Con
la parabola del figliol prodigo Gesù aveva mostrato quale rovina
morale e materiale poteva produrre l'abuso delle ricchezze; con
questa del fattore infedele, mostra come esse possano essere
utilizzate in bene. L'argomento del Signore è dal meno al più: se
un fattore infedele, con una ricchezza che gli era stata solo
affidata, poté provvedere al suo avvenire con un po' di accortezza e
di generosità, benché fatta fraudolentemente, quanto più può
provvedere al proprio avvenire eterno chi si serve delle ricchezze
ricevute dal Signore per formarsi degli amici nell'eternità, per
mezzo delle opere di carità!
Gesù
non volle proporre come modello un'azione ingiusta, com'è evidente,
ma raccontando questa bella parabola volle indirettamente mostrare
anche che le ricchezze portano quasi sempre il marchio
dell'ingiustizia e dell'iniquità, perché sono o frutto o strumento
di iniquità. Per questo le chiamò mammona iniquitatis e non fece
distinzione fra ricchezze giuste o ingiuste. Se si facesse la
genealogia del denaro, infatti, si troverebbero sempre sulle sue
linee ascendenti o discendenti dei delitti. Noi non pensiamo che quel
denaro che abbiamo in tasca forse è stato il prezzo di un peccato o
di amarissime lacrime, e che per non farlo essere pestifero dobbiamo
quasi sempre riconsacrarlo con la carità. Potremmo portare in tasca
anche il prezzo di un'impurità o di un omicidio, e quel denaro, pur
passato a noi lecitamente, porta una terribile infezione con sé.
Quanti si lavano le mani quando maneggiano il denaro fanno bene,
perché è la cosa fisicamente più sporca che vi sia, passando per
tante mani; prendendo il denaro, tuttavia, dovrebbero anche fare un
atto di riparazione a Dio e riservarne una percentuale, sia pur
minima, alla carità, per "disinfettarlo" spiritualmente.
Il
fattore infedele
La
parabola che raccontò Gesù probabilmente fu un fatto realmente
avvenuto, da Lui utilizzato per insegnamento della verità. Un uomo
ricco, tanto ricco da non adirarsi della frode fattagli dal fattore
anche all'ultimo momento della sua gestione, aveva un servo al quale,
secondo la parola greca, aveva affidato l'amministrazione di tutti i
suoi averi. Questa padronanza che gli aveva lasciato spiega la
facilità con la quale gli fu possibile dilapidargli i beni, fino al
punto che se ne accorsero anche gli altri e lo accusarono presso il
padrone. Il padrone constatò certamente, dopo un esame della
situazione, che l'accusa era tutt'altro che infondata e, chiamato il
fattore, gli ingiunse di rendere i conti e lasciare senz'altro
l'amministrazione. Nonostante la dilapidazione avvenuta, il padrone
aveva ancora un residuo di fiducia nel servo e, d'altra parte, avendo
quegli tutto in mano, doveva per forza far capo a lui per conoscere
la situazione. Doveva anche voler bene al misero fattore e, ricco
com'era, gli volle lasciare il modo di accomodare le sue faccende.
Il
fattore non pensò alla bontà del padrone né si mostrò rammaricato
del danno che gli aveva fatto, tanto da giungere a produrgliene altro
all'ultimo momento. Si preoccupò della propria situazione e pensò:
"Ecco, io cado d'un colpo nella più squallida miseria. Ora come
farò per vivere? Dovrei lavorare zappando la terra e non so farlo;
dovrei elemosinare e dopo il posto che ho occupato ne ho estrema
vergogna. L'unica mia risorsa sta nell'essere soccorso dagli altri
senza mio disonore". E pensò subito di rendersi obbligati i
debitori stessi del suo padrone, rimettendo loro una parte del
debito.
Li
convocò, quindi, come per liquidare i loro conti e definire le loro
pendenze, e domandò a uno quanto doveva al padrone. Quegli rispose
che gli doveva cento barili d'olio, ossia, in misura ebraica, cento
bati. Essendo un bath circa 38 litri, doveva al padrone
3.800 litri di olio. Il fattore gli fece prendere la ricevuta e
ridusse il debito a metà. Domandò a un altro quanto doveva, e
quegli rispose: Cento staia di grano. Stando alla misura
ebraica, doveva cento cori; e siccome un cor era dieci bath,
ossia 380 litri, doveva 38mila litri di grano. Il fattore glieli
ridusse ad ottanta, perché se li avesse ridotti addirittura a metà
avrebbe mostrato una generosità che poteva renderlo sospetto e far
scoprire più facilmente al padrone la nuova frode. Rimettendogli,
poi, il 20% di quella misura, gli rimetteva di più di quanto aveva
condonato al primo. Così fece con tutti i debitori, com'è evidente
dal contesto della parabola.
