Tra
gli otto santi cappuccini, fioriti tra i secoli XVI e XIX, Ignazio è
l’unico canonizzato vissuto nel ‘700. Risulta il primo in ordine
di anzianità: ottanta anni di età, trascorsi tra Laconi e Cagliari
nei primi tre quarti del ‘700, e sessanta anni di speciale
consacrazione tra i cappuccini, nella Sardegna.
Visse
tra un fiorire di miracoli, sin da fanciullo, nel paese di Laconi,
nel Sarcidano, circondato da boscaglie di querce. Incontrando in
piazzuole « dei puttini a giuocare » — assicurano i processi
informativi — Vincenzo (era il suo nome di battesimo) si soffermava
a guardarli e « preso un baccolino andava indicando or questo, or
quello, dicendo: Tu sei del cielo ». Quei fanciulli, da lui
indicati, nel giro di pochi giorni, andavano davvero al cielo. Un dì,
all’ora di pranzo, lo zio Pietro Sanna aveva solo due pani
disponibili e molta gente, che aveva lavorato sulla sua terra, doveva
mangiare. Intervenne Vincenzo e assicurò che quella provvigione era
sufficiente. Così fu, perché tutti « mangiarono a soddisfazione...
e ne sopravanzò per riportarne a casa ».
Da
quanto riferisce e documenta il Summarium, edito nel 1868 nella
Positio super virtutibus e che riserva ben 121 pagine sui miracoli
operati in vita e 86 pagine sui miracoli compiuti dopo morte, frate
Ignazio risulta il santo più spettacolare dei cappuccini. Ci son
tutte le prove per qualificarlo un personaggio da leggenda, uno di
quei santi che appaiono trasognati e tutta luce nei mosaici absidali
delle antiche basiliche cristiane.
E’
scontato che non sono i miracoli a fare il santo, ma il quotidiano
impegno e sforzo di servire Dio. Se il miracolo è segno della
santità, la santità è grazia di Dio e collaborazione dell’uomo.
Pur
luminosa di miracoli, la vita di Ignazio fu decisamente donata a Dio.
Particolarmente dai venti agli ottanta anni.
Un
« si » a Dio rimandato per anni
Nato
il 18 dicembre 1701, chiamato al battesimo con i tre nomi di
Francesco, Ignazio, Vincenzo, si trovò a vivere all’alba del
secolo XVIII che, attraverso errori e apostasie, andava maturando
quei germi che sarebbero esplosi nella Rivoluzione francese. Ad
accoglierlo fu una catapecchia, cioè quattro mura malintonacate
sotto un basso spiovente di tegole.
Era
il secondogenito di Mattia Peis e Anna Maria Sanna, gente povera ma
cristiana, sudante il pane lavorando un po’ di terra in quel
paesetto di Laconi, in diocesi di Oristano, a circa 600 metri sul
mare, presso il versante orientale della Sardegna, costituito da
poche umili case e capanne attorno al castello in cui risiedeva il
Marchese. Lo seguirono altre cinque sorelle — una delle quali fu
clarissa, suor Agnese — e due fratelli.
Se
per tutta l’Isola, agli inizi del ‘700, la vita dei sardi era
economicamente e socialmente dissestata, per mancanza di
comunicazioni con il continente, per avversione al commercio e
al mare, per insistenze di carestie e pestilenze e malaria, tanto più
era difficile per la numerosa famiglia Peis. Anche la maternità
di Anna Maria Sanna aveva conosciuto disagi, in attesa di Vincenzo.
Per ottenerlo salvo e sano, l’aveva consacrato, ancora nel suo
grembo, al Santo di Assisi: per questo, al fonte battesimale, lo
aveva fatto chiamare anche Francesco. Ed aveva fatto voto di
consacrarglielo, nel suo Ordine.
La
famiglia Peis s’impegnò subito alla formazione cristiana di
Vincenzo, che istruiva nel catechismo e avviava alla chiesa, dove,
non ancora settenne, ricevette il sacramento della cresima, il 17
maggio 1707, e poi la comunione.
Laconi:
chiesa Parrocchiale
Ai
trastulli Vincenzino preferiva la chiesa e quanto si svolgeva essa.
La chiamava « la mia casa ». Di buon mattino, trovandola ancora
chiusa, s’inginocchiava dinanzi all’ingresso. I laconesi lo
chiamavano « su santixeddu », il santarello, anche perché lo
vedevano tutto il giorno con i suoi, nei lavori dei campi, nei quali
pure si raccoglieva a pregare, in silenzio e solitudine, specialmente
attendendo la mandria al pascolo.
Il
giovane svelava di essere fatto per la vita claustrale, totalmente
consacrata a Dio. Cominciò a dirsi chiamato da Dio a farsi Figlio di
san Francesco. Papà Mattia, che sentiva il bisogno delle braccia di
Vincenzo per portare avanti i quotidiani lavori per i nove Figli, lo
dissuase, adducendo motivazioni di sua debole costituzione Fisica e
di propri materiali interessi.
