Tu,
Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho
detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello
dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti
non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente,
non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e
nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino
dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei
suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi
proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio
quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua
giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha
fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come
dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare
alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i
doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre
presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da
noi.
Rifletti:
i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali
solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti
al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E
se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il
contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la
conoscenza genera la riconoscenza.
Ma
se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in
qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile:
pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla
nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio
non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad
imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne
proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il
merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La
Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto
per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore,
dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso
diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la
spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla
lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’
proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo
perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli
ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma
soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà
vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà;
perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma
soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse
lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe
atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere
completamente ignorata e nascosta.
Eccoti
il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure
diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle
parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non
giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero.
Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione;
aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che
cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno;
questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta
della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso
di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta
male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune
espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non
sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che
le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare
rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un
significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di
male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente
preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente
possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e
dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità
affettuosa.
L’uomo
sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché
lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a
nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di
cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia
contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti
affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti
perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il
coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono
sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere
causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della
loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro
talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono
la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di
qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri.
Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di
umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con
molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o
almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria
opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda
a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del
mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo
domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso.
Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando
d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole
dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è
orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è
obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo
perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più
possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite
ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova
tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più
diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in
Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra
debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra
miseria.
Molto
umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato
opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la
responsabilità della nostra anima.
Pensare
di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il
sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è
una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente
nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando
lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e
dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile
all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà
nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando
lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà
richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte
chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude
soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che
questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e
nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire
solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo,
non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù
sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di
umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non
vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà
mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi
impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria
all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la
finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E
anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per
essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per
lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto
motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a
trarre conclusioni per noi.
Davide,
saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti
all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto
semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la
gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando
sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso
all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale
schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di
disprezzo per il suo Dio.
Per
questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta
devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o
pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non
ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.
San
Francesco di Sales : La Filotea : Parte III Capitolo V
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