Cari fratelli e sorelle,
oggi viviamo in un mondo che sta
diventando sempre più “piccolo” e dove, quindi, sembrerebbe
essere facile farsi prossimi gli uni agli altri. Gli sviluppi dei
trasporti e delle tecnologie di comunicazione ci stanno avvicinando,
connettendoci sempre di più, e la globalizzazione ci fa
interdipendenti. Tuttavia all’interno dell’umanità permangono
divisioni, a volte molto marcate. A livello globale vediamo la
scandalosa distanza tra il lusso dei più ricchi e la miseria dei più
poveri. Spesso basta andare in giro per le strade di una città per
vedere il contrasto tra la gente che vive sui marciapiedi e le luci
sfavillanti dei negozi. Ci siamo talmente abituati a tutto ciò che
non ci colpisce più. Il mondo soffre di molteplici forme di
esclusione, emarginazione e povertà; come pure di conflitti in cui
si mescolano cause economiche, politiche, ideologiche e, purtroppo,
anche religiose.
In questo mondo, i media possono
aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci
percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che
spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più
dignitosa. Comunicare bene ci aiuta ad essere più vicini e a
conoscerci meglio tra di noi, ad essere più uniti. I muri che ci
dividono possono essere superati solamente se siamo pronti ad
ascoltarci e ad imparare gli uni dagli altri. Abbiamo bisogno di
comporre le differenze attraverso forme di dialogo che ci permettano
di crescere nella comprensione e nel rispetto. La cultura
dell’incontro richiede che siamo disposti non soltanto a dare, ma
anche a ricevere dagli altri. I media possono aiutarci in
questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione
umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet
può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra
tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio.
Esistono però aspetti problematici: la
velocità dell’informazione supera la nostra capacità di
riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé
misurata e corretta. La varietà delle opinioni espresse può essere
percepita come ricchezza, ma è anche possibile chiudersi in una
sfera di informazioni che corrispondono solo alle nostre attese e
alle nostre idee, o anche a determinati interessi politici ed
economici. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere o, al
contrario, a disorientarci. Il desiderio di connessione digitale può
finire per isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino.
Senza dimenticare che chi, per diversi motivi, non ha accesso ai
media sociali, rischia di essere escluso.
Questi limiti sono reali, tuttavia non
giustificano un rifiuto dei media sociali; piuttosto ci
ricordano che la comunicazione è, in definitiva, una conquista più
umana che tecnologica. Dunque, che cosa ci aiuta nell’ambiente
digitale a crescere in umanità e nella comprensione reciproca? Ad
esempio, dobbiamo recuperare un certo senso di lentezza e di calma.
Questo richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare.
Abbiamo anche bisogno di essere pazienti se vogliamo capire chi è
diverso da noi: la persona esprime pienamente se stessa non quando è
semplicemente tollerata, ma quando sa di essere davvero accolta. Se
siamo veramente desiderosi di ascoltare gli altri, allora impareremo
a guardare il mondo con occhi diversi e ad apprezzare l’esperienza
umana come si manifesta nelle varie culture e tradizioni. Ma sapremo
anche meglio apprezzare i grandi valori ispirati dal Cristianesimo,
ad esempio la visione dell’uomo come persona, il matrimonio e la
famiglia, la distinzione tra sfera religiosa e sfera politica, i
principi di solidarietà e sussidiarietà, e altri.
Come allora la comunicazione può
essere a servizio di un’autentica cultura dell’incontro? E per
noi discepoli del Signore, che cosa significa incontrare una persona
secondo il Vangelo? Come è possibile, nonostante tutti i nostri
limiti e peccati, essere veramente vicini gli uni agli altri? Queste
domande si riassumono in quella che un giorno uno scriba, cioè un
comunicatore, rivolse a Gesù: «E chi è mio prossimo?» (Lc
10,29). Questa domanda ci aiuta a capire la comunicazione in termini
di prossimità. Potremmo tradurla così: come si manifesta la
“prossimità” nell’uso dei mezzi di comunicazione e nel nuovo
ambiente creato dalle tecnologie digitali? Trovo una risposta nella
parabola del buon samaritano, che è anche una parabola del
comunicatore. Chi comunica, infatti, si fa prossimo. E il buon
samaritano non solo si fa prossimo, ma si fa carico di quell’uomo
che vede mezzo morto sul ciglio della strada. Gesù inverte la
prospettiva: non si tratta di riconoscere l’altro come un mio
simile, ma della mia capacità di farmi simile all’altro.
