Una domanda imbarazzante
Dopo
aver riflettuto sulla guarigione di Bartimeo qualcuno potrebbe porsi
la domanda: come mai molti ammalati vorrebbero guarire, chiedono di
guarire, ma non vengono guariti?
Rispondere
ad una simile domanda non è semplice. La difficoltà deriva dal
fatto che noi non sappiamo qual è il vero bene di una persona, quale
percorso è richiesto per la purificazione della sua anima, quanto
matura è la sua fede, qual è il disegno di Dio su di lei e su
quanti stanno attorno a lei. Proviamo tuttavia a cercare alcune
ragioni di carattere generale, anche se, per domande come questa, è
inevitabile procedere a tentoni.
Un
caso possibile è quello in cui il nostro vero bene deve passare
attraverso la malattia; non è raro infatti il caso in cui la
malattia del corpo diventa uno strumento per vere e proprie
guarigioni dell'anima; lo vediamo in certe persone la cui natura
orgogliosa, autoritaria, inquieta... dopo lunghe e penose malattie
diventa umile, dolce, serena, sottomessa alla volontà di Dio,
attenta alle necessità del prossimo.
Un
altro caso è quello di coloro che sono talmente presi dalle attività
di questo mondo, da non pensare mai che un giorno dovranno lasciarlo;
in questi casi la malattia può costituire un potente richiamo a
considerare la vita e la morte nella giusta prospettiva, a rivedere
la propria scala di valori, a porsi veramente le domande fondamentali
sul senso della propria esistenza.
Casi
simili possono presentarsi con infinite varianti e sfumature, ma in
tutti ciò che si richiede non è di pregare per la guarigione del
corpo, ma di passare attraverso la malattia del corpo per guarire
nell'anima. La perplessità della nostra intelligenza di fronte al
problema della malattia è forse dovuta a questo fatto: noi siamo
molto più scossi e scioccati dalle malattie del corpo che non da
quelle dell'anima, se sapessimo apprezzare e desiderare di più la
salute e la vera vita dell'anima non avremmo così paura della
malattia del corpo, anzi, ringrazieremmo il Signore che, a volte,
dalla malattia riesce a far sorgere veri e propri capolavori, e se il
capolavoro non sorge bisognava comunque tentare di farlo sorgere.
Un
altro caso possibile è quando ci si rivolge a Dio non avendo le
dovute disposizioni, ossia ci si rivolge a Lui pretendendo che
esaudisca assolutamente le nostre richieste. Si soffre il disagio
della malattia, si crede che Dio potrebbe guarirla, ma non si riesce
a capire perché non lo faccia. In realtà, ciò che non si capisce
in questo caso, è che Dio non è qualcuno il cui compito principale
sia quello di eliminare i nostri disagi o risolvere i nostri
problemi, ma è qualcuno che ci ama e si aspetta di essere riamato;
il nostro compito è quindi quello di scoprire ed accettare ciò che
Lui vuole fare della nostra vita, ogni altra preoccupazione è
decisamente secondaria rispetto all'importanza di instaurare con Lui
un corretto rapporto d'amore. Quello che spesso è pressoché
inesistente è un sincero desiderio di amare Dio, mentre è molto
forte la preoccupazione di evitare i disagi e gli impedimenti che la
malattia comporta, ecco il motivo per cui chiediamo a Dio la
guarigione.
L'esempio
di come pregare quando si è nel dolore ci è dato da Gesù
agonizzante nell'orto degli ulivi. In quel momento di grandi
sofferenze, Gesù a più riprese prega di venir liberato dai dolori
che Lo opprimono, ma sempre la sua preghiera si sottomette alla
volontà del Padre. Dice Gesù nella sua angoscia: Padre mio, se è
possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma
come vuoi tu! (Mt 26, 39-44).
Così
dovremmo pregare anche noi, ma prima di giungere a una tale
perfezione la nostra preghiera ha di solito un percorso più inquieto
e ribelle. Il libro dei salmi, quello di Giobbe, i lamenti dei
profeti, contengono formidabili esempi di preghiere tormentate,
proteste e ribellioni; potremmo però dire che sono tormenti,
proteste e ribellioni secondo il volere di Dio, non perché la
protesta e la ribellione siano la perfezione della preghiera, ma
perché sono momenti attraverso i quali normalmente si passa per
giungere ad una più profonda conoscenza e a un più profondo amore
di Lui.
