La
fede è un porto sicuro, ma ci sono momenti in cui essa vacilla.
Veronica ha vissuto il buio e l’incertezza come condivisione del
senso di vuoto che sperimenta chi è lontano da Dio perché privo
di fede, ma la Santa ha saputo rendere preziosi questi momenti di
sofferenza. La sofferenza, infatti, non è mai vana, ma ha una sua
misteriosa fecondità.
Sono
stata, per molti giorni, provata, oggi sentivo di non poterne più.
Stavo un poco e chiamavo il Signore; ma vedevo che non mi voleva
ascoltare. Mi ritrovavo priva di Lui: questa era la pena che superava
tutte le altre. Meglio che potevo dicevo: Sii benedetto, mio Dio!
Sono contenta di fare il tuo volere. Se vuoi che me ne stia così,
eccomi pronta a tutto. Non voglio altro che la tua volontà. E poi
aggiungevo: Tua sono, Signore, non più mia, e al di sopra di tutte
le cose amo Te! Mio Bene, Te solo voglio, Te solo bramo, Te solo
desidero.
E
poi, di nuovo, mi mettevo a chiamarlo, con più specie di titoli e
di nomi. Nulla mi recava sollievo; anzi mi accendevo più di
desiderio,
e
con questo si aggiungeva pena su pena. Alla fine, non giovandomi
niente, tutta mi riposavo nella sua divina volontà e questa mi
teneva in pace fra le mille inquietudini che sentivo. Tutto procedeva
dalla lontananza del mio sommo Bene. Sentivo che non potevo più
tollerare una tale assenza. (D I, 372)
Preghiera
nell’abbandono
Io
son tutta di Gesù; non voglio altro volere che il suo: faccia di me
secondo la sua santa volontà. Questo mi basta. Lo voglio amare,
adesso e sempre. Del resto, non cerco altro che l’amore puro, la
gloria di Dio e il compimento del suo volere.
Poi,
rivolta al Signore, così gli ho detto: Mio Gesù, dove sei? Ora
stai tutto nascosto e non posso ritrovarti. Mi aggiungi pene a pene.
Il
mio cuore non ne può più. Ritorna, mio sommo Bene; fa presto. Tu
sei il mio maestro... e come posso imparare, se non ritorni Tu? Tu
sei mio padre, ed io, come figlia cara, ti prego che ritorni un poco,
Tu sei mio supremo ed unico bene, ed io altro non penso che a Te. Mi
fido di Te, confido in Te, ed in Te mi fermo. Questo mi basta; ma
ritorna presto. Io sento che non ne posso più. Mio Signore, lo sai
che Tu solo hai il dominio di questo mio cuore. Però, dominalo,
pigliane il possesso assoluto e, se ti piace, io te lo dono. Portalo
pure via con Te; perché, stando con Te, sarà contento. Altrimenti
non si vuole quietare, finché non ti ha trovato. O Dio dell’anima
mia, e quando sarò tutta tua? Son tua sposa, e tu mio sposo; però,
come sposo amoroso, ritorna. Io non ne posso più, Sposo mio, Amor
mio! (D I, 624)
In
questi abbandoni non c’è tempo da perdere, se vogliamo c’è
sempre qualcosa in cui esercitarsi: per esempio nella carità verso
chi ci sta accanto. Quando non pensiamo più a noi, allora troviamo
Dio; trovando Lui, subito Lui ci fa capire chi egli è: potente,
misericordioso, tutto amore. Con un po’ di conoscenza di Dio,
subito consideriamo la nostra impotenza; ma godiamo della potenza di
Dio; conosciamo un poco e penetriamo la grande misericordia di Dio
verso di noi, e allora vediamo la gran moltitudine delle colpe che si
trovano in noi. Così avremo la possibilità di considerare bene il
nostro ardire... noi che non possiamo niente, siamo niente, con tutto
ciò arditamente commettiamo colpe e difetti; questi son nostri!
Ecco cosa facciamo. Questi stati d’aridità son stati preziosi, in
essi si trovano le virtù, le gioie e i tesori nascosti di tutte le
grazie e i doni di Dio. Più ci abbassiamo, ci conosciamo, più ci
sprofondiamo nel nostro essere, più giù andiamo, meno conosciamo
tali quali siamo; questo è il luogo dove si impara l’umiltà. (D
V, 231)
Sposa
mia, fra il patire troverai me, fra le croci cercherai me, fra gli
abbandoni troverai me; perché io starò sempre con te, nell’intimo
del cuore abito sempre: sto attendendo cosa il tuo cuore fa, cosa
pensa, cosa opera. Se trovo fedeltà pongo il mio trono nel tuo
cuore.
