(Prima Istruzione)
S. Lorenzo Giustiniani, parlando della divina carità, dice che il nostro amore verso Dio, per essere vero e sincero, deve portare con sé questi tre caratteri, cioè:
1) pensare frequentemente a Dio;
2) parlare volentieri di Dio;
3) patire per Dio.
Questi stessi sono i caratteri che deve avere l'amore che dobbiamo al prossimo, perché, come abbiamo detto un'altra volta, l'amore di Dio e l'amore del prossimo sono due fratelli, due figli della stessa madre: la carità.
Come chi pensa frequentemente a Dio, parla volentieri di Dio con amore sincero; così mostra che ama di vero amore il suo prossimo, colui che per il suo prossimo fa tutto il bene possibile: dice quanto sa in suo favore e soffre per lui qualunque oltraggio.
Al contrario, come non può dire di amare Dio colui che pensa poco a Lui, che non sa articolare parola di Dio né delle Sue perfezioni infinite, e non vuole soffrire alcuna cosa per Dio, per la Sua gloria ed onore; così si deve dire che non ama il prossimo colui che per un suo fratello, per una sua sorella, per un suo compagno, per un suo amico, anzi per un suo stesso nemico, non fa quanto può, non dice quanto sa in suo favore, e non vuole tollerare un benché minimo disturbo.
Ma Gesù Cristo, Signore nostro, è un vero amico, il solo fedele fra quanti ne possiamo avere; Egli ci ama con schietto e sincero amore, e proprio perché ci ama di vero amore, noi troviamo espressi mirabilmente nel Suo amore verso di noi i tre caratteri accennati sopra.
Sì, Egli non solo fece per noi, per il nostro bene quanto poté; non solo disse quanto seppe ideare per noi di vantaggio e di utilità, ma volle darci ancora una prova più luminosa e più certa della Sua tenerezza, quale fu quella di patire e morire per noi, che è il terzo carattere del vero amore. E questa prova, affinché fosse più autentica, più solenne, più tangibile, volle darcela nel modo più splendido, morendo per noi sull'alto di una croce, in un mare di tormenti, di ingiurie e di spasimi.
O Gesù, innamorato delle anime nostre! Chi potrà rimanere freddo e insensibile a tale spettacolo? Io sento che il cuore mi si stringe a tanta dimostrazione dell'amore Vostro. Ora comprendo perché i Santi erano così assidui nella meditazione dei Vostri dolori; Essi scorgevano in questi la prova più evidente del Vostro infinito amore e ne traevano ardenti fiamme di riconoscenza e di amore.
È vero, io non sono santo, anzi sono un miserabile peccatore, tuttavia, ad imitazione dei Santi, io pure voglio meditare le Vostre pene, o mio Gesù, o meglio l'amore infinito con cui Voi soffriste per me. Io dunque, in così dolorosa meditazione imiterò i Santi e dirò col glorioso S. Bernardo: «Che è questo, o buon Gesù? Noi abbiamo peccato e Voi ne portate la pena. Questa è opera che non ha l'eguale; è grazia che non può supporre alcun merito; è carità che non conosce misura».
Sì, è opera senza esempio che un Dio patisca per l'uomo; è grazia totalmente indebita che Dio patisca per un uomo colpevole e reo; è carità che non conosce confine che Dio patisca infinitamente per questo uomo ingrato.
Ecco, mie Figlie, che cosa dobbiamo riflettere nella presente istruzione: l'eccesso dell'amore che ci dimostrò Gesù Cristo vero Figlio di Dio e nostro divino Maestro, nel patire e morire per noi.
Idea certamente divina è quella che Gesù Cristo ci fa concepire del Buon Pastore, che da la sua vita per le sue pecorelle.
Ma un buon pastore simile, dove mai si era visto? Se noi parliamo di pastori che conducono il gregge al pascolo, è inutile cercarne di simili. Infatti, vi è forse tra essi chi si lascia uccidere per le sue pecorelle? Non è ancora egli stesso che le uccide, che si veste delle loro lane e che si ciba delle loro carni?