Insegnamento
da una novella di Andersen
C'è
una novella di Andersen che può aiutarci a comprendere la necessità
di rinunciare alle nostre proteste per abbandonarci completamente
alla volontà di Dio. Eccone il riassunto.
Da
tre giorni una madre veglia il suo bambino gravemente ammalato. Un
vecchio bussa alla sua porta e chiede di ripararsi un poco dal gelido
inverno, la donna lo accoglie, gli prepara qualche cosa di caldo e
gli partecipa il suo dolore; vorrebbe essere rassicurata nei suoi
timori e chiede: Il Signore non vorrà riprenderselo! Non credi,
vero, che lo perderò! Poi stremata dalla stanchezza si
addormenta. Quando si riprende, il vecchio e il bambino sono spariti.
Disperata, esce alla loro ricerca. Chiede agli uni e agli altri se li
hanno visti e dove siano andati. Viene così a sapere che il vecchio
altri non era che la morte in persona. Ma il suo amore di madre la
spinge ad affrontare qualunque sacrificio, a superare qualsiasi prova
pur di raggiungere il vecchio e chiedergli che gli restituisca il suo
bambino.
Fu
così che dopo tanto vagare e tanto patire giunse in un luogo
"dov'era una strana dimora", qui incontra una vecchia
becchina che stava lì a custodire la grande serra della morte. La
vecchia le chiede: Come sei venuta fin qui, chi ti ha aiutata? -
Il Signore mi ha aiutata…Lui è misericordioso, e anche tu lo
sarai! Dove posso trovare il mio bambino? La vecchia le spiega
che nel giardino da lei custodito ci sono molti alberi e fiori, ogni
uomo ha il suo albero di vita o il suo fiore, a seconda della
conformazione di ognuno… in ogni pianta e in ogni fiore c'è un
cuore che batte, quando un fiore o un albero appassiscono il vecchio
li prende e li trapianta nel grande giardino del Paradiso, nella
terra sconosciuta, il suo bambino però lei non sa quale sia.
La
madre allora si mette ad ascoltare il battito del cuore dei
fiorellini per cercare di riconoscere quello del suo bambino. Dopo
molto cercare riesce a trovarlo. Decide allora di aspettare la morte
per impedirle di strappare il fiore del suo bambino. Quando il
vecchio arriva le chiede: Come hai potuto trovare la strada per
venire fin qui? Come hai fatto ad arrivare prima di me? - Sono una
madre! Disse lei - Non puoi nulla contro di me! Disse la
morte - Ma lo può Dio! Rispose lei - Io non faccio che la
sua volontà! Disse la morte. Io sono il giardiniere! Io
prendo le sue piante e i suoi fiori per trapiantarli nel grande
giardino del Paradiso, nella terra sconosciuta, ma come poi crescano,
e come sia il luogo, non oso dirtelo! - Ridammi il mio bambino!
Diceva la madre, piangendo e implorando. D'un tratto afferrò con
entrambe le mani due bei fiori e gridò alla morte: Ti strappo
tutti i fiori, perché sono disperata! - Non toccare! Disse la
morte. Dici che sei tanto infelice, ed ora vuoi che un'altra madre
diventi infelice come te! - Un'altra madre! Disse la povera
donna, e ritrasse subito le mani dai fiori.
Poi
il vecchio la invitò a guardare in un pozzo dicendole che mentre lui
avrebbe pronunciato il nome dei fiori che lei voleva strappare,
avrebbe visto il futuro di quelle due vite umane, avrebbe visto
quello che voleva scompigliare e distruggere. La madre guardò nel
pozzo: era una gioia contemplare come l'uno dei fiori diventava una
benedizione per il mondo, e come ne spirava felicità e letizia.
Guardò poi la vita dell'altro fiore, ma non vide che dolore e
miseria, orrore e infelicità.