Gracile
di complessione, nell’adolescenza Vincenzo s’ammalò gravemente,
anche per i prolungati digiuni e mortificazioni. Fece voto di entrare
tra i cappuccini, se san Francesco gli avesse ridato la salute. Venne
la guarigione, ma non venne il « si » di papà Mattia alla
decisione del figlio. Intervenne, ancora una volta, Dio.
Laconi:
chiesa Parrocchiale
Sul
finire del 1721, Mattia ordinò a Vincenzo di partire a cavallo verso
il pascolo, per sorvegliare la mandria. Balzato a cavallo, Vincenzo
attraversò l’altipiano del Sarcidano. « Giunto ad un luogo tutto
pieno di macchioni e selvoso, il cavallo..., improvvisamente
impennatosi, si dié a correr furioso per la foresta ». Vincenzo
ricordò il voto emesso di farsi cappuccino e non ancora adempiuto.
Lo rinnovò. Rientrato incolume in casa,espose l’accaduto ai
genitori e la propria risoluzione, demolendo ogni loro obiezione, e
ripetendo: « No, non mi vogliate proibire questo stato, perciocché
il mondo non è per me ».
Finalmente
cappuccino
Il
2 novembre 1721, il ventenne Vincenzo, sul calesse guidato dal padre,
viaggiava verso Cagliari, distante da Laconi circa ottantasei
chilometri. Al convento di S. Antonio sui colle di Buoncammino, fatta
la richiesta al padre Francesco Maria da Cagliari, provinciale dei
cappuccini, di essere accettato come frate, Vincenzo si senti dire un
brutto « no », motivato dalla infermiccia costituzione che non gli
avrebbe permesso la vita di austerità e di lavoro presso i
cappuccini.
Vincenzo
— recluta non adatta per la esigente milizia francescana —
ricorse al marchese di Laconi, don Gabriele Aymerich, un protettore
della famiglia Peis, pregandolo di interporsi presso il provinciale
dei cappuccini. Il giorno dopo, marchese e provinciale s’incontrarono
e fu decisa l’accettazione di Vincenzo che, nella stessa giornata,
si ripresentò al convento di Buoncammino.
10
novembre, nel solitario convento di S. Benedetto abate, che guarda le
spalle di Cagliari, il giovane Peis, con il nome nuovo di fra
Ignazio, mettendo da parte il caratteristico costume dei laconesi,
vesti l’abito cappuccino e, sotto la direzione di fra Luigi da
Nureci, il maestro, iniziò l’anno di noviziato che continuò —
depone il teste fra Damiano da Neoneli — « con gran fervore di
pietà e religione, osservando con somma e particolare diligenza
tutte le regole anche le più minute, fossero di precetto o di
consiglio... Fu notevole sopra gli altri il raccoglimento, il
silenzio, l’obbedienza, frequenza di sacramenti, lo spirito di
orazione... Era comunemente riputato per santo, e tanto più quando
di notte, dopo il mattutino, fu trovato genuflesso davanti
all’immagine della Madonna Santissima esistente sulla scala, ai
pianerottolo che conduce alla sacrestia, e quivi si tratteneva in
dolci e teneri colloqui colla medesima a voce sensibile ».
Già
dal noviziato si profilava, matura e completa, la spirituale
fisionomia di sant’Ignazio, che sarà tipica del fratello
cappuccino:
sorridere
sotto le umiliazioni e la fatica; ininterrotto recitar di preghiere,
notte e giorno; analfabeta e uomo semplice, ma profondo intenditore
delle verità cristiane; serena obbedienza ai superiori; vivente in
giocondità, pur impegnato in uffici umili e sfibranti; cercatore di
provvidenza e datore di pace e guarigioni; frammento di vangelo, che
si muove per il mondo, al fine di fermentarlo di Cristo. Frate
Ignazio, sin da novizio, impegnando con grinta la rude tenacia di
montanaro, capi che questa doveva essere e la sua fisionomia e la sua
missione, entro e fuori convento.
Lo
apprese, una notte: fra Ignazio, prima del mattutino, salendo le
scale carico di un’anfora d’acqua, la senti tanto pesante da non
poterla reggere. Guardò a una Madonna, esposta sulla scala, e
domandò
aiuto. La Madre gli richiamò quanto avesse sofferto il suo Figlio
divino, che portava bambino sul braccio sinistro, nei giorni di
passione finiti sulla croce. La presenza di Maria SS. e l’esempio
di Gesù l’accompagnarono per tutta la vita, per tutte le strade,
in ogni fatica: con serenità e giovialità, qualità proprie di un
francescano.
Fra
pentole e gualchiere e poi per le strade
Giunse
per frate Ignazio il giorno della professione, 10 novembre 1722.
