Mt. 7, 1-20
1.
– Ma come? Non dovremo, dunque, rimproverare chi pecca? Anche Paolo
ci vieta di farlo, o meglio ce lo vieta Gesù Cristo per mezzo di
Paolo, con queste parole: «Tu poi perché giudichi il tuo
fratello?» {600}. «E chi sei tu che ti fai giudice del servo
di un altro?» {601}. E ancora: «Perciò non giudicate di nulla
prima del tempo, finché non venga il Signore» {602}. Ma
perché, poi, in un’altra circostanza lo stesso Apostolo aggiunge:
«Riprendi, correggi, esorta»? {603} E altrove ripete:
«Quelli che peccano, riprendili alla presenza di tutti» {604}.
E Cristo dice a Pietro: «Se il fratello tuo ha peccato contro di te,
va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. Se poi non ascolta, prendi con
te un’altra persona; se neppure così dà ascolto, dillo alla
Chiesa» {605}. Perché Cristo invita tante persone, non
soltanto a rimproverare, ma anche a punire coloro che peccano? Egli
ordina, infatti, di considerare il peccatore ostinato, che non dà
ascolto a nessuno, come il gentile e il pubblicano {606}. E
perché ha dato anche le chiavi del cielo ai suoi apostoli? Se essi
non possono giudicare, non hanno nessuna autorità su alcuno e,
perciò, invano hanno ricevuto il potere di legare e di sciogliere. E
d’altra parte se ciò prevalesse, la libertà cioè di peccare
senza che nessuno ci rimproveri, tutto precipiterebbe in rovina, sia
nella Chiesa, come nelle città e nelle famiglie. Se il padrone non
giudicasse il suo servo, e la padrona la sua domestica, il padre il
proprio figlio e l’amico il suo amico, la malvagità di certo
aumenterebbe. E non soltanto l’amico deve giudicare l’amico, ma
noi dobbiamo giudicare anche i nemici, poiché non facendolo non
potremo mai sciogliere ed eliminare l’inimicizia esistente fra loro
e noi, e tutto sarebbe sconvolto.
Qual
è dunque il senso preciso di queste parole del Vangelo? Esaminiamole
con cura, in modo che nessuno sia tentato di vedere in questo
comando, che costituisce un rimedio di salvezza e di pace, uno
strumento di sovversione e di turbamento. Soprattutto attraverso le
parole che seguono, Cristo dimostra la forza e l’efficacia di
questo precetto: «Perché – egli chiede – osservi la pagliuzza
che è nell’occhio del tuo fratello e non badi alla trave che è
nell’occhio tuo?». Può darsi che questa spiegazione appaia ancora
oscura a molti spiriti pigri: io cercherò per questo di chiarirla,
prendendo in esame il discorso. Mi sembra dunque che Cristo non vieti
in senso assoluto di giudicare qualsiasi peccato, che non neghi
questo diritto genericamente a tutti, ma a coloro che, pieni di
un’infinità di vizi, condannano insolentemente gli altri per lievi
colpe. E a me pare che qui egli voglia riferirsi anche ai giudei, che
erano severi censori delle più piccole colpe del prossimo, mentre
essi non si accorgevano di essere colpevoli di peccati ben più
gravi. Questa stessa cosa, infatti, Cristo ripete verso la fine del
Vangelo, rimproverando i giudei: «Affastellano carichi gravi e
difficili a portarsi, e li impongono sulle spalle degli altri; ma
essi non vogliono smuoverli con un dito» {607}. E ancora: «Voi
pagate la decima della menta, dell’aneto e del comino, e avete
tralasciato le cose più gravi della legge: la giustizia, la
misericordia, la fedeltà» {608}. Contro questi stessi giudei –
mi sembra – Cristo parla ora con forza, reprimendo in anticipo le
accuse che essi lanceranno contro i suoi discepoli. I farisei,
infatti, li accusarono di peccato per delle cose che non erano
affatto peccati, come il non osservare il sabato, mangiare senza
lavarsi le mani e sedersi alla stessa mensa con i pubblicani; il che
fu stigmatizzato altrove: «Col filtro togliete il moscerino e
ingoiate il cammello» {609}. Ma Cristo stabilisce qui, contro
tali giudizi, una legge comune e valida per tutti.
Anche
Paolo non vietava ai Corinzi di giudicare genericamente, ma proibiva
soltanto di giudicare chi era loro preposto e li guidava, e su
questioni ancora incerte e non chiare. Non vietava loro di correggere
i peccatori. Il divieto che egli formulava non si rivolgeva a tutti
indistintamente, ma solo a quei discepoli che osavano giudicare e
condannare i loro maestri, e a coloro che, colpevoli di mille
colpe, ardivano lanciare accuse atroci contro persone innocenti.
È
proprio questo che Gesù Cristo vuol far capire qui, ma con queste
altre parole incute pure un grande timore e minaccia l’inevitabile
supplizio: Poiché
con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati {610}.
Non è vostro fratello – egli dice – che voi condannate, ma voi
stessi; siete voi che vi preparate un temibile tribunale, davanti al
quale dovrete rendere conto rigoroso del vostro comportamento. Come
Dio ci perdonerà i nostri peccati nella misura in cui avremo
giudicato gli altri. Non dobbiamo, quindi, né ingiuriare, né
insultare coloro che peccano, ma dobbiamo avvertirli. Non bisogna
dirne male e diffamarli, ma consigliarli. Dobbiamo correggerli con
amore e non insorgere contro di loro con arroganza. Se trattate il
vostro prossimo senza rispetto e senza pietà quando dovrete decidere
dei suoi errori e determinare le sue colpe, non sarà lui, ma voi a
essere condannati all’estremo supplizio.