L'uno
e l'altro sono volontà di Dio! Disse la morte. La madre gli
chiese quale di essi fosse il fiore della sventura, e quale il fiore
della grazia. Non te lo dico! Disse la morte. Ma sappi che
uno dei fiori era la vita del tuo bambino, era la futura sorte del
tuo bambino quella che hai visto! -. La madre gridò spaventata:
Salva il mio bambino da tutta quella miseria! Portalo via,
piuttosto! Portalo nel Regno di Dio, dimentica le mie lacrime,
dimentica le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto! - Non
ti capisco! Disse la morte. Vuoi che ti renda il bambino, o
vuoi che lo porti nel paese che ti è sconosciuto? -. La
madre cadde in ginocchio, torcendosi le mani e pregando il Signore:
Non ascoltare se prego contro la tua volontà, che è la migliore!
Non ascoltare! Non ascoltare! E la morte se ne andò col bambino
nel paese sconosciuto.
Questo
racconto può aiutarci a pregare meglio quando diciamo: Venga il
tuo regno, sia fatta la tua volontà, perché ci suggerisce
l'idea che molte nostre fatiche, molte nostre ricerche, molti nostri
desideri e preghiere ci procurerebbero cose contrarie al nostro vero
bene o al bene delle persone che amiamo; noi non lo vediamo e non lo
comprendiamo, ma Dio che vede e comprende non ce le concede, anche a
costo di essere considerato duro e insensibile.
Il
dolore e l'espiazione dei peccati
L'aspetto
che ci conviene considerare a questo punto è la relazione esistente
fra la malattia e l'espiazione dei peccati; a questo scopo è
opportuno riflettere un poco sui termini "peccato" ed
"espiazione".
La
prima cosa da tener presente è che si ha possibilità di peccato lì
dove c'è un rapporto d'amore; qualcuno diceva che per comprendere il
peccato bisogna comprendere l'amore. Quando uno stona nel suonare il
violino o sbaglia a fare un conto, non commette un peccato, ma
commette un errore, in questi casi infatti non si è coinvolti in un
rapporto d'amore, non c'è una persona di fronte ad un'altra persona,
ma solo una persona di fronte al compito che deve svolgere. La cosa è
diversa quando ci troviamo di fronte a qualcuno che ci vuole bene, in
questo caso commettere un errore significa offendere o ferire quella
persona nel suo amore, ossia commettere un peccato; un peccato è poi
una cosa tanto grave perché l'amore è la cosa più bella e più
preziosa che ci sia.
Conviene
ancora considerare come a determinare la gravità di un peccato
intervengano due fattori: la purezza dell'amore che si offende e la
consapevolezza di colui che offende. Un peccato è tanto più grave
quanto più l'amore che si offende è grande e puro; un atto di
indelicatezza verso una persona che incontriamo occasionalmente è
grave, ma la gravità di questa indelicatezza aumenta se è compiuta
nei confronti di un fidanzato, di una moglie, di un amico o di Dio,
perché in questi casi non si offende solo la loro persona, ma anche
il loro amore, e più l'amore è forte e puro più è grave. Il salmo
54 (13-14) descrive molto bene questa dolorosa esperienza dicendo: Se
mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto
contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio
compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia...
Quando è un amico ad offenderci la sofferenza che si prova è molto
più grande!
L'altro
fattore che determina la gravità di un peccato è il nostro grado di
consapevolezza o di lucidità nel momento in cui offendiamo l'amore:
maggiore è la consapevolezza, maggiore è la gravità, ma qui entra
in gioco il segreto del cuore di ognuno che solo Dio conosce.
Possiamo tuttavia dire che, in generale, ognuno di noi quando offende
l'infinita delicatezza e l'infinita bellezza dell'amore è in parte
consapevole e in parte inconsapevole; nella misura in cui siamo
consapevoli meritiamo il castigo e nella misura in cui non lo siamo
meritiamo il perdono. Nel primo caso il Signore ci dice: Lontano
da me maledetti…(Mt 25, 41), mentre nel secondo, per ottenerci
la misericordia del Padre, prega: Perdonali, perché non sanno
quello che fanno (Lc 23, 34).