Vi giunse attraverso angustie, provocate da incertezze altrui sulla
sua vocazione, più esattamente sulla sua malferma salute. Nella
prima votazione quadrimestrale, apparvero quattro voti negativi,
espressi dai confratelli del noviziato. Il novizio raddoppiò
preghiere e mortificazioni e prestazioni. L’ultima votazione
fu favorevole.
Il
ventunenne professo — i testimoni dei processi tacciono o si
contraddicono — sembra sia stato inviato nel convento di Iglesias.
Lo confermano alcuni testimoni, indicandone l’incarico: dispensiere
e cuciniere. Fu ad Iglesias che, un giorno, gli caddero
inavvertitamente le chiavi della dispensa nei pozzo, mentre vi
attingeva l’acqua per il refettorio. Ignazio « s’inginocchiò, e
recitò devotamente tre Ave Maria alla Madonna, calò giù il
bigoncio, e ne attinse le chiavi suddette ».
Altri
testimoni depongono che Ignazio, dopo la professione, sia rimasto nel
convento di S. Benedetto, poi nel convento maggiore di Cagliari, al
Buoncammino, addetto alla cucina e al lanificio, nel quale lavoro di
« gualchiere per assodare i panni » passò i primi vent’anni di
religioso, mostrandosi uomo di « perfetto silenzio», « sempre
contenuto nel parlare ».
Dalle
gualchiere, nell’uso delle quali non appariva troppo esperto —
assicurano alcuni testimoni — sempre restando nel convento di
Buoncammino, passò alle strade di Cagliari, con bisaccia in spalla.
Contava quaranta anni. Per quaranta anni fece il questuante, sino
alla morte.
Può
essere « una fortuita coincidenza di tempo », non disgiunta da «
una misericordiosa e divina compiacenza » — fu fatto osservare ai
papa Pio XII, il 27 marzo 1951, nella promulgazione del altrettanto
per dare. Lungo tutte le strade della turrita e spagnolesca Cagliari
e del Cagliaritano.
L’incitamento
dei santi
A
donarsi con tutta generosità frate Ignazio si sentiva spinto da
confratelli santi, dei quali sentiva parlare. Novizio, nel convento
di S. Benedetto, gli era stata prospettata dinanzi più volte, nelle
istruzioni spirituali, la figura di fra Nicolò da S. Vero, umile
fratello, che aveva camminato per la Sardegna per cinquantasei anni,
quale cercatore. Era morto da appena tredici anni, precisamente a
Cagliari, nel convento di noviziato. Di quel frate, che aveva trovato
la propria santità nell’umiltà e nel faticoso servizio della
questua, Ignazio senti tutto il fascino. Se lo propose modello da
imitare. Lo ritenne protettore da invocare.
Nell’Ordine
cappuccino poi, in quella prima metà del ‘700, era tutto un
parlare di esemplari frati, la cui santità veniva riconosciuta dalla
Chiesa: ad esempio, Felice da Cantalice era stato canonizzato nel
maggio 1712; sette anni dopo, aprile 1719, era stato dichiarato beato
Serafino da Montegranaro; nel marzo 1729, ci fu esultanza per la
beatificazione del protomartire dei cappuccini e di Propaganda Fide
padre Fedele da Sigmaringa; nel giugno 1737, un altro beato, il
missionario Giuseppe da Leonessa, che si trovò, una decina d’anni
dopo, unito nella canonizzazione al beato Fedele da Sigmaringa, il 29
giugno 1746; nel maggio 1768, un’altra beatificazione, quella
di Bernardo da Corleone; nell’agosto 1769, riconoscimento
dell’eroicità delle virtù del futuro santo e dottore della Chiesa
padre Lorenzo da Brindisi. Fra Ignazio si trovò a vivere in tale
esplodente primavera di santità, ufficialmente riconosciuta e
proposta.
Diversi
testimoni ai processo ricordarono come Ignazio si ispirasse ai
cappuccini saliti sugli altari. Ad esempio: « Rammentava spesso...
la fortezza e costanza eroica dell’inclito martire san Fedele da
Sigmaringa, e generalmente dei santi martiri della fede, e ne
ascoltava le gesta con una santa ammirazione, e sommamente desiderava
imitarli... Desiderava di spargere il sangue per amore
e
gloria di Dio a imitazione di san Fedele da Sigmaringa... di cui con
santa compiacenza raccontava o udiva raccontare la gloriosa morte ».
« Parlava spesso dell’immensa carità di Gesù Sacramentato...,
dando per modello di questa virtù il beato Lorenzo da Brindisi, e
dicendo che questo beato era ben caldo d’amor divino, non come lui
freddo ». « Fu udito esternare il desiderio di avere l’umiltà e
la penitenza del beato Bernardo da Corleone ».
Ricevendole
dai fratelli santi, anche Ignazio riversava le ricchezze di Dio sugli
altri, fuori ed entro convento.
