venerdì 17 settembre 2021

L'ascensore e la scala della perfezione... di padre Marie Dominique Moliniè - Tratto da «Chi comprenderà il cuore di Dio?»

    Quando Gesù chiede di portare la sua croce, ci s'immagina che bisogna portarla coraggiosamente e generosamente, perciò pensiamo che sia faticoso, malgrado la sua promessa: «Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero». Per capire questa dolcezza occorre avere un cuore di bambini, altrimenti si dirà con in Giudei: «Queste parole sono difficili, chi potrà intenderle?».

    Ma non è il Cristo che ci domanda di portare la croce «coraggiosamente», bensì il nostro orgoglio. Esso è tanto più grave quanto più è capace di approfondirsi. L'orgoglio dei farisei è peggiore di quello degli uomini normali, ma quello dei cristiani — l'orgoglio della perfezione — è il più diabolico. Nella Chiesa le grandi catastrofi ebbero origine dai monaci, dai sacerdoti e dai teologi. Per esempio: le «Angeliche di Port-Royal», pure come degli angeli e orgogliose come demoni...

    Francesco d'Assisi fu un meraviglioso convertito, ed i convertiti attraggono maggiormente rispetto agli innocenti, come San Domenico che non sapeva nulla del peccato. Sul suo letto di morte non riuscì a confessare che una leggera tendenza a preferire le giovani donne a quelle più anziane, quando scendeva in parlatorio. Come tutti quelli che sono fondamentalmente buoni, la sua compassione era senza limiti, tendeva a scusare i peccatori, fino al giorno in cui scoprì il vero peccato attraversando il sud della Francia, dove si trovavano gli Albigesi ed i Catari. Là vide l'imperdonabile peccato di coloro che si vogliono perfetti.

    Dunque, esiste un orgoglio banale, l'orgoglio dei farisei, e quello dei cristiani, che è il peggiore. Non sempre è visibile a prima vista; può nascondersi sotto un'apparente dolcezza ed anche santità. Gli atleti spalmavano il loro corpo con l'olio, ed anche gli orgogliosi lo fanno, quella falsa dolcezza che non è l'unzione dello Spirito Santo!

    Ritorniamo al Vangelo. Noi ammiriamo quelli che soffrono con generosità, pensiamo «ecco cosa bisognerebbe fare», ed esigiamo da noi stessi un coraggio che neanche il Cristo pretende. Se occorresse precisare la sua domanda, direi il contrario: «Se qualcuno vuol essere mio discepolo rinunci a se stesso e porti la sua croce di ogni giorno, in modo che io mi impietosisca.

— Ma i santi non sono quelli che suscitano la pietà degli altri!

— I santi non lo sono perché sanno accogliere i doni di Dio».

    Questa è la storia di Gedeone: «Il dono di Dio è un Essere ammirabile, non è opera tua. Quando l'avrai ricevuto, al posto di trascinare la croce, tu la porterai. Anzi, ancor più profondamente, sarà la croce che ti porterà. Quando l'avrai trascinata in modo che io mi impietosisca e per tutto il tempo che a me piace, prenderai il volo e la porterai non ammirabilmente, neanche gioiosamente, ma nella pace, con pazienza, e (questa parola va detta poiché si trova sul Vangelo) con dolcezza — poiché "il mio giogo è dolce e il mio carico leggero". Sperimenterai tutto questo quando avrai rinunciato ad essere ammirabile, generoso e coraggioso, cioè gradito ai tuoi occhi».

E' la parabola di Santa Teresa, quella dell'ascensore e della scala. Saliamo una scala, Dio è in alto e ci dice - «vieni». Poniamo il caso che la scala conti sessanta gradini. Ci si lancia con tutte le proprie forze, si arriva al decimo o all'undicesimo scalino. Non male, ma più si sale più tendiamo a rallentare; va ancora bene per il primo piano, un po' di meno per il secondo!     Assomiglia a quello che succede quando si porta la propria croce. I primi dieci o undici gradini li si affronta con slancio; al quindicesimo, al sedicesimo, al diciassettesimo si rallenta pesantemente; al diciottesimo e diciannovesimo ci si sente in panne, ci si comincia a scoraggiare e s'inizia a chiedere a Dio che cosa aspetta ad aiutarci, diremo che Egli lo fa sempre di meno. All'inizio avevamo l'impressione di essere generosi e coraggiosi; ora non lo siamo più!

    Quando si raggiunge una specie d'immobilità apparente, a causa della quale non si può più neanche salire un altro gradino, ci si trova ad una svolta, una «crisi» (crises, la scelta) tra chi persevera e chi non persevera. Si dispera e si abbandona la partita; il demonio ci aspetta in questa tentazione: «Non ci arriverò, ho sperato ho creduto, non posso, è troppo difficile per me!».

    Oppure ascoltiamo il Vangelo_: «Ti chiedo di alzare il tuo piedino, anche se non riesci a salire un solo gradino.

— A che scopo?

— Non preoccuparti di nulla (Filippesi 4, 6)! Quando avrai sufficientemente "assaporato" l'accettazione della tua impotenza, t'invierò l'ascensore di cui parla Teresa.

Se ti avessi aiutato a salire le scale, avresti creduto di essere tu ad esserci riuscito! Ed io non voglio questo; sono geloso della mia Gloria.

    Allora ti lascerò ad aspettare sulla scala (non importa se al diciassettesimo gradino o al primo). Alza il tuo piedino, e quando riterrò che sei a buon punto, che ti sei sufficientemente mortificato, che sei diventato abbastanza più docile a furia di scoraggiarti e di avere fiducia in Me, ti porterò sulle mie braccia, l'ascensore divino. Ti ritroverai in cima alla scala e riconoscerai che sono stato io a fare ogni cosa!