Se noi parliamo di pastori spirituali, preposti al governo delle anime, basta leggere il cap. 34 di Ezechiele per vedere quali pastori si trovassero in Israele, prima che Gesù Cristo venisse nel mondo. In senso metaforico il Profeta dice che essi non solo non si lasciavano uccidere per la salute del loro gregge, ma essi stessi uccidevano le pecorelle più grasse, si nutrivano delle loro carni, si dissetavano del loro latte e del loro sangue, e per dire tutto in una parola: i pastori pascevano se stessi e non pascevano le pecorelle del Signore. Così si lamentava Iddio per bocca del suddetto Profeta.
Dunque un Pastore così buono, che desse la vita per le Sue pecorelle, non si era ancora visto da che mondo è mondo. Solo nella Passione e morte del nostro adorabile Salvatore si trova realizzato questo atto di carità immensa.
Eravamo noi tutti, come pecore del nostro Dio, dice Isaia. Ora che cosa si fa delle pecore? Si uccidono: e Dio avrebbe potuto, per il diritto di vita e di morte che ha sopra le Sue creature, ucciderci tutti come pecore da macello. Sì, lo poteva, - dice lo stesso Profeta - non c'è dubbio, tanto più che noi eravamo incorsi nel Suo sdegno, allorché a guisa di pecore indisciplinate, lasciato il santo ovile, eravamo passati a pascoli vietati a cogliere fiori di piaceri e a spargere semi di iniquità. Poteva, dunque, Dio punirci tutti con morte eterna e mandarci a quell'eterno supplizio che purtroppo avevamo meritato. Ma ecco il Buon Pastore, ecco l'atto di carità così eroico, di cui non si era mai visto esempio fino allora. Viene sulla terra Gesù Cristo, Signor nostro, si fa uomo come noi, si lascia uccidere come una pecorella che non si ribella né apre bocca per lamentarsi, e con il Suo sangue e la Sua morte, placato lo sdegno del Padre, merita per noi un vero e perpetuo diritto alla vita eterna.
Dopo ciò, non vi pare Sorelle mie, che Gesù possa dire e ripetere con ragione che Egli è il Buon Pastore? Sì, certamente, perché in verità il Pastore così buono, che dà la vita per le Sue pecorelle, non è che Lui solo. Ora come dovranno corrisponderGli queste pecorelle da Lui strappate alle fauci del lupo infernale? Come potranno dimenticarsi di Lui?
Ma Gesù, per maggiore tenerezza aggiunge che conosce tutte, ad una ad una, queste pecorelle per le quali Egli muore; così che Egli non muore per esse alla cieca, non muore senza affetto, ma conoscendole tutte indistintamente, tutte singolarmente le ama. Questo ancor più mi commuove e sempre meglio dimostra che Gesù è quell'ottimo Pastore, al quale è vano cercare chi Gli rassomigli.
Ma quanto mi atterrisce ciò che Egli subito aggiunge: «E le mie pecore conoscono Me». Mio Gesù, se io veramente Vi conoscessi, ben diversamente Vi amerei! Non sarei così freddo, così ghiacciato nel meditare che Voi siete morto per me, se Vi conoscessi davvero! Vivrei come vivo, se riflettessi che se ora vivo e se spero di vivere poi sempre in cielo, tutto mi viene dal Vostro amorosissimo Cuore, il Quale Vi spinse a dare la vita per amor mio? Dunque, non Vi amo come dovrei, e non Vi amo perché non Vi conosco, e se non Vi conosco non sono dunque nel numero delle Vostre pecorelle. Che terribile conseguenza sarebbe questa per me, se non mi tornassero opportune alla memoria quelle altre amorosissime parole: «Ho altre pecorelle che non sono ancora del mio ovile, ma anche queste Io devo ricondurre; esse pure udranno la mia voce e si farà così un solo ovile sotto un solo Pastore». Ecco, o divino Pastore, la più traviata di queste miserabili pecore: sono io che, udito l'amorevole Vostro richiamo, a Voi ritorno pregandovi di avere pietà di me. Il mio lungo errare lontano da Voi, mi ha reso affannoso il respiro e lento il passo, ma Voi confortatemi, o Pastore Divino, accoglietemi sul Vostro petto ed io, rinvigorito dalle fiamme del Vostro amore, Vi seguirò con lena sulla via della perfezione e non Vi lascerò mai più.