2.
– Vedete come sono lievi questi due comandi di Gesù, e come essi
costruiscono una sorgente di grandi beni per coloro che li praticano
e, per conseguenza, di mali per quanti li trascurano? Chi perdona suo
fratello, libera se medesimo da ogni accusa, prima ancora che suo
fratello, senza che gli costi alcun sacrificio. Chi giudica le colpe
degli altri con moderazione e con indulgenza, accumula in tal modo
per se stesso un grande tesoro di misericordia. Qualcuno potrebbe
dirmi a questo punto: Ma se un uomo cade nella fornicazione, non gli
si dovrà dunque dire che la fornicazione è un male e non si dovrà
correggerlo con energia per il suo peccato? Correggilo, certo, però
non come se tu fossi un nemico che chiede giustizia, ma comportandoti
come un medico che prepara il rimedio per guarire il malato. Cristo
non ti disse di non impedire al prossimo di peccare, ma ti ordinò di
non giudicare, cioè di non diventare un giudice aspro e severo.
Inoltre egli non parla qui, come ho già cercato di chiarire, dei
grandi peccati, dei delitti gravissimi, ma di quelle colpe che paiono
tali e non lo sono.
Ecco
infatti che dice: Perché
osservi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo
fratello? {611} Questa
è una colpa in cui cadono tuttora molti uomini. Se vedono un
religioso che ha un abito in più, subito gli rinfacciano la regola
di povertà che il Signore ha dato; ma non tengono conto che essi
rubano a più non posso e ogni giorno accumulano ingiuste ricchezze.
E se vedono che prende un po’ di cibo, subito assumono il ruolo di
severi accusatori, essi che passano tutta la loro vita negli eccessi
del bere e del mangiare. Non si accorgono che così facendo attirano
sul loro capo, oltre a quanto meritato per i loro delitti, un fuoco
ancora più intenso, e che, giudicando gli altri in tal modo, privano
se stessi di ogni scusa e attenuante. Tu infatti, avendo così
giudicato il tuo prossimo, hai per primo stabilito la norma secondo
la quale Dio deve esaminare con rigore il tuo comportamento. Non
lamentarti, quindi, se un giorno riceverai il trattamento che tu
stesso ti sei procurato.
Ipocrita!
Prima togli la trave dall’occhio tuo {612}.
Cristo vuol manifestare con queste parole quanto è irritato contro
coloro che si comportano in quel modo. Tutte le volte, infatti, che
vuol dimostrare che un peccato è grave, che esso suscita la collera
divina e che quindi Dio lo punirà severamente, comincia sempre con
parole di aspra condanna. E, come si rivolgerà poi, sdegnato, a quel
servitore che esigeva con tanta crudeltà cento denari: «Servitore
malvagio, io ti ho condonato tutto il debito» {613}, così qui
comincia la sua apostrofe, esclamando: «ipocrita!». Tale sentenza è
pronunciata non per chi è misericordioso, ma per chi è disumano.
Quest’uomo sembra all’esterno un amico, ma agisce come un nemico
pieno di malvagità, attribuendo falsi oltraggi e crimini al suo
prossimo, e assumendo con violenza, arbitrariamente, il ruolo di
maestro, mentre non merita neppure il rango di discepolo. Ecco perché
il Signore lo chiama ipocrita. Come puoi, infatti, tu che sei un
censore così rigoroso degli altri, tanto da vederne anche le più
lievi mancanze, essere poi così negligente quando si tratta delle
tue ben più gravi colpe, al punto da trascurare anche quelle gravi?
«Prima togli la trave dall’occhio tuo».
Come
si può costatare, egli non vieta quindi in senso assoluto di
giudicare: ci ordina però di togliere prima la trave dal nostro
occhio, e poi di correggere gli sbagli del nostro fratello. È
evidente, infatti, che ognuno di noi conosce meglio le sue condizioni
che quelle degli altri; è certo, inoltre, che ognuno di noi vede
meglio le cose più grandi che quelle più piccole e ama più se
stesso che il prossimo. Se per sollecitudine tu fai questo, abbi cura
dapprima di te stesso, là dove è più visibile e più grande il
peccato. Se invece tu trascuri te stesso, è evidente che tu giudichi
tuo fratello non tanto perché egli ti stia a cuore, ma perché hai
avversione per lui e vuoi disonorarlo. Se è necessario che nostro
fratello sia giudicato, non spetta a noi farlo, ma a qualche altro
che sia del tutto esente dalle colpe che vogliamo segnalare. Orbene,
dato che Cristo qui istituiva i punti più elevati della virtù
cristiana, perché nessuno potesse obiettargli che era facile
filosofare a parole, e volendo dimostrare il suo pieno diritto a
parlare e che egli era esente da colpe, avendo sempre compiuto tutto
perfettamente, si serve appunto di questo paragone che abbiamo ora
letto. Egli stesso, infatti, più tardi avrebbe giudicato dicendo:
«Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!» {614}. Ma egli poteva
farlo in tutta giustizia, poiché non era colpevole di quelle cose
che rimproverava. Egli non toglieva una pagliuzza, né aveva una
trave nell’occhio; ma essendo puro e esente da tutte quelle colpe,
cercava di correggere e difetti e gli errori di tutti. Nessuno,
infatti, deve condannare gli alti, se egli stesso è colpevole dei
peccati che rimprovera.