E tu che vuoi fare? Mi vuoi, sì o no? E mi
diceva di nuovo: Mi vuoi
sì, o no? Ebbi un saggio d’amore,
l’amore operò, l’amore parlò, l’amore s’accordò
coll’Amato. (D V, 236)
Questa
solitudine che Dio mi fece vedere, mi era restata così impressa
nella mia mente, che solo il pensiero mi faceva tremare. E parlando
tra me, dicevo: Di che temi? Di chi ti spaventi? Sù! ora è
tempo di tesorizzare. Questo è il tuo vero tesoro, il patire. Qui
si ama, qui l’anima si unisce tutta a Dio. Che altro desideri?
Tutto è poco per amore di Dio. Rivolta al Signore, dicevo: Dio
mio, sia fatta in me la tua volontà! In tutto mi rimetto al tuo
gusto e al tuo volere. Ora per sempre, mi dichiaro che io non ti
voglio offendere, ma amare. Però non ti nascondere da me, perché
questo è il vero inizio del patire. Ti consegno il mio cuore, la
mia volontà. Io non voglio altro volere che il tuo; e questo mio
cuore non ha da avere altro albergo che il tuo cuore, e col tuo amore
ti voglio amare, e col tuo volere voglio operare e patire. Così
sia. (D V, 23)
É
un tempo che ho vissuto con freddezza, non v’è stato in me né
fervore, né spirito. Mi sentivo consumare, vedendomi così fredda,
mi aiutavo facendo la carità ai prossimi, con altre virtù, tutte
in sommo grado. Mentre stavo contemplando il divino Bambino, Lui
tacitamente mi diceva: Impara da me, vieni a me, leva via da te,
te stessa; io sono il vero amore. Tutte queste cose con altre
grazie mi faceva Gesù ma io sempre più fredda... non so, sentivo
però certi impulsi; mi pareva che l’anima si conformasse in tutto
alla divina volontà. I santi sacramenti mi aiutavano, ma vi mancava
il più a tante grazie, a tante ispirazioni, a tanti aiuti; in me
non v’era quella vera cooperazione alle operazioni di Dio. (D V,
226-227)
L’ho
passata al solito. Non sto a descrivere la sofferenza che ho provato
perché non la posso nemmeno raccontare. Con una parola mi farò
capire. Basta dire che non trovo modo di poter ritrovare Gesù. Per
soffrire di più mi si aggiunge che non posso nemmeno invocarlo. O
Dio! Sento agonie di morte. Non posso spiegarlo con parole; e nessuno
può esserne capace, se non chi lo prova. O Dio! In un solo momento
si ha luce sul Sommo Bene e ci si accorge
d’esserne privi...Tutti
i mezzi per ritrovarlo non vi sono più. Se faccio le penitenze per
chiamarlo con queste, mi sembra uno sproposito. Le pene non apportano
altro che pene. Così mi ritrovo. Mi pare di ricordarmi, come fosse
un sogno, che il patire è il mezzo per ritrovare l’amore; ma per
me non è così. Tutto quello che faccio, tutto quello che vedo,
tutto quello che pratico, sia nell’interno che nell’esterno,
tutto mi fa penare e non amare. Seppure si ama, è amore nascosto.
Apparentemente non sembra amore, ma tutto patire. Io non riesco a
capire ciò che mi si manifesta e cioè che il puro patire è
seggio e trono del vero amore. Dunque, se questo è il sommo amore,
non dovrebbe nascondersi, ma stare nel suo trono. Eppure io non lo
trovo, non lo vedo, non lo sento; il patire è stabile e fermo: né
di giorno né di notte parte da me, ed il sommo mio Bene non viene,
non si svela; e sta così celato e nascosto, che per me pare non vi
sia più. Sia come si voglia, o nascosto o palese, io lo voglio
amare; e con le stesse pene, farò tutto ciò. A chiunque mi
domandasse come si potrebbe fare per ritrovare l’Amore, io gli
direi: Penate, patite; perché fra pene e tormenti troverete
l’Amore. Io non lo provo ciò, ma, con la stessa sua assenza,
comprendo che è così. E più sta nascosto, più amore ci
mostra. E questo Amore è celato; ma più si nasconde, più si
conosce la sua eccellenza e dignità. Subito posso tutto e resta
in me solo la fortezza dell’Amore. Mi sento tutta rinvigorita e
rinforzata; ma non so come. Altro non dico. Laus Deo. (D II,
357)
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