Ma chi è, Sorelle mie, Costui che si è lasciato uccidere per nostro amore e che morendo ci ha dato la vita? Fosse Egli anche l'uomo più abbietto del mondo, l'opera della Sua carità sarebbe senza esempio né dovremmo cancellarla mai dalla nostra memoria, poiché non si vide mai nessuno che sia morto per dar la vita ad un altro.
Ma Gesù non è l'uomo più abbietto del mondo; Egli è il creatore del Cielo e della terra, il Verbo eterno del Padre per cui tutte le cose sono state fatte e tutte si conservano; è quell'infinita Maestà che lodano gli Angeli e gli Arcangeli, innanzi alla Quale tremano i Principati e le Dominazioni; Quella al cui cospetto i Cherubini e i Serafini non cessano mai di cantare: «Santo, Santo, Santo è il Signore, Dio degli eserciti; piena è tutta la terra della Sua gloria». Per dirla con l'energica frase del Principe degli Apostoli, Gesù è l'Autore della vita che si è lasciato configgere in croce per noi. Un Dio morto per l'uomo!
Quando mai gli stessi gentili, come dice S. Alfonso M. de' Liguori, che si plasmavano i loro dei a capriccio, sono giunti ad inventarne uno, il quale tollerasse per la loro salute anche un minimo dolor di capo? Tali finezze di amore, non sarebbero mai entrate in un cuore umano, se il divin Cuore di Gesù non le avesse insegnate.
Venuta dunque, dice S. Paolo, la pienezza dei tempi, Iddio manda dal Cielo il Suo unico Figlio, Che fattosi uomo nel grembo di una Donna, si assoggetta alla legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, e così dar loro l'adozione di figli. Il Padre tanto desiderava la salvezza degli uomini che sacrifica il Suo caro Unigenito, il Quale uniformandosi ben volentieri all'amoroso disegno del Padre, dalla beatitudine eterna viene in questo esilio di pianto, all'unico fine di morire per noi.
Benedetto Colui che viene nel nome del Signore; benedetto l'Autore della benedizione eterna, poiché ha voluto farsi maledetto per noi e così liberarci dalla maledizione eterna; benedetto l'Autore della vita, il Primogenito di Dio, il Quale per noi si è fatto obbediente fino alla morte, affinché noi avessimo l'abbondanza della vita, e vivendo per Lui, non più vivessimo per noi stessi, ma solo per Colui che è morto per noi. Così ci esorta S. Paolo nella seconda lettera ai Corinzi.
Sorelle mie, vi pare forse che si esiga troppo da noi, esigendo che spendiamo tutta per Dio quella vita che Egli ci donò, a prezzo di tutto il Suo prezioso sangue?
Perfino i gentili delle Indie, nell'udire annun-ziare da S. Francesco Saverio l'amoroso sacrificio di un Dio che muore per gli uomini, non potevano trattenersi dall'esclamare: «Quanto è buono il Dio dei cristiani!».
Vedendo, poi, che i cristiani ingrati non cessavano di offendere un Dio così buono, non sapevano indursi a credere che fosse vero quanto loro si an-nunziava; e così, sovente, a causa del cattivo esempio, preferivano rimanere nelle tenebre della loro ignoranza.
E noi, mie care Figlie, potremo non riamare di sincero amore questo Dio così buono? Potremo volgere ad altri, fuorché all'amabilissimo Gesù, gli affetti del nostro cuore? Mio Gesù e mio Dio, morto per i miei peccati e risorto per la mia giustificazione, che cosa direbbe mai un pagano se vedesse il modo con cui io corrispondo al Vostro amore? Non basterebbe questo a gettare il discredito su quanto viene loro insegnato e rimanere così nella loro idolatria?
Vedete, dunque, o Signore, che la freddezza del mio amore ridonda in certo modo a Vostro danno? Vedete che i peccatori non si vogliono convertire, se non vedono, dalle mie opere, che io Vi amo? Datemi, dunque, questo amore operoso; amore che parta da un cuore generoso e cerchi, per quanto può, di ricambiare l'Opera senza esempi che Voi mi avete mostrato con il patire e il morire per me. Amen.