Perché
ti meravigli che Gesù abbia istituito questa legge, quando il
ladrone, mentre era appeso alla croce, lo comprese e disse all’altro
ladrone: «Neppure tu temi Dio, dal momento che subiamo la stessa
condanna?» {615}: con queste parole il ladrone espresse lo
stesso pensiero che Gesù cristo espone qui.
Tu
invece, non solo non togli la trave che è nel tuo occhio, ma neppure
riesci a vederla; mentre non solo vedi la pagliuzza nell’occhio del
fratello, ma l’esamini e pretendi di toglierla. Rassomigli a un
uomo affetto da idropisia o da qualche altro grave male incurabile,
che trascura la sua malattia, e condanna invece suo fratello perché
non si preoccupa di curare un suo male leggero. È già una sciagura
non rendersi conto delle proprie colpe: ma è incomparabilmente più
grave giudicare gli altri, mentre noi portiamo, senza avvertire il
minimo dolore, addirittura delle travi nei nostri occhi. E il peccato
è assai più pesante di una trave.
3.
– Il Signore ordina insomma, con questo precetto, che chi è carico
di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri, soprattutto
quando le colpe di costoro sono trascurabili. Non è che vieti
genericamente di giudicare e di correggere, ma ci proibisce di
trascurare le nostre colpe e di balzar su ad accusare con rigore gli
altri. Agire così non può che aumentare la nostra malvagità,
rendendoci doppiamente colpevoli. Chi per abitudine trascura le
proprie colpe, benché siano grandi, e si preoccupa, invece, di
ricercare e di sindacare con asprezza quelle degli altri, anche se
sono piccole e lievi, si danneggia in due modi: prima perché
trascura e minimizza i propri peccati, poi perché attira inimicizia
e odio su tutti con i suoi giudizi insolenti, e ogni giorno diventa
sempre più disumano e crudele.
Dopo
aver tolto di mezzo questi mali con quest’ottima legge, aggiunge un
altro comando: Non
date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai
porci {616}.
Eppure, - qualcuno potrebbe dirmi, - più avanti egli comanda: «Ciò
che io vi dico all’orecchio, predicatelo sopra i tetti» {617}.
Ebbene, il primo di questi comandi non contraddice il secondo, perché
questo non ordina affatto agli apostoli di predicare
indifferentemente a tutti, ma di parlare apertamente a coloro che
devono essere istruiti. Qui, dicendo «cani», allude a quanti vivono
in un’empietà incurabile e che non danno alcuna speranza di
cambiare e divenire migliori. Con la parola «porci», invece, indica
coloro che sono continuamente sprofondati nella vita dissoluta.
Dichiara insomma che tutti costoro sono indegni di ascoltare la
verità. Paolo esprime lo stesso pensiero dicendo: «L’uomo animale
non percepisce le cose dello Spirito; per lui non sono che
stoltezza» {618}. E in molte altre circostanze, l’Apostolo
dimostra che la corruzione della vita rende gli uomini incapaci di
intendere gli insegnamenti più elevati e perfetti. Ecco perché
Cristo comanda di non aprir loro le porte: perché essi diventano
ancora più insolenti dopo aver appreso i misteri divini. Chi ha
spirito sapiente e intelligente, ammira e venera queste verità non
appena gli vengono rivelate: coloro, invece, che sono insensibili e
rozzi le rispettano di più quando le ignorano. A quelli quindi che
per la loro natura non possono intenderle, è meglio non dirle, in
modo che così almeno essi siano indotti al rispetto. Un porco non sa
che cos’è una perla. Siccome non può conoscerla, è molto meglio
che neppure la veda, a evitare che calpesti una cosa di cui ignora la
preziosità. Coloro che sono in questo stato, diventano ancor più
colpevoli e si trovano così più danneggiati, se si tenta di
istruirli. Essi infatti finiscono col profanare le cose sacre, di cui
non intendono la santità, e questa conoscenza che cerchiamo di dar
loro servirà soltanto a renderli più feroci e ad armare contro di
noi la loro insolenza.
Proprio
questo vuol dire Cristo con le parole: Affinché
non le calpestino, e non si rivoltino a dilaniarvi {619}.
Eppure, voi potreste dirmi, - le verità del Vangelo dovevano essere
tanto potenti da restare incorrotte e tali da non dare occasione a
quelli di usarle conto di noi. Ma quest’occasione non viene certo
dalle cose sante, sebbene da coloro che sono come porci: succede la
stessa cosa a una perla calpestata, la quale è così trattata non
perché spregevole ma perché è caduta tra i porci. E Gesù con
efficacia dice: «e non si rivoltino a dilaniarvi». Costoro infatti
simulano di essere umili per apprendere i nostri misteri,e, quando li
hanno appresi, divengono di colpo del tutto diversi. Ci canzonano con
beffe e derisioni, quasi fossimo degli illusi e ingannati. Ecco
perché Paolo dice a Timoteo: «Anche tu guardati da quello, perché
si è fortemente opposto alla nostra predicazione» {620}. , e
ancora: «Anche da costoro tieniti lontano» {621}. E a Tito
l’Apostolo dice: «Evita l’eretico, dopo averlo avvertito una o
due volte» {622}. Non sono dunque le nostre verità che pongono
loro le armi in mano: ma essi stessi, stolti e insensati, si
rivoltano con tanta maggiore insolenza contro di noi. Per questo è
molto più vantaggioso che rimangano nell’ignoranza di quelle
verità: così almeno non le disprezzeranno. Se invece vengono a
conoscerle, ne deriva un duplice male: prima di tutto perché essi
non ne ricaveranno alcun frutto e poi perché diverranno anche
peggiori di prima e causeranno mille guai. Ci
ascoltino ora coloro che parlano inopportunamente e senza veli con
tutti, e che finiscono col far disprezzare le cose più sacre. Quando
noi chiudiamo le nostre porte prima di celebrare i misteri, ed
escludiamo i non iniziati, non perché riconosciamo in ciò che si
compie qualcosa che è degno di disprezzo, ma perché molti sono
ancora troppo impreparati per poter partecipare a questi sacramenti.