Stando
così le cose, la nostra preoccupazione principale dovrebbe essere
quella di cercare di capire sempre meglio il mistero della vita e
dell'amore; dovremmo fare tutto il possibile per non correre il
rischio di offendere Colui che ci ama con un amore infinito e
perfetto, dovremmo fare tutto il possibile per non offendere coloro
che sono stati pensati per vivere d'amore, ossia noi stessi ed i
nostri fratelli. Sempre potremo dire: "Io non sapevo che fosse
così grave, se avessi saputo…", ma alla domanda: "Che
cosa hai fatto per cercare di sapere? Quanto impegno hai messo per
renderti conto di come stavano le cose?" Non è detto che sempre
potremo rispondere con sincerità: "Ho fatto tutto quello che
era in mio potere". Comprendere pienamente i misteri dell'amore
e della vita è un compito superiore alle nostre forze, ma fare
qualche sforzo per cercare di comprendere non lo è.
Le
precedenti considerazioni possono aiutarci a capire la necessità di
espiare i peccati. Incominciamo col pensare che cosa accadrebbe se
non ci fosse questa necessità: accadrebbe una cosa terribile e
rivoltante che renderebbe senza senso tutte le nostre azioni,
infatti, offendere o non offendere qualcuno nel suo amore sarebbe
completamente indifferente, vivere o non vivere secondo la legge
dell'amore non avrebbe alcuna conseguenza, i buoni non otterrebbero
alcun premio per l'impegno sostenuto nel diventare tali e per i
cattivi non ci sarebbe alcun castigo. Un sistema di questo genere
sarebbe assurdo. Allora, la necessità di espiare i peccati deriva
dal fatto che non deve essere indifferente offendere o non offendere
qualcuno nel suo amore; vivere secondo la legge dell'amore deve avere
certe conseguenze, non vivere secondo questa legge deve averne altre.
Quando si offende l'amore ci deve quindi essere un dolore conseguente
e proporzionato a questa offesa. Ora, noi viviamo e siamo solidali
con un mondo in cui l'impegno per cercare di amare Dio e l'impegno
per amarci gli uni gli altri non è che abbondi, ma questo è un
disordine e un'ingiustizia che non possono essere senza conseguenze;
e le conseguenze sono le ingiustizie, i disordini e le tribolazioni
che affliggono normalmente la nostra vita sulla terra.
Proviamo
a fare qualche esempio: se non c'è in noi la preoccupazione di
alimentare l'amore di Dio, mentre è molto forte quella di alimentare
l'amore per ogni forma di piacere o soddisfazione sensibile, a lungo
andare dovremo fare i conti con le conseguenze di questo disordine;
così, chi esagera nel bere dovrà soffrire prima o poi varie
malattie e disturbi che derivano direttamente da questo disordine,
allo stesso modo non sarà esente da varie malattie chi esagera nel
mangiare o nella ricerca dei piaceri sessuali. Chi esagera nel
lavoro, chi è imprudente nel guidare, chi mette a repentaglio la
propria vita nella ricerca di sensazioni estreme, andrà
probabilmente incontro a malattie o incidenti che in molti casi
procureranno la morte a sé e ad altri.
Le
malattie e le tribolazioni che seguono ai nostri disordini sono
tuttavia una misericordia del Signore che cerca in questo modo di
scuoterci e di farci riflettere; la malattia infatti, con il
linguaggio del dolore, ci dice inequivocabilmente che un qualche
ordine o una qualche legge sono stati violati. C.S. Lewis diceva che
Dio sussurra nei nostri piaceri, parla nelle nostre coscienze, ma
grida nelle nostre sofferenze; il dolore è il suo megafono per
svegliare un mondo sordo.
Non
possiamo quindi violare o ignorare gli ordini e le leggi di Dio senza
patirne giustamente le conseguenze. Chiedere di guarire in questi
casi, sarebbe come chiedere l'autorizzazione a fare quello che si
vuole senza essere raggiunti dalle conseguenze dolorose dei nostri
atti disordinati. L'atto disordinato per eccellenza è
fondamentalmente quello di non interessarsi di Dio, la conseguenza di
questo disordine sarà il non poter ricevere quegli aiuti senza i
quali non è possibile che la vita dell'uomo funzioni correttamente,
sarà allora inevitabile che, presto o tardi, tribolazioni e malattie
si presentino con il loro assortito campionario di sofferenze.