AMORE DI GESÙ VERSO GLI UOMINI NEL PATIRE PER ESSI
(Seconda Istruzione)
Giacobbe, per avere in isposa la bella Rachele, servì volentieri per ben 14 anni Labano, padre di lei, sembrandogli questo spazio lungo solo pochi giorni, tanto Giacobbe amava Rachele di grandissimo amore. Se solo per giungere alle nozze bramate, Giacobbe si fosse lasciato insultare, incatenare, battere, straziare senza pietà, che cosa si direbbe?
La Divina Scrittura dice ancora che Giònata amava Davide come l'anima sua; che anzi l'anima di Giònata era strettamente unita a quella di Davide. E questo, solo perché Giònata rivestì Davide delle sue proprie vesti e lo adorno delle sue armi, quando ritornava trionfante dal campo nemico, con in mano il teschio dell'ucciso Filisteo. Oltre a questo, Giònata disse buone parole in favore di Davide per sottrarlo all'iniquo furore di Saul.
Che diremmo noi, se Giònata si fosse lasciato dissanguare, per tingere del proprio sangue una porpora di trionfo per il suo amico vincitore? Che diremmo, se invece di parlare al padre in favore di Davide, si fosse per lui offerto a placarne lo sdegno con la propria morte?
Mio Gesù, che torto ben grande Vi si fa, pretendendo di trovare fra gli uomini esempio di ciò che Voi solo faceste!
Sì, Sorelle mie, quello che Giacobbe non fece, quello che a Giònata neppure venne in mente di fare. Gesù, nostro vero amante, concepì nel Suo cuore e fedelmente eseguì. Egli per giungere alle nozze con le nostre anime, si adagiò sopra un letto di croce, e tanto era l'ardore del Suo amore, che a Lui, quel durissimo letto, sembrava quasi smaltato di fiori; e il giorno in cui, per il Suo buon cuore, confitto sulla croce, doveva spirare fra orribili spasimi, lo chiamò giorno delle Sue nozze, giorno veramente di allegrezza.
Egli, inoltre, qual Giònata più amoroso, si offrì realmente al Padre, per pagare in nostra vece i ben meritati castighi, e del suo preziosissimo sangue tinse ed imbiancò quella porpora immortale, che noi speriamo che ci adorni per tutta l'eternità beata.
Ciò non vi pare, Sorelle mie, amate veramente con tutto il cuore? Può forse trovarsi un amore più sincero, più pieno, più bello, più totale di questo? Gesù Cristo stesso afferma che non può trovarsi; infatti, nessuno ha mai avuto carità maggiore di questa: di dare la propria vita per i suoi amici.
Ma questa è la prova solenne che Gesù ha voluto dare dell'amore Suo: morire per noi; per noi, non Suoi amici, che pure sarebbe stata sempre un'opera incomparabile, come abbiamo altre volte meditato, ma per noi peccatori. È una grazia di straordinario amore, una beneficenza che supera ogni merito, come vedremo questa sera, se voi mi seguirete con attenzione.
È verità di fede che qualsiasi grazia, proprio perché è grazia, non può meritarsi degnamente. Con tutto ciò, quando la grazia si dona non solo a chi non la merita, ma a chi positivamente la demerita, allora, in un senso tutto particolare, si chiama «grazia non meritata», perché concessa invece del dovuto castigo. Questa è appunto la grazia che l'amante Cuore di Gesù ha fatto, con la Sua passione e morte, a tutto il genere umano.
Infatti, tutti sappiamo che la sola colpa originale bastava, da sola, a rendere ogni uomo, per sempre, immeritevole delle divine misericordie; e a questa colpa, direi ereditaria, quante altre furono aggiunte di nostra propria volontà!
Fin dal tempo di Noè, quando l'idolatria non si conosceva ancora nel mondo, Dio affermò che ogni uomo aveva corrotto il Suo disegno di amore, e quindi Egli si era pentito di averlo creato, perché tutto era divenuto come di carne.
Il S. Re Davide ci offre una visione, nel salmo XIII, ove dice che Dio un bel giorno si chinò a guardare dal Cielo i figli degli uomini, per vedere se vi fosse chi avesse la vera intelligenza, o ricercasse Iddio nel suo cuore, e vide che tutti avevano deviato dal retto sentiero.