Cristo stesso, del resto, per darci un esempio di questo modo di
comportarsi, ha parlato spesso ai giudei sotto forma di parabole,
perché essi pur guardando non vedevano; e Paolo ci ordina di sapere
con esattezza come si deve rispondere a ciascuno {623}.
Chiedete
e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà
aperto {624}.
Cristo aveva ordinato cose tanto grandi e alte, che potevano lasciar
stupiti e senza parole; aveva comandato di essere al di sopra di ogni
passione, aveva innalzato sino al cielo e aveva esortato a farsi
simili, nella misura del possibile, non agli angeli e agli arcangeli,
ma a Dio stesso, Signore dell’universo; egli, inoltre, voleva che
non solo i suoi discepoli praticassero questo, ma che essi
istruissero anche gli altri, li correggessero, e distinguessero i
cattivi dai buoni, i cani da quelli che non lo erano (molte cose,
infatti, sono occulte nell’uomo), affinché non si dicesse poi che
quanto egli esige è troppo duro e insopportabile. Più tardi,
infatti, Pietro avrebbe detto: «E chi dunque potrà
salvarsi?» {625}, e anche gli altri suoi discepoli nello stesso
passo: «Se tale è la condizione dell’uomo rispetto alla donna,
non conviene ammogliarsi» {626}.
4.
– Cristo, per evitare che anche ora si dica questo, avendo già
fatto constatare in precedenza, attraverso molti ragionamenti tra
loro concatenati e adatti a convincere, che i suoi precetti sono
facili ed agevoli da compiere, insiste ancora su questo concetto e
promette, a coronamento di ciò che ha detto appunto sulla facilità
di attuare i suoi comandi, un conforto non ottenuto con sforzi e
fatiche: l’aiuto, cioè, meritato con le assidue preghiere, cui
egli esorta. Non dovete – dice in altre parole – contentarvi dei
vostri sforzi, ma dovete anche implorare l’aiuto divino, che vi
verrà concesso senza alcun dubbio e sarà sempre da presso, vi
assisterà e conforterà nelle vostre battaglie, e vi renderà tutto
facile. Per questo ordina di «chiedere», e promette di esaudirci.
Solo che non comanda semplicemente di chiedere, ma vuole che le
nostre preghiere siano ferventi e perseveranti: ecco il senso della
parola «cercate». Chi cerca una cosa, bandisce tutte le altre dal
suo animo, si occupa soltanto di quanto cerca, e non pensa a nessuno
dei presenti. Ben comprendono quanto dico coloro che hanno perduto il
loro denaro o i loro schiavi e li stanno cercando. Con l’altra
parola «picchiate», Cristo vuol sottolineare la forza e la veemenza
con cui dobbiamo accostarci a Dio e quale dev’essere l’ardore
della nostra anima. Non abbatterti, o uomo, - sembra dire il Signore,
- e non mostrare minor zelo per la virtù di quanto ne dimostri nel
cercare denaro. Spesso cercando la ricchezza non la trovi e, malgrado
questa incertezza, metti in moto ogni mezzo per farne ricerca. Qui,
invece, ti è stata fatta la promessa che otterrai sicuramente quanto
cerchi: eppure non mostri neanche la minima parte dell’ardore che
hai nella ricerca delle ricchezze. E qualora non ottenessi subito
quanto cerchi, non scoraggiarti. Proprio per questo Gesù dice
«picchiate», in modo da farvi capire che, se non viene aperta la
porta al primo colpo, dovete tuttavia rimanere là.
E
se non volete credere a me, credete almeno all’esempio che Cristo
riporta qui: E
chi di voi al figliolo che gli chiede pane darà una pietra? {627} Se
voi chiedete con troppa insistenza agli uomini, finite col sembrare
molesti e importuni; se con Dio, invece, non vi mostrate insistenti,
allora veramente provocate il suo sdegno. Se restate fermi a
chiedere, anche se non vi accorderà subito quanto gli chiedete,
siate comunque certi che l’otterrete. Egli tiene chiusa la sua
porta solo per indurvi a bussare; e per questo non vi esaudisce
immediatamente, perché vuole che voi continuiate a chiedere. Siate
dunque fermi e perseveranti nella preghiera, e sarete senza fallo
esauditi. Proprio perché voi non diciate: Ma se io prego e non
ottengo niente?, Cristo ha pronunziato per voi questa parabola, a mo’
di fortezza contro le obiezioni, dimostrando il suo pensiero con
nuove argomentazioni e stillando nell’animo degli uomini
un’assoluta fiducia nell’efficacia della preghiera continua e
nella bontà divina, attraverso esempi umani. E nello stesso tempo vi
insegna, non soltanto che dovete pregare, ma anche che cosa dovete
chiedere con la preghiera: «E chi di voi al figliolo che gli chiede
un pane porgerà una pietra?». In altri termini, egli dice che se
non sarete esauditi nella vostra preghiera, sarà perché avrete
chiesto «una pietra» invece di chiedere «un pane». Anche se siamo
figli, questo non basta per farci ottenere tutto quanto desideriamo;
anzi, proprio il fatto di essere figli ci impedisce di essere
esauditi, se chiediamo cose indegne della nostra condizione. Non
chiedete i beni del mondo, ma tutti i doni spirituali, e li
otterrete. Ricordatevi con quanta immediatezza Salomone ottenne ciò
che domandò, poiché le sue richieste erano giuste e sagge {628}.