Bisogna
inoltre considerare che normalmente non si soffre solo a causa dei
propri peccati, ma anche per quelli delle persone che ci circondano.
Un ragazzo che si suicida, ad esempio, coinvolge nel suo dramma:
genitori, fratelli, amici, conoscenti... Questo dovrebbe richiamare
la nostra attenzione su un fatto a cui poco si pensa, vale a dire che
l'effetto di ogni azione, anche minima, non si arresta solo alla
persona che la compie, ma estende il suo influsso su un gran numero
di altre; non è poi in nostro potere sapere fin dove questo influsso
si estenda. Nel giorno del giudizio saremo sorpresi di vedere fin
dove sono giunti gli influssi buoni o cattivi delle nostre azioni.
È
importante osservare a questo punto un fatto sorprendente:
generalmente colui che viola la legge dell'amore non ne subisce
immediatamente le conseguenze dolorose, anzi, vi trova piacere e
gratificazione, accade tuttavia che da qualche parte ci siano degli
innocenti che soffrono proprio per queste trasgressioni. Ad esempio,
chi non si cura affatto di santificare la domenica e le altre feste
comandate, si sentirà libero in questi giorni di fare quello che gli
pare senza provare la minima sofferenza o il minimo turbamento.
Tuttavia, ci sarà da qualche parte un amico, una madre, un monaco,
un cristiano...i quali, a causa dell'amore di Dio e del prossimo che
li abita, non potranno non dispiacersi e soffrire nel vedere l'offesa
recata a Dio da questi comportamenti, non potranno non temere per le
inevitabili tribolazioni che questi peccati causeranno a chi li
commette. Un giorno che San Francesco piangeva gli fu chiesto: Perché
piangi, e lui rispose: Perché l'Amore non è amato.
Le
cose dette ci fanno forse intravedere come qualsiasi offesa all'amore
debba essere espiata, ogni debito debba essere pagato, per ogni
disordine ci deve essere qualcuno che si assume il compito di
riordinare la casa. Evidentemente, Colui che più ha espiato per le
trasgressioni contro la legge dell'amore è Gesù nella sua passione
e morte. I Vangeli e la sindone di Torino, mostrandoci Gesù ferito e
sanguinante dalla testa ai piedi, ci suggeriscono che ogni offesa
all'amore ha avuto una ripercussione dolorosa sul suo corpo e nella
sua Persona.
Dalle
cose dette possiamo ricavare che le nostre tribolazioni e le nostre
sofferenze possono avere due componenti: una componente dovuta alla
necessità di espiare i nostri peccati e una componente dovuta alla
necessità di espiare i peccati delle persone che ci circondano.
Questo ci mostra ancora come la vita di ognuno, oltre che dalle
proprie azioni, sia anche condizionata dalle azioni buone o cattive
delle persone che stanno attorno a noi. San Paolo ci esorta allora a
portare gli uni i pesi degli altri per adempiere in questo modo la
legge di Cristo (Gal 6, 2). Se durante la vita presente ci è
soprattutto chiesto di portare i pesi gli uni degli altri, è perché
in quella futura, quando tutti saremo pienamente abitati dallo
Spirito dell'amore, ci sarà dato di godere gli uni della gioia degli
altri, dei loro meriti e delle loro glorie.
A
proposito delle componenti delle nostre sofferenze, è difficile
sapere in che misura soffriamo a causa dei nostri peccati, e in che
misura soffriamo per quelli degli altri, possiamo però dire che più
saremo purificati dal fuoco dell'amore di Dio più saremo disposti ad
accettare la sofferenza, e il motivo è il seguente: più si
comprende la bellezza, la delicatezza e la profondità dell'amore di
Dio e del prossimo, più si comprende anche la necessità di riparare
per ogni offesa che l'amore subisce, sia che questa sia stata
provocata da noi o da altri. La conferma la possiamo avere dalle
dichiarazioni di tutti i santi i quali, più procedono sulla via
della santità più dichiarano di essere dei grandi peccatori e più
sono disposti a fare penitenza non solo per i loro peccati, ma anche
per il gran numero di quelli che si commettono nel mondo.