Certo che se si considera ciò che l'uomo farebbe, se si abbandonasse ai suoi istinti naturali, ciò che purtroppo fa così sovente, nonostante quella grazia amorosa che sempre lo conforta, non si potrebbe dire altrimenti né di quella età né di tutte le altre età che seguirono.
Che cumulo di peccati, che torrenti di iniquità
allo sguardo di Dio! Eppure Iddio, a tale vista, invece di armarsi di fulmini, invece di far scendere fuoco dal cielo, per incenerirci tutti quanti, manda dal cielo il Suo benedetto Figlio in forma umana, e a Lui, che è il solo innocente, fa sentire tutto il peso della Sua giustizia, riservando per noi solo misericordia e perdono. Carità immensa del Padre che sacrifica il Suo Figlio; carità immensa del Figlio che per noi si lascia sacrificare! Quale grazia totalmente liberale e gratuita!
Non crediate, Sorelle mie, però, che Dio abbia inteso donarci inutilmente tanto eccesso di grazia. S. Paolo osserva opportunamente che se Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori, ciò è stato perché Dio intendeva inculcare, e quasi raccomandare a noi di amarLo con tutto il cuore. Iddio vuole che tanto più Lo amiamo, quanto maggiori sono i peccati dai quali ci ha liberati. Oh! Padre eterno, Voi dunque, avete fatto ostia per tutti i peccati del mondo il Vostro Figlio, che non conosceva peccato, affinché noi diventassimo in Lui giustizia di Dio! E, Voi, o eterno Figlio, non aveste in orrore la brutta sembianza di peccatore né temeste di abbandonarvi nelle loro mani e di subire per noi il tormento della croce? Benedite, o eterno Padre, e ringraziate per noi il Vostro Figlio. Benedite, o Divin Figlio, e ringraziate per noi l'eterno Vostro Genitore, poiché né io né tutti gli uomini insieme, potremo mai farlo come conviene.
Ma la carità di Gesù, Sorelle mie, va ancora più innanzi. Egli non soffre solamente per noi peccatori, ma soffre, inoltre, per noi ingrati. A chi soffre per una persona indegna, allo scopo di farle del bene, nei suoi patimenti gli è di grande conforto il dire fra sé: io soffro, è vero, per un malvagio; mi sottopongo a questi travagli per chi meriterebbe invece la mia vendetta; costui, però, non ha cuore di ferro e può essere che vedendo tanta dimostrazione di affetto si commuova, cambi, e finalmente mi ami tanto, quanto prima mi aveva odiato. Forse un giorno si pentirà amaramente di avermi dato disgusto.
Oh, se il Cuore di Gesù avesse potuto fare queste riflessioni, in mezzo a tanti tormenti, subiti per noi peccatori, quanto gli sarebbero sembrati meno duri, anzi forse più dolci! «Io muoio - avrebbe detto - io muoio di dolore per uomini perduti, ma questi uomini da me così salvati, un giorno finalmente mi ameranno, renderanno almeno qualche affettuoso sospiro, qualche palpito di amore a tante mie pene. Essi, inoltre, non hanno un cuore di pietra. Io, che li ho creati, so benissimo di aver posto nei loro petti un cuore di carne, un cuore facilissimo a sentire le emozioni della riconoscenza!».
Ma, mio Gesù, poteste Voi consolarvi così nei miei riguardi? Nei riguardi della maggioranza degli uomini? Certo, in tal caso, il più acerbo dei Vostri tormenti Vi sarebbe stato risparmiato, quello cioè di patire per uomini ingrati; ma è certo altresì che l'amore Vostro non si sarebbe mostrato così infinito, né la grazia della Vostra redenzione così magnanima e generosa, come apparve conferendola ad uomini non solo immeritevoli, ma per di più ingrati: «Gratia sine merito».
Sapeva, dunque, assai bene, Sorelle mie, il nostro Gesù che andava a patire per uomini molto ingrati, per uomini che redenti col Suo sangue prezioso, nutriti con le Sue carni, onorati dal titolo di fratelli, adottati come Figli, sovente si dimenticano di Lui, e, non di rado, se ne ricordano solo per offenderLo e per oltraggiarLo.