Sono dunque necessarie due condizioni perché la nostra preghiera sia
esaudita: primo, chiedere con ardore; secondo, chiedere ciò che è
conveniente. Anche voi, - dice Gesù, - sebbene siate padri, tuttavia
attendete che i vostri figli vi facciano presente quanto desiderano.
E se vi chiedono qualcosa che può loro nuocere, voi glielo negate;
quando invece le loro richieste sono utili, li accontentate
volentieri. Tenendo sempre presente questo esempio, non allontanatevi
finché non avete ottenuto ciò che desiderate; non ve ne andate
fintanto che non avete trovato; non cessate di sollecitare fintanto
che non vi sarà aperto. Se vi accingete a pregare con questa
disposizione d’animo, dicendo: - Se non ottengo ciò che domando,
non me ne vado, - sarete senza dubbio esauditi, se ciò che chiedete
è degno di colui che pregate, e vantaggioso per voi stessi. Che
cosa, dunque, dovete chiedere nelle vostre preghiere? Dovete
domandare tutte le grazie spirituali; dopo aver perdonato chi vi ha
offeso, dovete allora avvicinarvi a Dio chiedendo di perdonare a voi;
dovete, senza ira e senza liti, alzare al cielo mani pure {629}.
Se preghiamo così, saremo sempre esauditi. Ma, oggigiorno, la nostra
preghiera fa ridere ed è più degna di persone ubriache che di
uomini sobri, padroni della loro mente. Come mai, - qualcuno mi dice,
- anche se chiedo cose spirituali, non le ottengo ugualmente? La
risposta è facile: Non hai bussato con sufficiente violenza, o ti
sei reso indegno di riceverle, o te ne sei andato via subito, senza
insistere. E perché – un altro mi chiede ancora – Cristo non ha
detto ciò che dobbiamo chiedere? Ma sì, egli ha già spiegato tutto
e vi ha chiarito ormai per quali motivi dovete avvicinarvi a Dio e
pregarlo. Smettete dunque di dire: Mi sono accostato, ma non ho
ottenuto niente. Non è colpa di Dio se non siete stati esauditi.
L’amore che egli nutre per voi è tale che supera quello di tutti i
padri, quanto la bontà sta al di sopra della malvagità.
Se
dunque voi, pur essendo cattivi, sapete dare cose buone ai vostri
figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli?{630} Gesù
Cristo non ci chiama «cattivi» per disonorare la nostra natura, né
per mostrare che il genere umano è cattivo di per sé. Vuole
soltanto sottolineare che, a confronto della bontà di Dio, l’affetto
dei padri per i loro figli può essere chiamato cattiveria, tanto
grande è l’amore di Dio per noi.
5.
– Vedete quale ineffabile argomento, quale nuovo motivo di fiducia,
capace di rassicurare anche l’uomo più scoraggiato, riportandolo a
migliori speranze? Gesù qui ci mostra l’infinito amore che Dio ha
per noi, attraverso l’esempio dei padri terreni; prima lo aveva
manifestato parlando dei doni più grandi che ci ha fatti, di lui
come creatore della nostra anima e del nostro corpo. Tuttavia Cristo
non rivela ancora la più grande prova dell’amore di Dio, il colmo
dei suoi doni, né parla della sua venuta, della sua presenza
visibile quaggiù. Come potrà, infatti, colui che per noi ha
abbandonato suo Figlio alla morte, non darci anche tutto il resto?Ma
Cristo non era stato ancora crocifisso e non poteva ancora rivelarci
tale verità. Lo fa però Paolo, dicendo: «Lui che nemmeno risparmiò
suo Figlio, ma lo diede a morte per tutti noi, come non ci accorderà
ogni altra cosa con lui?» {631}. Il Salvatore, invece, parla
ancora ai suoi ascoltatori prendendo spunto dalle realtà umane.
Egli, inoltre, insegna che non si deve unicamente confidare nella
preghiera, trascurando i propri doveri, e che non si deve neppure
confidare soltanto nelle buone azioni e sullo sforzo personale;
dobbiamo invece implorare l’aiuto di Dio e apportare
contemporaneamente il contributo della nostra attività: perciò,
continuamente, egli mantiene unite queste due cose.
Ecco
perché, dopo aver dato tanti avvertimenti, esorta anche alla
preghiera; e dopo aver insegnato a pregare, egli dà ulteriori
istruzioni per la vita, per le opere. Torna ancora una volta a
sottolineare la necessità della preghiera continua, incessante,
dicendo: «chiedete, cercate, picchiate», e conclude con un nuovo
invito alla necessità di essere anche zelanti in opere buone,
dicendo: Dunque,
tutto quanto voi volete che gli uomini facciano a voi, anche voi
fatelo ad essi {632}.
Fa così una specie di riassunto di quanto ha detto sinora, mostrando
che tutta la virtù può essere condensata in pochissime parole,
facili da realizzare e comprensibili da parte di tutti. Non dice
semplicemente «tutto quanto voi volete», ma aggiunge «dunque».