La
sofferenza degli innocenti
Potremmo
a questo punto tentare di riflettere su di un ultimo interrogativo,
quello relativo alla sofferenza degli innocenti. Bisogna prima di
tutto osservare che nessuno è completamente innocente, ogni uomo che
viene all'esistenza è come se venisse immerso in un mondo di
peccato, l'inevitabile conseguenza sarà quella di commettere prima o
poi dei peccati. Ci sono tuttavia dei casi che suscitano una
particolare impressione di ingiustizia, ad esempio quelli in cui la
malattia, la sofferenza o la violenza travolgono i bambini prima che
siano in grado di esercitare la loro libertà e perciò non si
possono ritenere responsabili di peccato, per questo motivo non
dovrebbero subirne le conseguenze dolorose.
Casi
particolarmente pietosi sono quelli in cui la malattia priva una
creatura delle sue capacità di intendere e di volere; di fronte a
tali situazioni si rimane perplessi e sconcertati. Una prima
insufficiente risposta potrebbe essere questa: una parte della loro
sofferenza serve ad espiare i peccati che avrebbero sicuramente
commesso se avessero avuto una salute ed una vita normali. Questa
risposta non elimina tuttavia un'impressione di ingiustizia o di
sproporzione per le sofferenze che queste creature devono sopportare.
Penso allora che queste situazioni ci invitino a pensare alla vita di
queste vittime non solo come un fatto privato, ma come facente parte
di un disegno più grande, un disegno in cui entrano in gioco le
vicende dell'intera umanità. Ora, l'umanità nel suo insieme è
molto peccatrice, si compiono infatti in essa molte cose che
gravemente offendono Dio e il prossimo. Possiamo inoltre constatare
come spesso certe offese, certe resistenze alla grazia, la volontà
di fare di testa propria su molti punti, non durino poco, ma
continuino per anni ed anni, a volte fino alla morte, e questo non
può essere senza conseguenze dolorose, qualcuno inevitabilmente
soffrirà a causa di queste offese, e molto spesso a soffrire sono
proprio coloro che meno lo meriterebbero. Il primo di questi è stato
Gesù, poi coloro che in vario modo Gesù vuole associare alla sua
passione redentrice.
È
a questo proposito importante osservare che, sia la Chiesa di
occidente sia quella di oriente, celebri la festa dei Santi
Innocenti, mostrandoci così la dignità e la gloria a cui sono
elevati coloro che, non per loro volontà, ma per volontà del
Signore, sono stati chiamati a portare il peso di ingiuste sofferenze
nell'estremo tentativo di richiamare alla giustizia coloro che giusti
non sono. Celebrando la festa dei Santi Innocenti la Chiesa ci invita
ancora a considerare come non sia la vita presente il tempo e il
luogo in cui Dio ha deciso di dare a ciascuno la giusta ricompensa.
La giustizia, che tutti desideriamo veder trionfare, deve attendere
la conclusione della vicenda umana ed il grande giorno del giudizio,
allora, veramente i buoni ed i malvagi avranno quanto si meritano,
anzi, i buoni avranno molto di più di quanto avranno saputo sperare
nei loro più arditi desideri. Ce lo assicura San Paolo dicendo:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai
entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo
amano (1Cor 2, 9). Queste parole, insieme ad altre della Sacra
Scrittura, suggeriscono inoltre che una risposta pienamente
soddisfacente a quanti soffrono ingiustamente non può venire da un
ragionamento, per quanto corretto, ma deve venire dall'incontro con
una Persona, dall'incontro con un Volto, il Volto di Colui che,
essendo l'Amore, ha il potere di placare ogni dolore, consolare ogni
afflizione, asciugare ogni lacrima e ricompensare ogni sacrificio.
A
Lui onore e gloria nei secoli.
Eugenio
Pramotton dal sito http://www.medvan.it/
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