A
mani piene
Ogni
giorno per le strade di Cagliari significava, per frate Ignazio, ogni
giorno il dono del buon esempio. Lo riconfermò il teste de auditu
suor Maria Anna Herij, monaca clarissa a Cagliari:
«
Esercitò l’impiego di questuante per lo spazio di anni quaranta,
edificando il popolo con una rara modestia e religiosa compostezza
camminando sempre cogli occhi fissi in terra senza mai volgerli a
guardare veruna curiosità, taciturno e silenzioso, aborrendo dalle
inutili confabulazioni e parlare di mondo, e parlando poco e
misurato, qualora o la necessità o l’utilità del prossimo
l’obbligava a rompere il silenzio, tenendo sempre in mano la corona
e recitandola devotamente, lo che praticava eziandio in convento:
questo esteriore portamento del venerabile Servo era una viva
esortazione e predica al popolo che lo vedeva passare, onde è che al
suo comparire cessavano i dissidii, i mondani si componevano a
contegno di riverenza e rispetto verso di lui, e però era tenuto
quale angelo della pace ».
La
stessa teste documenta che era di edificazione, per la gente di
Cagliari, vedere quel frate disimpegnare « questo ufficio di
cercatore, per se stesso penoso e duro, tuttoché [egli fosse]
gracile di complessione » e mantenersi « rigorosamente pel corso di
quaranta anni... con tutta modestia in mezzo a tante
distrazioni, umile e paziente ». La prolungata predica del buon
esempio
Sono
a bizzeffe le testimonianze che comprovano come il frate della
bisaccia fosse l’atteso in quasi tutte le case di Cagliari,
specialmente quelle del quartiere più povero, di Stampace. Era
per lui un pagare caro, con lotte, pene, sacrifici, quella
popolarità, quasi glorificazione terrena. Soprattutto quando
affrontava certe interminabili scale che portavano a città alta, a
Castello, al quartiere dei nobili, dove — per volontà dei
superiori che spiegavano « quella gente ci tiene » — bisognava
andare. E ci saliva, anche con i fastidi che un’ernia cominciava a
dargli. Anche con i fastidi di tanta proclamazione delle sue virtù,
di esagerate lodi del popolino, che potevano sollecitare la sua
vanità e che egli respingeva, riconoscendosi miserabile uomo,
bisognoso di un Dio che perdoni e usi misericordia, un frate che non
sapeva né leggere né scrivere, e ben conosceva la debolezza dei
proprio temperamento naturale.
Nei
fatti che suscitavano stupore, mettendo a prova di fuoco la sua
umiltà, Ignazio nascondeva la sua persona, mettendo avanti la
potenza e la gloria di Dio. A chi ricorreva al suo conforto, nei
dolori e nelle malattie, precisava: « Abbiate fiducia in Dio », e
avvenivano le guarigioni. Anche, e non poche, risurrezioni di
fanciulli morti. E moltiplicazione di cibi e bevande. I ciechi
riprendevano a vedere. Alle parole mal biascicate del frate, le
acque di quel bel Golfo di Cagliari si rabbonivano, a tranquillità
dei marinai, e donavano abbondante pesca a chi di essa viveva.
Sapeva
punire la poca fede. Ad un malato, che desiderava la guarigione, fra
Ignazio dette l’invito di alzarsi. « Non posso », commentò il
malato, il quale si senti redarguire dal cappuccino:
«
E se non potete, che cosa ci posso fare io? ».
Ai
malati, quel che fra Ignazio estraeva dalla manica del suo saio, era
più efficace d’ogni medicina. Ed offriva bazzecole da far ridere,
come pezzetti di pane duro, fichi rinsecchiti, fiori appassiti, bucce
di limone, un uovo sodo... Risultavano medicinali portentosi. Anche
per le spose, fossero del popolo o dell’aristocrazia, in
trepidazione per il prossimo parto, il cercatore aveva la sua parola
di fede che rasserenava e le sue strane medicine che assicuravano la
felicità dell’evento.
Mostrò
singolare tenerezza per le partorienti. Dette sicuri incoraggiamenti
per l’accoglienza della vita umana nascente, con parole esitanti,
mai pronunciate, ma strapiene di fede. Un teste:
«
Alle donne incinte, quando desideravano qualche frutta fuor di
stagione, onde evitare il pericolo dell’aborto, cavava questa
dalla... manica del suo abito, così fresca e matura, come fosse al
momento tolta dal suo albero ». Implorava, e otteneva da Dio, latte
per le puerpere che dovevano compiere il loro primo servizio di
mamme.
Se
sul suo passaggio fiorivano i miracoli, prima ancora fioriva la fede.
I processi informano che frate Ignazio « soleva dire ‘prima morire
che perder la fede ‘... Ringraziava Dio d’esser nato da genitori
cattolici ed aver da loro imparato le massime della santa fede...