Non senza ragione egli dichiara: «Dunque, tutto quanto voi volete»;
ma, sottolineando questa parola, è come se dicesse: Se volete essere
esauditi, oltre agli altri precetti che vi ho dati, praticate anche
questo che vi do ora, cioè di fare agli altri tutto quanto volete
che gli uomini facciano a voi. Vedete come ha messo in evidenza anche
in questa occasione la necessità di accompagnare la preghiera con un
comportamento perfetto? Non dice, tuttavia, di fare al prossimo
quanto vogliamo che Dio faccia per noi. Se si fosse espresso così,
noi potevamo pensare di esserne incapaci, in quanto lui è Dio, ma
noi siamo uomini. Cristo ci ha invitato a comportarci con i nostri
fratelli, che sono uomini come noi, nel modo in cui vogliamo che essi
si comportino nei nostri confronti.
Può
esserci un precetto più leggero e più giusto di questo? Ed egli ne
fa un grandissimo elogio, prima ancora di parlare delle ricompense
che esso ci varrà. Sta
in questo la legge e i profeti {633}.
Queste parole mostrano chiaramente che la virtù è secondo la nostra
natura, e che da noi stessi sappiamo quanto dobbiamo fare, e non
possiamo quindi giustificarci con la nostra ignoranza.
Entrate
per la porta stretta: perché larga è la porta e spaziosa la via che
conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano. Ma
quanto è stretta la porta e quanto angusta la via che conduce alla
vita, e pochi sono coloro che la trovano! {634}.
Ma più avanti dirà: «Il mio giogo è soave, il mio peso è
leggero» {635}; e questa stessa realtà egli vuol fare
intendere in ciò che ha detto adesso. Ma come, allora, può parlare
qui di «porta stretta» e di «via angusta»? Se osservate più
attentamente le sue parole, vi renderete conto che anche qui Gesù
dimostra che la via, pur essendo angusta, è assai dolce, facile e
lieve. Ma, - mi domanderete, - come si può entrare facilmente in una
porta stretta, e si può agevolmente camminare per una via angusta?
Ma perché si tratta di una «via» e di una «porta», così come
anche le altre, pur essendo larghe e spaziose, sono pur esse soltanto
una porta e una via. Non c’è niente di stabile in esse: tutte le
realtà della vita vi passano, quelle tristi e quelle gioiose. Ma non
è solo questo che rende facile la virtù: è anche il fine che la
rende più facile. Non è soltanto perché le fatiche e i sudori
passano, ma anche a motivo del buon fine cui si giunge, cioè la
vita, che si ha consolazione nella lotta. Così, la breve durata
delle sofferenze, l’eternità del premio, il fatto che i dolori
precedono e conducono alla felicità eterna: ecco, tutte queste cose
procurano una grandissima consolazione. In questo senso anche Paolo
chiama «lievi» le sofferenze, non considerandole in se stesse, ma
in rapporto alla disposizione d’animo di coloro che le subiscono, e
per la speranza dei beni futuri. «Invero il lieve peso della nostra
tribolazione dell’attimo presente prepara a noi oltre ogni misura
un peso eterno di gloria, non mirando noi alle cose visibili, ma alle
cose invisibili» {636}. Se sembrano leggeri e sopportabili i
flutti e le tempeste ai marinai, le stragi e le ferite ai soldati, i
rigori dell’inverno agli agricoltori, i colpi più violenti ai
pugili, a causa della ricompensa che ne sperano (anche se queste
ricompense sono vane e passeggere), tanto più noi dovremo essere
insensibili ai mali di questa vita, quando ci è promesso il cielo
con i suoi beni ineffabili e i premi eterni.
6.
– Ebbene, se dopo tutto questo qualcuno continua a ritenere
faticosa e dura questa via, ciò deriva esclusivamente dalla sua
indolenza e dalla sua mancanza di coraggio.
Osservate
infatti come Cristo rende questa via facile, ordinandoci di non aver
a che fare né coi cani né coi porci, di guardarci dai falsi
profeti, di tenerci sempre pronti al combattimento. È un eccellente
modo di rendere facile questa via, dire che essa è «angusta»,
perché ciò significa invitare coloro che vi si incamminano a
tenersi sempre vigilanti. Quando Paolo dice che «non abbiamo noi da
lottare contro la carne e il sangue» {637}, non vuole
scoraggiare ma, al contrario, vuole sollevare l’animo di coloro che
lottano; per svegliare dal torpore coloro che camminano su questa
via, dice che essa è aspra e faticosa. Non si serve solo di questo
avvertimento per metterli in guardia, ma aggiunge anche che questa
strada è piena di nemici che tentano con ogni mezzo di coglierli di
sorpresa, e, ciò che è più temibile, essi non assaltano
apertamente, ma di nascosto. Proprio questo fanno i falsi profeti.
Non ci si deve tuttavia preoccupare – sembra dire il Signore –
delle difficoltà di cui questa via è irta: dobbiamo soprattutto
considerare la meta cui conduce; né, d’altra parte, dobbiamo
pensare che l’altra è larga, ma piuttosto tenere lo sguardo fisso
al luogo dove essa porta. Tutte queste parole egli dice per
incoraggiarci, come fa altrove quando dichiara: «Il regno dei cieli
è oggetto di violenza, e i violenti se ne impadroniscono» {638}.