Comunicare significa quindi prendere consapevolezza di essere umani,
figli di Dio. Mi piace definire questo potere della comunicazione
come “prossimità”.
Quando la comunicazione ha il
prevalente scopo di indurre al consumo o alla manipolazione delle
persone, ci troviamo di fronte a un’aggressione violenta come
quella subita dall’uomo percosso dai briganti e abbandonato lungo
la strada, come leggiamo nella parabola. In lui il levita e il
sacerdote non vedono un loro prossimo, ma un estraneo da cui era
meglio tenersi a distanza. A quel tempo, ciò che li condizionava
erano le regole della purità rituale. Oggi, noi corriamo il rischio
che alcuni media ci condizionino al punto da farci ignorare il
nostro prossimo reale.
Non basta passare lungo le “strade”
digitali, cioè semplicemente essere connessi: occorre che la
connessione sia accompagnata dall’incontro vero. Non possiamo
vivere da soli, rinchiusi in noi stessi. Abbiamo bisogno di amare ed
essere amati. Abbiamo bisogno di tenerezza. Non sono le strategie
comunicative a garantire la bellezza, la bontà e la verità della
comunicazione. Anche il mondo dei media non può essere alieno
dalla cura per l’umanità, ed è chiamato ad esprimere tenerezza.
La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete
di fili ma di persone umane. La neutralità dei media è solo
apparente: solo chi comunica mettendo in gioco se stesso può
rappresentare un punto di riferimento. Il coinvolgimento personale è
la radice stessa dell’affidabilità di un comunicatore. Proprio per
questo la testimonianza cristiana, grazie alla rete, può raggiungere
le periferie esistenziali.
Lo ripeto spesso: tra una Chiesa
accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di
autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima. E le strade
sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile
effettivamente e affettivamente. Tra queste strade ci sono anche
quelle digitali, affollate di umanità, spesso ferita: uomini e donne
che cercano una salvezza o una speranza. Anche grazie alla rete il
messaggio cristiano può viaggiare «fino ai confini della terra»
(At 1,8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle
nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque
condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa
varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti. Siamo
chiamati a testimoniare una Chiesa che sia casa di tutti. Siamo
capaci di comunicare il volto di una Chiesa così? La comunicazione
concorre a dare forma alla vocazione missionaria di tutta la Chiesa,
e le reti sociali sono oggi uno dei luoghi in cui vivere questa
vocazione a riscoprire la bellezza della fede, la bellezza
dell’incontro con Cristo. Anche nel contesto della comunicazione
serve una Chiesa che riesca a portare calore, ad accendere il cuore.
La testimonianza cristiana non si fa
con il bombardamento di messaggi religiosi, ma con la volontà di
donare se stessi agli altri «attraverso la disponibilità a
coinvolgersi pazientemente e con rispetto nelle loro domande e nei
loro dubbi, nel cammino di ricerca della verità e del senso
dell’esistenza umana» (Benedetto
XVI, Messaggio
per la XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali,
2013). Pensiamo all’episodio dei discepoli
di Emmaus. Occorre sapersi inserire nel dialogo con gli uomini e le
donne di oggi, per comprenderne le attese, i dubbi, le speranze, e
offrire loro il Vangelo, cioè Gesù Cristo, Dio fatto uomo, morto e
risorto per liberarci dal peccato e dalla morte. La sfida richiede
profondità, attenzione alla vita, sensibilità spirituale. Dialogare
significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da
dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue proposte. Dialogare
non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla
pretesa che siano uniche ed assolute.
L’icona del buon samaritano, che
fascia le ferite dell’uomo percosso versandovi sopra olio e vino,
ci sia di guida. La nostra comunicazione sia olio profumato per il
dolore e vino buono per l’allegria. La nostra luminosità non
provenga da trucchi o effetti speciali, ma dal nostro farci prossimo
di chi incontriamo ferito lungo il cammino, con amore, con tenerezza.
Non abbiate timore di farvi cittadini dell’ambiente digitale. È
importante l’attenzione e la presenza della Chiesa nel mondo della
comunicazione, per dialogare con l’uomo d’oggi e portarlo
all’incontro con Cristo: una Chiesa che accompagna il cammino sa
mettersi in cammino con tutti. In questo contesto la rivoluzione dei
mezzi di comunicazione e dell’informazione è una grande e
appassionante sfida, che richiede energie fresche e un’immaginazione
nuova per trasmettere agli altri la bellezza di Dio.
Dal Vaticano, 24 gennaio 2014,
memoria di san Francesco di Sales
FRANCESCO
Dal sito
http://w2.vatican.va/
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