Ringraziava Dio d’averlo chiamato alla fede nel santo battesimo, ed
alla religione in quest’Ordine di san Francesco... Ripeteva con
frequenza gli atti di fede, di speranza e di carità, e con sommo
fervore ne inculcava la frequenza ai suoi correligiosi...; li faceva
recitare agl’infermi che visitava... Istruiva nel catechismo i
fanciulli, esortando alla opportunità a pregare Iddio per
l’esaltazione della Chiesa e per la dilatazione del cristianesimo;
quando si recava alle case per la questua e visitava infermi, parlava
dei misteri della fede, come della passione e morte di nostro Signore
Gesù Cristo, della sua Incarnazione... Frequentemente esternava
colle parole il vivo desiderio che aveva che tutto il mondo fosse
cattolico e convertito all’adorazione del vero Dio Creatore e
Redentore; e per contrario gli dispiaceva che tanti infedeli, eretici
e scismatici non fossero nel seno della Chiesa, epperò pregava molto
il Signore per la loro conversione... Per le strade intratteneva i
ragazzi istruendoli nella dottrina cristiana, al che li allettava con
dei regalucci, pezzetti di pane, fichi secchi e simili, li esortava
ad imparare bene la dottrina... a far da buoni ed ubbidire i
genitori... ».
Insomma,
questuante e apostolo. Cioè, raccolta di pane, ma evangelizzazione a
piene mani.
Fioretti
ignaziani
Il
quotidiano cammino di Ignazio, appoggiato al bastone e sgranante
la corona del rosario, nello sfibrante sali e scendi per vie e scale
di Cagliari, è un cammino che spesso Dio illumina, facendosi
presente con interventi sempre protesi a lasciare una lezione e a
svelare provvidenza.
Gioacchino
Franchino, un negoziante carico di soldi, si lamentò con il
superiore dei cappuccini di Buoncammino perché quel frate santo
della bisaccia mai entrava in casa sua a chiedere l’elemosina.
Richiamato dal superiore, fra Ignazio vi andò e fu accolto con tanta
festa ed ebbe nella bianca bisaccia di lino « un pochetto di danaro
». Avviandosi da Porta dell’Angelo verso il convento, da più
persone Ignazio fu avvertito che dalla bisaccia « gocciolava sangue
».
In
convento, il cercatore depose innanzi al superiore la bisaccia tutta
rossa di sangue. Fu chiesto che ne fosse. In ginocchio, rispose: «
E’ roba de’ poveri ». E spiegò come la ricchezza di Franchino
era frutto di usura, praticata da anni con « ingiustizie e mezzi
illeciti » e che, per questo motivo, egli aveva sempre sentito
ripugnanza di chiedere la carità a quell’uomo che dissanguava i
poveri.
La
lezione servi. Franchino restituì il maltolto ai poveri.
Per
correggere la frode di un lattaio « che vendeva latte adacquaticcio
», fra Ignazio accettò l’offerta di latte e la fece versare entro
la sacca. Da questa, sistemata sulla spalla, iniziò un gocciolio:
era « l’acqua che vi avea mescolato » il lattaio imbroglione.
Un
giorno, tornando con il compagno di questua al convento, con la sacca
vuota, giunto a poca distanza dal convento, dove stavano forni
abbandonati di calcina, pensando che per i frati non c’era pane,
fra Ignazio « cominciò a raccogliere delle pietre e mettere nelle
bisacce e lo stesso fece fare al suo compagno ». Cammin
facendo, fu costui ad accorgersi di un gran calore alle spalle e
depose per un po’ a terra le bisacce. « Entrati ambedue in
refettorio si trovarono le bisacce piene di caldo e fumante pane ».
Non
c’era pane per i frati, quel giorno. Il cercatore Ignazio era in
chiesa a pregare, mentre il frate dispensiere era tutto nervi. Due
giovani, « pochi istanti prima del pranzo comparvero in convento
e deposero a mano del dispensiere in refettorio due corbelli di pane,
ed incontinente sparirono ».
Al
molo di Cagliari per la questua, visto che uno vendeva olio,
spillandolo da una botte, Ignazio gliene chiese « in limosina per
san Francesco ». Invitato a presentare un recipiente, il frate offri
la bisaccia di semplice tela, pregando di versarvi pure l’olio:
allargò infatti e l’una e l’altra imboccatura della sacca, e
portò in convento tutta quella grazia di Dio senza che « trapelasse
stilla d’olio dalla
bisaccia
». Vista la cosa, il padrone dell’olio mandò al convento l’intera
botte, che fu conservata per molto tempo e veniva indicata « la
botte di fra Ignazio ».
Raggiunto
un ovile per elemosinare formaggio, Ignazio ebbe un rifiuto dal
pastore. Si limitò a commentare: « Pazienza » e se parti, giù per
il pendio. « Appena voltò le spalle, si videro alcune forme di
formaggio quasi fossero animate corrergli dietro ». Il pastore
avaro, capita la lezione, rincorse il frate e gli fece carità di
tutte quelle forme che l’avevano seguito e di altre ancora.