Quando l’atleta vede che chi presiede la gara ammira la fatica del
combattimento, si fa più coraggioso. Non lasciamoci dunque
abbattere, quando siamo colpiti da molte sciagure. È vero che la via
è angusta e la porta è stretta, ma non così la città per dove
siamo incamminati. Perciò se qui non dobbiamo attenderci riposo, là,
invece, non abbiamo da temere tristezza, né miseria. Il Signore,
dicendo che sono pochi coloro che trovano questa via, mette in
rilievo ancora una volta la pigrizia di molti. Insegna con queste
parole,
a coloro che l’ascoltano, a non fermarsi a guardare gli
apparenti felici successi dei molti, ma ad ammirare invece gli sforzi
di quei pochi che avanzano sulla via stretta. La maggior parte degli
uomini – aggiunge – non solo non cammina su questa via, ma
neppure la trova, mostrando così un accecamento che confina con la
follia. Ma non dobbiamo lasciarci influenzare né turbare dalla
moltitudine. Mettiamo invece tutto il nostro zelo nell’imitare il
piccolo numero di quelli che marciano sulla via stretta, e,
raccogliendoci e mettendoci insieme da ogni parte, avviamoci
coraggiosamente per questo cammino. Infatti, non solo questa via è
stretta, ma ci sono molti che cercano di fermarci sulla soglia.
Ecco
perché Cristo dice: Guardatevi
dai falsi profeti, i quali vengono a voi in veste d’agnello, ma
dentro sono lupi rapaci {639}.
Dopo averci avvertiti di guardarci dai cani e dai porci, ora ci mette
in guardia contro un altro genere di insidia e di assalto,
ancor più temibile del precedente. Quei nemici che ha nominato prima
sono visibili e tutti sanno riconoscerli; questi invece sono occulti
e se ne stanno nascosti. Perciò ci invita a tenerci lontani dai
primi e smascherare i secondi, raccomandandoci di considerarli
attentamente perché è impossibile riconoscerli al primo contatto.
Ecco, dice perentoriamente «guardatevi»: per renderci più attenti
nel riconoscerli. C’era però da evitare che – sentendo che si
doveva camminare per una via stretta e angusta, una via opposta a
quella su cui si avviano i più, e che ci si doveva guardare non solo
da cani e porci, ma anche da belve più pericolose, come i lupi –
gli ascoltatori si scoraggiassero e si perdessero d’animo per le
innumerevoli difficoltà, proprio nel momento di imboccare questa
strada angusta: e perciò a questo punto Cristo ricorda che cosa è
accaduto al tempo dei loro antenati, nominando i «falsi profeti».
Anche l’antichità ha infatti conosciuto simili prove. Non
turbatevi, dunque, sembra dire il Signore: non accadrà niente di
nuovo, niente di strano. In ogni epoca il diavolo ha fatto tutto
quanto ha potuto per sostituire la menzogna alla verità.
Qui,
con le parole «falsi profeti», non mi pare che abbia voluto
indicare gli eretici. Credo piuttosto che abbia voluto intendere
quelle persone che, pur avendo una vita corrotta, si circondano di
un’apparenza di virtù, e che molti di solito chiamano con
l’appellativo di impostori. Per questo egli aggiunge: Dai
loro frutti voi li riconoscerete {640}.
Spesso gli eretici conducono una vita morigerata, ma costoro non sono
mai onesti. E se voi mi dite che essi riescono a fingere d’esserlo,
vi assicuro che facilmente si scopriranno. La natura della strada che
Cristo comanda di percorrere è dura e faticosa, mentre gli ipocriti
fuggono le fatiche, simulandole soltanto. Ecco perché non è
difficile smascherarli. Così il Signore, dopo aver detto che solo
pochi troveranno la via stretta della virtù, distingue nuovamente
costoro da quelli che non la trovano pur fingendo di trovarla e
seguirla, ordinandoci di non tener conto di coloro che hanno
l’apparenza della virtù, ma solo di quelli che camminano veramente
per quella via. Ma perché – voi mi direte – non ci fa vedere con
chiarezza chi sono queste persone, invece di obbligarci a
riconoscerle da noi stessi? Non lo fa per indurci a vigilare e a
combattere continuamente, a mantenerci in guardia non solo contro i
nemici visibili e dichiarati, ma anche contro quelli che si
nascondono e si tengono al coperto. È di questi ultimi che Paolo
parla, quando dice: «con parlare soave e carezzevole seducono i
cuori dei semplici» {641}. Non turbiamoci se vediamo anche oggi
persone di questo genere. Anche questo, infatti, Cristo ha già
predetto.
7.
– E ammirate la sua mansuetudine. Egli non ci ha invitato a
punirli, ma ci ha detto di stare attenti per non essere da loro
corrotti e per non cadere, incauti e non vigilanti, nei loro
tranelli.
Poi,
perché nessuno dica che è impossibile riconoscere queste persone,
si serve, a mo’ di argomentazione, di un esempio tratto dalla vita
dell’uomo: Si
raccoglie forse uva dai spini, o fichi da triboli? Dunque, ogni
albero buono produce frutti buoni, mentre un albero cattivo produce
frutti cattivi. Non può un albero buono produrre frutti cattivi, né
un albero cattivo produrre frutti buoni {642}.
