragone le foglie degli alberi che, di per sé, non valgono gran che, e tuttavia rendono un grande servizio, non solo nel dare un bell’aspetto all’albero, ma anche nel proteggere i frutti finché sono teneri; è la stessa cosa per il buon nome che, per sé, non è da considerare fortemente; tuttavia è molto utile, non soltanto come abbellimento della vita, ma anche per proteggere le nostre virtù, in modo particolare quelle ancora tenere e deboli.
L’obbligo di conservare il buon nome e di essere realmente come la gente ci stima, esige che abbiamo un coraggio generoso sostenuto da una forte e dolce violenza.
Conserviamo le nostre virtù, cara Filotea, perché sono gradite a Dio, grande e sommo fine di tutte le nostre azioni; ma allo stesso modo che coloro i quali vogliono conservare i frutti, non si accontentano di fare marmellate, ma li sigillano in vasi adatti alla conservazione, così, pur rimanendo l’amore di Dio la principale garanzia per le nostre virtù, possiamo servirci, a tale scopo, anche del buon nome e con utilità.
Tuttavia nella difesa del nostro buon nome non dobbiamo essere troppo zelanti, esatti e puntigliosi: quelli che sono delicati e sensibili in modo esagerato per tutto ciò che concerne la loro reputazione, assomigliano a quelli che ingurgitano medicine per il minimo disturbo: costoro, infatti, volendo proteggere la loro salute, la rovinano del tutto; così, chi vuole, con troppa premura, proteggere il proprio buon nome, lo perde del tutto, e sai perché? La tenerezza verso se stessi rende strani, ribelli, insopportabili, pasto ideale per i maldicenti.
Non dar peso e disprezzare l’ingiuria e la calunnia, ordinariamente è un rimedio molto efficace del risentimento, della contestazione, della vendetta: il dispetto le rende evanescenti; chi se ne inquieta, invece, dà l’impressione di confessare.
I coccodrilli fanno del male soltanto a coloro che ne hanno paura; la maldicenza fa del male solo a chi se ne preoccupa.
Il timore eccessivo di perdere il buon nome dimostra mancanza di fiducia nel suo fondamento, che è la vita onesta. Le città dotate di ponti di legno su grandi fiumi, ad ogni alluvione temono di vederli travolti; quelle invece che sono dotate di ponti in pietra, temono soltanto in caso di piene eccezionali. Similmente coloro che hanno un’anima cristiana con solide basi, non fanno abitualmente caso alle alluvioni delle lingue malefiche; coloro invece che si sentono deboli, temono di essere travolti ad ogni occasione.
Chi vuol godere di un buon nome nei confronti di tutti, lo perde proprio nei confronti di tutti: merita di perdere l’onore chi vuole mendicarlo da coloro che il vizio ha reso indiscutibilmente infami e senza onore.
Il buon nome è l’insegna che indica dove alloggia la virtù; è evidente che la virtù viene prima. Ecco perché, se ti dicono: sei un ipocrita perché ti sei incamminata nella devozione; se ti considerano un uomo senza carattere perché hai perdonato un’ingiuria, lascia correre, non farci caso. Per prima cosa abbi presente che tali giudizi sono emessi da persone vuote e superficiali; quand’anche poi il buon nome si perdesse davvero, l’importante è non perdere la virtù e non deviare dal suo cammino; mi pare logico che si dia la preferenza ai frutti sulle foglie, ossia ai beni spirituali interiori su quelli esteriori. Va bene essere gelosi del proprio buon nome, ma non idolatri! E’ vero che non bisogna scandalizzare l’occhio dei buoni, ma nemmeno si deve contentare quello dei cattivi. La barba è un ornamento adatto al volto dell’uomo e i capelli a quello della donna: se si strappano alla radice i peli dal mento o i capelli dalla testa , probabilmente non rispunteranno più; ma se li tagli soltanto, o magari anche li radi, rispunteranno molto presto, più forti e più folti. Lo stesso avviene per il buon nome: la lingua dei maldicenti può tagliarlo o anche addirittura raderlo, giacché, dice Davide, è come un rasoio affilato; ma niente paura! Rispunterà presto più bello di prima e anche più forte! Se invece il nostro buon nome viene distrutto dai nostri vizi, dalle vigliaccherie, dalla nostra cattiva condotta, beh! Allora possiamo aspettare tutto il tempo che vogliamo, e non rispunterà! Sarà inutile l’attesa perché abbiamo estirpato la radice.
La radice del buon nome è la bontà e l’onestà della vita; finché sono presenti in noi, possono sempre rigenerare il buon nome giustamente conquistato.
Lascia quella vuota conversazione, quell’attività inutile, quell’amicizia frivola, quella compagnia equivoca, se danneggiano il tuo buon nome, perché il buon nome vale più di tutte quelle vuote soddisfazioni; ma se la gente mormora, riprova o calunnia perché ti impegni nella pietà per avanzare nella devozione e nel cammino verso il bene eterno, lascia abbaiare i cani contro la luna; anche se dovessero riuscire a costruire un’opinione negativa sul tuo buon nome, e in tal modo tagliare e radere i capelli e la barba del buon nome, sta tranquilla che presto rispunterà. Il rasoio della maldicenza sarà utile al tuo onore, come la roncola alla vigna, perché la rende copiosa di frutti.
Teniamo sempre gli occhi fissi a Gesù Cristo crocifisso, camminiamo al suo servizio con fiducia e semplicità, accompagnata da saggezza e devozione: sarà lui a proteggere il nostro buon nome. Se permette che ci sia tolto è solo per darcene uno migliore o per favorirci nella crescita dell’umiltà. Ricorda bene che un’oncia di umiltà vale più di mille libre di onore.
Se veniamo ripresi ingiustamente, opponiamo serenamente la verità alla calunnia; se persiste, insistiamo nell’umiltà. Mettiamo il nostro buon nome, unitamente alla nostra anima nelle mani di Dio,; non potremo trovare migliore garanzia.
Serviamo Dio nella buona e nella cattiva fama, sull’esempio di S. Paolo; potremo così dire con Davide: Mio Dio, è soltanto per Te che ho sopportato l’obbrobrio e che ho tollerato che la vergogna coprisse il mio volto.
Faccio eccezione per certi crimini talmente atroci e infamanti che nessuno deve accettare di vedersene attribuita la paternità; anzi bisogna liberarsi anche del sospetto se si può fare nel rispetto della giustizia.
La stessa eccezione va fatta per le persone dal cui buon nome dipende l’edificazione di molti; in tali casi è necessario perseguire la riparazione del torto ricevuto, e questo secondo la più rigorosa morale teologica.



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