Luigi
Chessa, muratore, lavorava sulla cornice della chiesa dei cappuccini
a por dei fiori, sopra l’altare dinanzi al quale stava pregando
Ignazio. Il Chessa sdrucciolò dalla scala. Il frate gli gridò: «
Fermati ». « E costui rimase sospeso in aria, ed accorso il
venerabile Servo, gli sottopose la scala ». Il muratore fu salvo.
Un
frate, che non credeva alla decantata santità di fra Ignazio,
s’appiattò di notte in chiesa per spiare il cosiddetto « santo »
in orazione. Costui difatti pregava « innanzi all’altare della
Purissima », e dopo qualche tempo si elevò « di terra fino
all’altezza della nicchia della Madonna ». Il religioso incredulo
« si avvicinò quatto quatto, e gli toccò i piedi che erano freddi
come di gelo ». Ignazio restò cosi, elevato da terra, sino « al
segno di mattutino di mezza notte », allorché, disceso « adagio
adagio in terra », prese posto in coro per la preghiera comunitaria.
L’esaltazione
dell’umile
Non
crederemmo a tali « fioretti » e fatti prodigiosi, che sembrano
leggende per incantare i bimbi, se non ci fossero stati molti
testimoni a riferirli nei processi di beatificazione. C’è poi la
testimonianza, scritta e stampata, di uno scrittore, per nulla
sospetto, il tedesco Giuseppe Fuos, pastore evangelico, che seguiva
come cappellano il reggimento di fanteria tedesco e che visse a
Cagliari per tre anni, sino al 1777. Tale pastore protestante vide
fra Ignazio e ne constatò la venerazione del popolo sardo, tanto che
in un suo volume La Sardegna nei 1773-1776 (stampato in tedesco a
Lipsia nei 1780) poté scrivere, con minuziosa e controllata
oggettività di
storico:
« Noi godiamo qui una fortuna, la quale prova che la fede nei
miracolo non è ancora estinta nella Chiesa. Noi vediamo cioè tutti
i giorni mendicare attorno per la città un Santo vivente.., e si ha
di già acquistato con parecchi miracoli la venerazione dei suoi
compatrioti ». E aggiunge l’elencazione dei più strepitosi
miracoli di fra Ignazio, i quali documentano potenza e bontà di Dio
e come Dio esalti gli umili.
Mentre
gli altri io chiamavano « Padre santo », Ignazio si definiva «
vilissimo uomo..., l’asino dei cappuccini..., inetto ad ogni cosa,
vile indegno peccatore... Io sono il più grande peccatore del mondo
».
Ricevendo
villanie, godeva perché qualcuno capiva la verità: « Finalmente...
si è trovato uno in Cagliari che mi conosca e mi chiami quel che io
sono ». A chi gridava di entusiasmo sui suoi miracoli, Ignazio
intimava: « Zitto zitto, ché è cosa del Signore».
Svelavano
la sua umiltà la cella dal « misero letticciuolo di nude tavole, e
questo fornito di una pietra per cuscino », e il saio francescano «
logoro e ruvido essendo di albaggio sardo », « un abito ruvido
quale, previo il permesso del superiore, volle ritenere fino alla
morte, quando si adottò in provincia la riforma del panno meno
ruvido ».
Umile,
sino alla morte. Pochi giorni prima di morire, pur cieco da due anni,
frate Ignazio sorprese nella cella la presenza silenziosa dei pittore
don Francesco Massa, che gli voleva fare il ritratto, e lo dissuase:
« Non sono io uomo da ritrattare: le persone vili non si ritrattano
giammai. La loro memoria deve esser sepolta nell’oblio».
Nella
primavera 1781, Ignazio andò al monastero di S. Chiara per dire «
addio » alla sorella suor Agnese, vivente nella clausura. Postosi a
letto, nell’infermeria del convento di Buoncammino, il primo giorno
di maggio, attorniato dai confratelli spirò alle ore tre pomeridiane
di venerdì il maggio 1781, « dolcemente come un bimbo ». La
campana ricordò la morte di Gesù e annunziò la morte dell’umile
Ignazio.
L’esaltazione
dell’umile la fece subito il popolo, accorso attorno alla salma del
« frate del popolo » sardo. E’ il suo superiore padre Antonio da
Tadassuni che, in una circolare del 28 maggio 1781 inviata a tutti i
conventi della provincia cappuccina di Cagliari, informa: « Chiusi
finalmente gli occhi suoi, ed esposto il dì 12 alla mattina in
chiesa il cadavere, fu d’uopo chiuderlo tra i cancelli d’una
cappella per impedire in qualunque modo gli assalti del popolo
accorsovi; ma non fu possibile, poiché, non ostante i soldati,
aperto il cancello, chi baciavagli la mano, chi con tenerezza i
piedi; e beato ciascun credevasi se la corona almeno in quella felice
spoglia toccava; il giubilo e la tristezza in volto di tutti
appariva, invidiando con tenere lagrime la vita illibata e la placida
morte del trapassato religioso...