Quando
il padrone si accorse del tiro giocatogli dal fattore e seppe dello
scopo per il quale gliel'aveva giocato, lo lodò, non per approvare
il furto che gli aveva fatto, ma ammirando la scaltrezza con la quale
aveva operato per salvarsi in quell'estrema rovina che lo minacciava,
poiché — soggiunse Gesù — i figli di questo secolo sono nel
loro genere più prudenti dei figli della luce.
Con
queste ultime parole, Gesù giustificava indirettamente il motivo per
il quale aveva proposto quella parabola: gli uomini del mondo, figli
del secolo presente, cioè tutti dediti alle cose della terra, sanno
badare bene ai loro interessi e sanno avere la prudenza umana e anche
maligna per tutelarli, preoccupandosi di un avvenire temporale; i
figli della luce, invece, che hanno il possesso della Verità eterna
e aspirano ai Beni eterni, non pensano a questo loro avvenire e
spesso lo barattano per nulla.
La
massima di Gesù, nei limiti della parabola, significa che i figli
del mondo fanno per le cose temporali molto più di quello che i
figli della luce fanno per i beni spirituali e per l'avvenire eterno,
e che i primi cercano di ricavare il maggior vantaggio temporale
dalle ricchezze, mentre i secondi non ne traggono neppure quel poco
di vantaggio spirituale che potrebbe accrescere i loro beni
spirituali. Per questo Gesù esorta a farsi degli amici nel Cielo con
le stesse ricchezze ingiuste, cioè, come si è detto, materiate
d'ingiustizia per la loro stessa natura, e a raccogliere mediante le
opere della carità le ricchezze eterne; e soggiunge che la fedeltà
che si ha nel poco, cioè in ciò che è transitorio e temporale,
rende fedeli nel molto, cioè nella corrispondenza alle grazie e a
ciò che porta alla Vita eterna.
Le
ricchezze temporali sono una cosa molto meschina di fronte a quelle
spirituali, che conducono alla Vita eterna. Ora, se uno è ingiusto
nel poco e non sa fare buon uso delle ricchezze con la carità, sarà
anche ingiusto nel molto e sperpererà le grazie e le ricchezze
spirituali; se uno non sa fare buon uso di una cosa meschina come le
ricchezze temporali, Dio come gli potrà dare quelle spirituali?
Queste sono le vere ricchezze e queste il patrimonio vero di
un'anima, che può dirsi suo perché le dà il diritto all'eterna
gloria. I beni materiali sono stati di altri e saranno di altri,
poiché passano con la vita e non possono essere chiamati propri
beni; ora, se non si sa fare buon uso di ciò che è nostro, chi ci
darà ciò che non è nostro? Il Signore non può dotare di grazie
un'anima che non sa servirsi bene di ciò che le viene dato solo
provvisoriamente.
Siamo
tutti fattori del Padre celeste
Queste
massime di Gesù sono preziosissime e danno un nuovo concetto della
vita, perciò bisogna approfondirle alla luce della stessa parabola
che Egli propone. Nella vita presente siamo tutti fattori del Padre
celeste, poiché abbiamo un ufficio e una missione nella complessa
armonia della sua Provvidenza, e dobbiamo compierla per avere da Lui
il patrimonio delle grazie che ci fanno meritare la Vita eterna. Chi
ha una ricchezza d'intelligenza, chi di forze e chi anche di denaro e
di beni materiali.
Sono
piccole cose di fronte ai tesori della grazia, alla fede, alla
speranza, alla carità e ai doni che ci vengono dallo Spirito Santo.
La vita presente è un impiego che bisogna considerare sempre in
relazione alla Vita eterna. Chi compie bene la sua missione riceve da
Dio come sua proprietà tutte le grazie che lo preparano al possesso
dei Beni eterni; è dunque importantissimo, per chi possiede
ricchezze, mutarle con la carità in titoli di eterna gloria, perché
essi possano supplire le deficienze e le colpe che si commettono
nell'amministrazione di ciò che passa e non può dirsi proprio.
La
stoltezza di quelli che pretesero e pretendono di mettere il mondo su
basi sociali cervellotiche è giunta fino a chiamare la ricchezza
materiale un furto, salvo a rubarla essi stessi su larga scala e in
modo brigantesco, con tutte le spaventose conseguenze sociali delle
quali siamo spettatori e vittime. Gesù Cristo, con divina sapienza,
dà il vero concetto della ricchezza: essa è mammona iniquitatis,
considerata in tutte le ingiustizie dalle quali è macchiata e in
tutte quelle alle quali serve.
Essendo
l'uomo di passaggio sulla terra e dovendola lasciare, non può dirla
sua; egli l'amministra non per conto della nazione o della società
ma per conto di Dio, Sommo ed Eterno Bene, e Somma ed Eterna Carità.