— Allora tanto vale che mi sieda qui ad aspettare l'ascensore!».

    Ecco un'altra forma di scoraggiamento. Perché mai alzare il proprio piede invano? Domanda profonda. Che differenza c'è tra colui che si siede dicendo: «Visto che non ottengo nulla, aspetto» e quello che pur senza riuscire a salire un gradino solleva il suo piedino?

    La risposta di Dio è capitale. È formalmente insegnata dal Vangelo, da Teresa, da tutti i santi ed in particolare da San Paolo: «A furia di alzare il tuo piedino senza concludere nulla, tu mi raggiungerai. Il tuo obiettivo non deve essere quello di salire la scala, ma di far sì che io abbia pietà di te. Se tu ti siedi aspettando l'ascensore non avrò pietà di te perché non ti vedrò soffrire. Anche se sali la scala con le tue forze non avrò pietà di te. Ma se alzi il piedino avendo fiducia che "un giorno il mio Salvatore verrà", allora il mio Cuore non resisterà. Non si sta parlando di sforzi né di primati, ma di Dio che s'intenerisce» (cfr. Romani 9, 16).

    Non si tratta d'intenerire gli uomini, ma Dio, che non si lascia ingannare dalla falsa moneta. Per intenerire Dio occorre essere veramente poveri. E cosa c'è di più povero che provare a portare la propria croce senza riuscirci? I ricchi vogliono portarla solo a condizione che vi riescano altrimenti rifiutano perché la trovano inutile. I poveri non sono quelli che aspettano passivamente, come i quietisti; sono quelli che provano senza riuscire.

    In fondo è molto «difficile», ma al contrario: in questo gioco chi perde, vince. Bisogna sforzarsi, esaurire le proprie energie, donarsi totalmente, fare tutto quello che si può, ma per fallire completamente! Non significa che uno voglia perdere. Noi proviamo a farcela, ma progressivamente comprendiamo ed accettiamo che le nostre forze sono solo sprecate. Questa «perdita» è ciò che di più prezioso c'è agli occhi di Dio, poiché è il canto del nostro amore.

    Di colpo capiamo la Liturgia, che non serve a nulla e che a maggior ragione è bella. La musica, a cosa serve? Ad esprimere i sentimenti più profondi del proprio cuore. Quelli che suonano e cantano non lo fanno per ottenere un risultato, ma per suonare e per cantare. Anche quando portiamo la nostra croce con difficoltà, non è per ottenere un risultato ma per cantare il nostro amore.

    Fra Dio e noi intercorre una battaglia, perché per anni si afferma di portare la propria croce per cantare, e non è vero. Consapevolmente o meno vorremmo che  essa ci appagasse, e se ciò non succede ci scoraggiamo.

Là ci attendono Dio e il demonio, ognuno a suo modo: il demonio per scoraggiarci definitivamente e suggerirci di abbandonare la partita, Dio per aiutarci a continuare, ma sulla sua parola (cfr. Luca 5, 5), come gli apostoli dopo la pesca notturna nella quale non avevano preso nulla.

    Nella ricerca della perfezione, nello sforzo di portare la propria croce, c'è un livello massimo, ed un momento in cui tutti lo raggiungono. Alcuni giungono al quinto gradino, altri al trentasettesimo, e dopo? L'importante è che ci sia un livello massimo — e finché c'è non si può trovare Dio. Se si accetta di non superarlo mai senza perdere la fiducia, se si continua unicamente per far piacere a Dio e mostrargli giustamente che non si perde mai la fede, viene un giorno in cui Dio dice: «Questa volta non sarà come falsa moneta!». E ciò potrebbe durare a lungo.

    Per anni si solleva il proprio piede per «far piacere a Dio», quantomeno si dice di farlo; ma, in fondo, dentro di noi, qualcosa non si è ancora arreso, non ha ceduto, direi che non s'è gettato nel cuore di Dio, e resta duro.

Quando il Cristo dice ai suoi apostoli: «Avete il cuore duro», significa questo. Certo, offriamo il nostro cuore all'Amore, ma all'inizio il nostro cuore è più duro di quello che pensiamo. Allora Dio ci fa resistenza, e non è strano. Si solleva il proprio piede con la fondata impressione che ciò non serve a niente, e ci sono dei momenti in cui ci si spazientisce.

    Questo è il dramma d'Israele, la traversata del deserto. «Sarete sfamati, sarete saziati, sarete nutriti, portati sulle ginocchia...

— Non sembra che sia così. Non ci riesco.

— Non ci riesci perché non sei ancora abbastanza povero, né purificato, né scoraggiato, ma con piena fiducia in Dio. Vorresti che Egli costruisse la tua casa piano per piano, ma non succederà così. Ogni casa che tu costruisci, un giorno o l'altro Dio la demolirà o permetterà al demonio di demolirla. È necessario portare i materiali nel cantiere, fino al giorno in cui Dio ti donerà tutto in un sol colpo. Sarai trasportato, non dovrai fare più nessuna fatica, come i bambini».

    La ragazzina di cui ho parlato in un certo senso era al di là del combattimento, più di Teresa del Bambin Gesù, alla quale Dio domandava di subire delle tentazioni molto più pesanti. Quello che in lei è sconvolgente, è l'assenza di difficoltà nella gioia! Non proviamo mai ad imitare una cosa simile; quella è un'opera esclusivamente trinitaria, vi è posto il sigillo divino.

padre Marie Dominique Moliniè - Tratto da «Chi comprenderà il cuore di Dio?»




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