«
Non fu tra gli ultimi la pietà del religiosissimo principe sua
eccellenza il sig. conte Valperga di Masino nostro degnissimo viceré,
che accompagnato da molta Ufficialità e cavalieri, entrato nella
cappella, degnossi considerare attentamente il corpo del nostro
fratello defunto...
«
La mattina seguente, innalzatosi in mezzo alla chiesa dall
‘amorevolezza dei benefattori un competente tumolo, l’illustrissimo
capitolo, accompagnato dai signori consiglieri di questa nostra
città, uscito con funebre pompa in processione dalla cattedrale,
ebbe la degnazione di cantare una solenne messa colla più scelta
musica; la che terminata dei soliti responsorii, fu posto il cadavere
in un feretro chiuso dalla curia ecclesiastica con nove sigilli e con
due chiavi..., e collocato il feretro per prudente disposizione dei
superiori secolari in luogo separato, fu dato fine a si lugubre
funzione ».
«
Vero figlio » di san Francesco
Il
superiore di frate Ignazio, nella circolare citata, delinea con
sicurezza il ritratto dell’umile laico, figlio e apostolo della
Sardegna. Precisa: « Questo esemplarissimo religioso, vestendo il
nostro santo abito sin dall’anno ventesimo dell’età sua, sempre
fu veduto con stupore di tutti osservare un uguale tenore di vita
mortificatissima, perché non che l’applauso, l’ammirazione si
trasse di tutti i popoli, che ebbero la bella sorte e di vederlo e di
trattarlo; e sulle ale della fama il merito singolare di questo
nostro fratello estendendosi, non ignora la Sardegna tutta l’eroico
delle sue esimie virtudi.
«
Quindi fu che a lui vivente ricorreano tutti, chi per chieder
consiglio, chi per ottener grazie e favori, e da tutti col nome di
Padre santo, veniva comunemente appellato. A lui la primaria
nobiltade, ed i primi Prelati, e le più illuminate persone
comunicavano ed alle sue orazioni affidavano gli affari più
interessanti. Lui bramavano nelle loro infermità gli ammalati,
nella lor morte i moribondi, e fra questi non il volgo solo, ma i
personaggi più distinti e dell’arcivescovado insigniti; da
lui come da infallibile oracolo nei lor traffici i mercatanti, e
nelle intraprese più malagevoli dipendevano; ed egli il buon
religioso tutti caritatevolmente ascoltava, santamente consigliava
e consolava teneramente ».
Il
prezioso documento, scritto a diciassette giorni dalla morte di frate
Ignazio, ne evidenzia il profilo francescano: « Giudico superfluo
il far noto... l’esattezza sua nella regolar osservanza, il primo
in coro, non solo nella più verde età, ma ancora adesso, che
l’ottantesimo contava degli anni suoi. Né per età si avanzata
dispensavasi dall’intrapreso costume di passare più ore della
notte in chiesa in contemplazioni continue; una pronta cieca
ubbidienza, per cui il solo penetrar esser volontà dei superiori era
bastevole l’eseguire qualunque cosa, caro lo rendea ai medesimi.
«
Vero figlio del gran Patriarca dei poveri, altro non avea in suo uso
che strumenti di penitenza ed un legno informe che del più morbido
guanciale servivagli; un abito logoro dell’antico panno atto a
nascondere la nudità, ma non a difendere il corpo dall’inclemenza
delle stagioni, lo copriva fin ora.
«
Le sue conversazioni, e colle persone del secolo e cogli stessi
correligiosi fratelli, né mai furono oziose né mai indifferenti,
perché sempre mirarono l’eternità, od il conto strettissimo che
render dobbiamo in morte, o le vanità del mondo ingannevole.
Una prodigiosa astinenza, un breve sonno, una mortificazione continua
seppe unir sempre cogli atti comuni, anche nell’uffizio
faticosissimo di cercatore per quaranta anni continui da lui con
somma edificazione esercitato, e per anni sessanta di Religione
conservò sempre e mantenne... ». Un vero panegirico su frate
Ignazio appena sepolto.
Fratello
vivo
I
sardi ebbero sempre vivo il ricordo del « santo » da Laconi, che
era stato sepolto in un luogo distinto dalla tomba comune dei frati,
nella chiesetta del convento di Buoncammino, dinanzi alla cappella
intitolata alla Madonna degli Angeli. L’iscrizione in latino,
incisa su lastra di marmo, ne precisò subito le più caratteristiche
virtù — innocenza, umiltà, penitenza, austerità — nei sessanta
anni di vita cappuccina, e letizia nella morte; ne indicò la fama di
santità, giacché riposava nel sepolcro cum sanctitatis
acclamatione. Il 18 dicembre 1821, fu fatta la ricognizione della
salma.