Deve dunque servirgli per ottenere da Dio i beni spirituali mediante
la carità.
Solo
la carità fatta per Dio, con il pensiero della responsabilità che
si ha dinanzi a Lui, può equilibrare veramente l'uso delle
ricchezze; qualunque altro ritrovato umano sbocca necessariamente
nell'oppressione e nella prepotenza, rendendo statale e violento quel
disordine che prima era solo sporadico e individuale. Si può
trovare, infatti, chi fa cattivo uso della ricchezza e opprime gli
altri, ma quando lo Stato si sostituisce all'individuo, diventa egli
il prepotente spogliatore e oppressore, e per di più ha la forza
brutale e incontrollata per farsi valere.
I
giuristi riconoscono unanimemente che lo Stato è un pessimo
amministratore e che nelle sue mani le ricchezze dei privati
deperiscono e si distruggono, come si è visto al tempo del comunismo
in Russia. È logico, del resto, poiché quelli che rappresentano lo
Stato sono interessati al loro tornaconto e non curano quello che non
appartiene loro. Si ha quindi il fenomeno del furto in grande e della
sperequazione dei beni.
Chi
possiede, dunque, è solo un fattore nelle ricchezze della
Provvidenza, un fattore responsabile dinanzi a Colui che legge i
cuori e le coscienze. Quando viene la morte, il Padrone celeste dice
al ricco: Rendimi conto della tua amministrazione, poiché ormai non
potrai essere più fattore. È allora che il ricco deve saper
presentare a Dio le opere di carità e di bene, e per presentargliele
deve averle già fatte in vita. Le ricchezze, frutto o strumento
d'iniquità, possono allora diventare strumento di amicizia eterna. È
evidente poi, dal contesto stesso della parabola, che se delle opere
di carità poterono far trovare un'amicizia nel Cielo a un fattore
infedele, un uso santo delle ricchezze le muta in vere ricchezze
eterne; è allora che la fedeltà nel poco produce la fedeltà nel
molto, cioè che la fedeltà a Dio nei beni materiali produce la
fedeltà alle grazie spirituali e la Vita eterna.
In
conclusione: è a Dio che bisogna servire, e chi pretende di usare
delle ricchezze per proprio tornaconto pretende servire a due padroni
opposti. Non è possibile, infatti, attaccarsi disordinatamente ai
beni temporali e cercare quelli eterni, amare le proprie
soddisfazioni e amare Dio, cercare il vantaggio proprio
disordinatamente e contemporaneamente cercare quello del prossimo
nella carità.
Chi
considera la ricchezza e il denaro come fine e non come mezzo della
vita, e chi non ne usa per fare il bene è un miserabile servo di
mammona, un uomo che si consuma e si sacrifica come uno schiavo per
ciò che non è suo, strettamente parlando, e che a un cenno di Dio
deve lasciare con la morte.
Anche
fuori del contesto della parabola, rimane universalmente vero che non
si può servire a due padroni; questo è vero non solo per le
ricchezze contrapposte ai beni spirituali, ma lo è anche per tutto
quello che costituisce la vita del mondo contrapposta alla vita dello
spirito, alla vita cristiana.
Com'è
possibile sposare insieme l'errore e la verità, l'impurità e la
purezza, l'orgoglio e l'umiltà, la sopraffazione e la serena
giustizia? Come si può seguire la legge del mondo e
contemporaneamente quella di Dio, che la condanna? Il contrasto tra i
due padroni — lo si noti — Gesù lo pone nell'amore o nell'odio:
Odierà l'uno e amerà l'altro o si affezionerà al primo e
disprezzerà il secondo. Dunque il contrasto non è superficiale, non
riguarda una divergenza di vedute, ma è radicale e totalitario; non
ammette alcuna transazione e non può ammetterla. In realtà, chi non
è totalitariamente di Dio è del mondo o di satana, e la patina di
pietà che può avere non muta il suo atteggiamento in ordine a Dio.
Egli, in realtà, non lo ama, e quel poco di bene che accetta,
l'accetta o per proprio tornaconto o perché non vuole internamente
prescindere dalla fede e dalla religione dei padri.
Non
c'è cosa più monca e più meschina quanto una fede accettata
unicamente come tradizione atavica. La fede dev'essere amore, e amore
totalitario. Non si può amare con il cuore degli avi né si può
credere perché essi hanno creduto; si crede per l'autorità di Dio
che rivela, e si obbedisce non a un qualunque uso antico ma a una
Legge divina che è sempre attuale e sempre soavemente imposta dalla
sua adorabile Volontà.
Sac.
Dolindo Ruotolo
Tratto
da “ I Quattro Vangeli” - Commenti e Meditazioni del Sac.
Dolindo Ruotolo - Casa Mariana Editrice – Apostolato Stampa - da
pag. 1411 a pag 1417
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