Infatti, Egli fece di ciò amorevole lamento per bocca del Profeta quando disse, che dagli uomini Gli si rendeva mali per beni; non disse: male per bene, ma mali per beni, infatti i beni che Egli ci ha fatti sono molti, grandissimi, sono infiniti; come infiniti, senza numero, senza misura sono i mali, le villanie, le ingiurie, gli strapazzi, gli insulti che dagli uomini Gli vengono resi.
E Gesù, che fa alla vista di tale e tanta ingratitudine? Lo aggiunge Egli stesso nel medesimo luogo: «Io ero, dice Egli, verso di loro compiacente, come verso un compagno, verso un fratello; con loro mi umiliavo come uomo che piange e si rattrista insieme».
Come legge con forza il testo ebreo: «Io - dice Cristo - mi diportavo con gli uomini come con un amico, come con un fratello, e sopra di loro mi chinavo per aiutarli, come fa una madre dolente sul caro frutto del suo grembo». Tenerissima idea che giova meravigliosamente a darmi un degno concetto dell'infinita carità di Gesù verso gli uomini. Una madre che si vede morire dinanzi agli occhi un suo caro figlioletto, dopo aver tentato tutti i mezzi per salvarlo, si stende tutta verso di lui e si adopera in tutti i modi per richiamarlo alla vita.
Così Gesù, in modo tanto più commovente e pietoso, si abbandona, morendo, sopra di me, sopra di voi, sopra tutti gli uomini, e dall'aperto costato ci offre a bere il sangue e l'acqua per la nostra vita spirituale. Ma questa idea dimostra troppo bene la mia grande ingratitudine.
Signore, mi scoppia il cuore al solo pensarci! Potevate Voi forse farmi beneficio maggiore di quello che mi avete fatto, dando la vostra vita per me?
Potevo io operare in modo più mostruoso, di quello con cui Vi ho offeso?
Pare quasi che Voi ed io abbiamo fatto a gara chi vincesse: Voi in beneficarmi ed io in offendervi.
Deh, mio Salvatore, togliete dal mondo questo spettacolo e non lasciatelo vedere agli Angeli Vostri, i quali, potendolo, ne piangerebbero amaramente.
Sì, cambiatemi, o mio Gesù, questo cuore, che solo per Voi è stato di pietra, mentre per le creature è stato tutto di amore: cambiatelo, fate che diventando come pietra insensibile ad ogni affetto che non è per Voi, sia poi tutto amore, tutto tenerezza, tutto riconoscenza per le grazie che il Vostro cuore amorosissimo mi ha fatto, grazia che per me, in modo specialissimo, può chiamarsi non meritata: grazia senza merito.
Ma neppure qui è ancora tutto, Sorelle mie. La carità di Gesù nel patire per noi, peccatori ed ingrati, è senza misura, perché ha patito oltre ogni misura. E qui vorrei che prestaste maggior attenzione, perché questo è un punto di somma efficacia, per risvegliare in noi quell'amore che Gesù Cristo desidera da noi.
Ponderate, dunque, mie dilettissime, come per provarci l'infinito amor Suo bastava che il Divin Redentore si lasciasse fare per noi villanie ed insulti da un solo uomo; ora che farà, avendo voluto Egli dare ampia licenza di insultarLo a tutti, d'ogni classe e d'ogni condizione?
«Fremettero le genti, dice il Profeta, e i popoli interi meditavano consigli di follia; i principi s'accordarono insieme contro il loro Signore e contro il Suo Cristo».
Erode lo dileggia; i suoi cortigiani se ne fanno beffa; Anna e Caifa, sommi Sacerdoti, lo beffeggiano; i farisei lo calunniano; la nazione ebrea, con grida furiose, ne chiede la morte e la nazione dei gentili la eseguisce.
Persino di quei dodici apostoli, da Voi scelti, o Gesù e con tanto amore ammaestrati, uno Vi tradisce e Vi vende; un altro, non bastando una, Vi nega tre volte, tutti poi, fuggendo, Vi abbandonano nel maggior vostro bisogno.
Oh mio Gesù, Voi avete voluto patire in molti modi per darmi prova di quanto mi amiate; ed io, trattandosi di patire per Voi qualche cosetta, mi rifiuto e mi ribello. E poi dirò che Vi amo? Se io Vi amassi davvero non farei tante distinzioni, ma volentieri accetterei ogni pena che Voi mandate, qualunque sia il mezzo o la persona di cui Vi serviste per mandarmela. Ma fino a quando vorrò io vivere così stolto ed insensato? Voi non solo volete patire da parte di ogni sorta di persona, ma volete patire ancora senza misura.