Trascorsero
tuttavia sessantatré anni prima che si desse inizio alla causa di
beatificazione, 16 luglio 1844. Cause del ritardo furono le vicende
politiche nell’Isola e nel continente, particolarmente la
Rivoluzione francese, la soppressione degli Ordini religiosi, gretti
interessi e gelosia di un superiore dei cappuccini di Cagliari. Il
primo processo ordinario informativo sulla fama di santità in genere
si concluse a Cagliari, il 3 settembre 1845. Nessun processo fu fatto
per raccogliere ed esaminare gli scritti, perché Ignazio non
conosceva l’uso della penna.
Dopo
altri processi, il 4 maggio 1854 fu emesso il decreto di introduzione
della causa. Concluso il processo apostolico il 10 maggio 1860,
dal papa Pio IX fu dichiarata l’eroicità delle virtù del
venerabile Ignazio, con decreto del 26 maggio 1869. Esaminate tre
guarigioni, avvenute nel 1923, 1928, 1933, furono riconosciute
miracolose, con decreto del 14 aprile 1940. A 159 anni dalla morte
del venerato laconese, il papa Pio XII lo dichiarò beato, il 16
giugno 1940, e Santo il 21 ottobre 1951, stabilendone la memoria
annuale l’11 maggio.
Il
papa dell’Assunta presentò « questo eroe di santità, di umile
nascita e vissuto sempre in umili uffici », illuminandone alcune
linee fisionomiche essenziali: « Le lunghe e gravi fatiche gli
sembravano brevi; facile l’obbedienza dovuta ai superiori; dolci e
soavi le sofferenze corporali talvolta acerbissime: e tutto ciò,
che di piacevole o di contrario gli accadeva, era da lui abbracciato
con quella tranquilla volontà, che si affida totalmente e si
appoggia al volere divino.
«
Quando questuava di porta in porta, per città, villaggi e campagne,
la sua mente non era sulla terra, che toccava con i piedi, ma rivolta
al cielo... Vederlo era per tutti di salutare esempio... ».
Le
popolazioni che vivono nella terra dei misteriosi nuraghi, nell’ora
del dolore e per gioiosa preghiera, si danno ancor oggi appuntamento
alla tomba del loro Santo, a Cagliari, e alla catapecchia
natale, a Laconi, dove il 27 agosto 1960 fu inaugurato il museo di
sant’Ignazio. In esso, fra altre umile cose, spicca la corona del
rosario, la compagna di sant’Ignazio nelle camminate per la questua
e nelle ore godute in chiesa o in cella.
Nel
250° della canonizzazione, la Sardegna volle una visita di
sant’Ignazio, nei suoi paesi e città. La sua salma, raccolta entro
urna, percorse la terra tanto amata, per benedire e incoraggiare la
sua gente: un vero viaggio apostolico, dal 20 al 28 agosto 1976. Tale
pellegrinaggio riuscì « un avvenimento religioso eccezionale, una
tappa luminosa nel cammino della civiltà cristiana della Sardegna »
(mons. Paolo Carta, arcivescovo di Sassari), « una bella stagione
evangelica » (mons. Giovanni Pes, vescovo ausiliare di Oristano). Fu
dimostrato come il « miracoloso cappuccino » sia « venerato ancora
adesso, e sempre più, in tutta l’Isola » (Grazia Deledda).
La
scrittrice sarda e premio Nobel Grazia Deledda, contemplando una
caratteristica effige di fra Ignazio, commenta: « Già vecchio, già
forse cieco, col rosario, il bastone, la barba ispida, il viso bruno
camuso: non ha nulla del serafico: è però l’antico pastore sardo,
nella cui bisaccia si nasconde un tesoro di sapienza e di bontà ».
Un altro scrittore e artista sardo, Remo Branca, biografo del Santo
— nel
cui volto sintetizza e scolpisce la tipica popolazione sarda, con
parte della sua storia di povertà e di segregazione — nel 250°
della canonizzazione, il maggio 1976, si soffermò a meditare e a
scrivere su Ignazio: « un santo che, ancora una volta, conferma la
verità evangelica che gli ultimi saranno i primi, ma anche la realtà
che l’imitazione di Cristo solleva nella gloria della Chiesa e
nella preghiera dei cristiani chiunque abbia saputo nascondersi
vivendo e amando il prossimo come se stesso ».
L’analfabeta
Santo di Laconi, che parlava appena il dialetto sardo e che si
presentava con due occhi piccoli, quasi sempre timidi, in uno scarno
volto olivastro, riempi di sé la Cagliari e la Sardegna del ‘700.
Fu
sentito come figura indispensabile a una società che non voglia
darsi per disperata e perduta. Passò per sessanta anni come frate di
confronto e di frontiera, come voce della speranza che non delude,
segno di un futuro che si fa sempre presente, proposta di valori
evangelici elencati nelle beatitudini e vissuti alla francescana, un
figlio di san Francesco con la bisaccia in spalla e con richiami
escatologici di un Regno che è nel mondo ma non è di questo mondo.
Fu
e resta, oggi ancora, un apostolo dalle pochissime parole, per le
strade e nel cuore del popolo, per far capire — con la vita di
ottanta anni la dimensione infinita dell’uomo.
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