Certamente, Sorelle mie, se il più piccolo dolore che Cristo Gesù si fosse degnato di patire per noi,
sarebbe stato più che sufficiente a soddisfare l'infinito suo amore, quale stima dovremmo noi avere di tanti dolori che, senza misura, senza numero, ha voluto Egli patire in Se stesso e nelle cose Sue, nel corpo e nell'anima, in vita ed in morte!
Nelle cose Egli soffre tanto che muore nudo sulla croce.
Nell'onore non può patire di più, perché viene condannato come sollevatore di popolo e bestemmiatore di Dio, reo perciò, di aver offeso l'autorità umana e divina.
Che diremo poi della sua adorabile persona? L'anima patisce spasimi ed agonie di morte e può dire con verità, quanto all'effetto, di essere da Dio abbandonata.
E il corpo? Quel dolcissimo corpo non ha parte che sia sana. Cominciando dal capo fino alla pianta dei piedi, non ha membro che non soffra il suo particolare tormento: spine nelle tempie che penetrano in profondità; gli occhi offesi alla vista di tanti beffeggiatori; gli orecchi feriti dal suono di tante bestemmie; la lingua amareggiata con aceto e con fiele; le mani ed i piedi trafitti con chiodi; tutte le venerabili membra colpite e solcate da flagelli. Quando non vi è più parte illesa, s'aggiungono ferite a ferite, ribattendoGli le parti già battute.
Quando le carni sono lacere, si passa alle ossa, le quali, non potendosi infrangere, sono tanto stirate sulla croce, che tutte si possono numerare ad una ad una, «dinumeraverunt omnia ossa mea».
Non rimaneva di intatto che il cuore. Quest'organo tanto prezioso della vita, non lo si poteva toccare
senza far morire Gesù e, se Egli moriva, non poteva per noi soffrire quanto sofferse.
Il cuore stava, pertanto nel tabernacolo del Divin petto, soffrendo quanto di tormentoso si faceva patire al corpo e all'anima, ma sottraendosi nello stesso tempo alle punte micidiali, per poter soffrire più a lungo.
Dopo la morte, un soldato, squarciandone il costato, con una lancia penetra fino al cuore e fa uscire quel poco di sangue e di acqua che ancora vi restava.
O mio Gesù, io adoro questa amorosa ferita del Vostro cuore, la quale ben chiaramente mi dice e mi dimostra che l'amor Vostro per me non conosce misura. A Voi non bastò soffrire fino alla morte, ma anche dopo quella, Voi voleste squarciato il Vostro amorosissimo cuore: carità senza misura!
Ma com'è che di fronte a carità così eccessiva, io sono così avaro e restio a patire per amore Vostro?
Com'è che ad ogni doloruccio che mi sorprende, mi turbo e mi lamento? Se io posso procurarmi un agio non lo lascio sfuggire, mentre se si tratta di schivare una mortificazione io sono tutto industria per farlo. Così corrispondo io, dunque, all'infinito Vostro amore?
Quale ingratitudine senza misura è la mia!
Che Vi potrò rispondere, mio Signore, quando, venendo per giudicarmi, mi farete vedere i segni delle trafitture per me sopportate e mi chiederete che cosa io abbia fatto, per riconoscenza? Certamente non cammino bene per questa via di soddisfazioni e di diletti.
S. Paolo mi assicura che coloro che realmente appartengono a Cristo mortificano la loro carne con tutti i suoi vizi e le sue concupiscenze. Ora, io voglio essere Vostro, o mio Gesù, perciò non voglio più starmene senza sofferenze, dal momento che vedo Voi tutto coperto di ferite.
Me fortunato, se potrò patire qualche cosa per Voi, che tanto patiste per me! Allora sì che potrò con lo stesso S. Paolo, darmi il bel vanto di portare nel mio corpo le stimmate adorate del mio Signore, anzi potrò, con lo stesso Santo, gloriarmi d'essere confitto in croce con Cristo: Cum Christo crucifixus sum cruci . Amen.
Don Agostino Roscelli
Tratto dal sito
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