È come se dicesse: Questi falsi profeti non hanno niente di mite né
di tenero; hanno soltanto la pelle d’agnello: ecco perché è
facile riconoscerli. E per non lasciarvi il minimo dubbio su questo
caso espone, a confronto, quei fatti che non possono accadere
diversamente, essendo sottoposti alla necessità delle leggi
naturali. Lo stesso concetto esprime Paolo, dicendo: «La sapienza
della carne è morte: non si assoggetta alla legge di Dio, anzi
neppure lo può fare» {643}. L’ultima frase di Cristo non è
una superflua ripetizione di parole. Infatti qualcuno avrebbe potuto
dire: È vero che un albero cattivo porta cattivi frutti, ma potrebbe
portarne anche di buoni; perciò, potendo essere duplice il suo
carico, sarebbe difficile riconoscere la natura dell’albero. Gesù
previene questa obiezione, precisando che un albero cattivo può
portare solo frutti cattivi e mai frutti buoni. La stessa cosa si può
dire anche del contrario. Ma come, - voi mi direte, - non si è mai
visto un uomo buono divenire cattivo e viceversa? Certo, la vita è
piena di simili esempi. Cristo, qui, non afferma che un peccatore non
può convertirsi, o che un giusto non può cadere nel peccato, ma
dice soltanto che, finché un uomo resta nel peccato, non può dare
buoni frutti. Senza dubbio un peccatore può cambiare e divenire
virtuoso: ma è altrettanto certo che, finché resta nella colpa, non
potrà produrre buoni frutti. Come si spiega allora – voi ribattete
– che Davide
ha prodotto un cattivo frutto, sebbene fosse buono? Vi rispondo che
l’ha prodotto non mentre era buono, ma quando cambiò e divenne
cattivo. Se fosse rimasto sempre buono qual era prima, non avrebbe
certo portato quel frutto. Ma, poiché non stette incrollabile nella
virtù, osò commettere quei peccati.
Cristo
pronunzia queste parole anche per frenare la temerità degli
impostori e per chiudere la bocca ai diffamatori. Siccome molti
confondono i buoni con i cattivi, Gesù con tale affermazione toglie
loro ogni giustificazione. Non potrete dire un giorno che vi siete
sbagliati, che vi siete ingannati, perché io vi ho dato un mezzo
sicuro per riconoscere gli uomini dalle opere, comandandovi cioè di
osservare tutte le loro azioni per non sbagliare nel giudizio.
E
dato che ordina non di punire costoro ma soltanto di star vigilanti,
per consolare quanti fossero stati da loro offesi e per intimorire e
convertire quegli ipocriti, mostra quale terribile vendetta questi
debbono attendersi da lui: Ogni
albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel
fuoco {644}.
Torna poi a moderare l’asprezza di queste parole, aggiungendo: Dai
loro frutti, dunque, li riconoscerete {645},
per dimostrare che non intende esclusivamente far minacce, ma vuol
muovere il loro animo con i suoi avvertimenti e i suoi consigli. Mi
sembra che qui egli si riferisca particolarmente ai giudei che
producevano questi cattivi frutti. Ecco perché ricorda le parole di
Giovanni Battista, rappresentando loro il supplizio con le medesime
immagini. Anche il Battista, infatti, aveva parlato ad essi
della scure e dell’albero che sarà tagliato e gettato nel fuoco
inestinguibile. Potrebbe sembrare che la pena di cui il Signore
minaccia consista soltanto nell’unico male di essere bruciati
eternamente. Ma chi riflette con maggiore attenzione, si accorge che
la pena comprende un doppio supplizio. Colui che viene arso dal fuoco
eterno è totalmente privato del regno di Dio, e questa privazione è
una pena ben più grande di quelle fiamme inestinguibili. So bene che
la maggior parte dei fedeli teme solo l’inferno ed è insensibile
alla perdita del paradiso: io, invece, sono convinto che la perdita
della gloria eterna è un male ben più orribile di tutti i supplizi
dell’inferno. Ammetto, e non c’è da meravigliarsi, che questo
concetto non si può dimostrare a parole: non conosciamo, infatti, la
felicità di gioire con Dio, e quindi non possiamo ben comprendere
l’infelicità e la miseria che deriva da quella perdita. Paolo, che
aveva visto e sperimentato questi ineffabili beni, sapeva bene che la
più tremenda di tutte le sciagure è decadere dalla grazia, dalla
gloria di Cristo {646}. Quanto a noi, conosceremo questo, quando
lo sperimenteremo.
8.
– Ma io ti prego, o Figlio unigenito di Dio: non permettere che noi
subiamo questa pena e che facciamo la funesta esperienza di tale
insopportabile supplizio.
È
impossibile esprimere con chiarezza quale male e quale danno sia
perdere i beni eterni. Tenterò comunque e mi sforzerò, per quanto
posso, di darvene un’idea con qualche paragone. Immaginatevi un
giovane meraviglioso che riesce a ottenere con il suo valore e la sua
virtù il dominio di tutta la terra, che sia tanto giusto e la cui
virtù abbia tanto fascino da attirarsi l’affetto di tutti e da
farsi amare tanto quanto un figlio è amato dal padre. Pensate che
cosa non farebbe il padre di un tal giovane pur di non essere privato
della sua compagnia?
Quale sofferenza piccola o grande non sarebbe disposto ad accettare
volentieri pur di avere la gioia di vederlo e di godere della sua
presenza? Riferiamo questa pallidissima idea alla gloria celeste.
Nessun desiderio, nessuna attrazione d’amore, neppure quella che
può avere un padre per un figlio immensamente amabile e virtuoso,
può essere paragonato al desiderio di godere dei beni eterni,
all’aspirazione di sciogliersi dal corpo per essere con
Cristo {647}.
Terribile
cosa è l’inferno e la sua pena. Tuttavia diecimila inferni messi
insieme non sarebbero niente in confronto all’enorme sciagura di
perdere il gaudio e la felicità di quella gloria, di divenire odiosi
a Cristo, di sentirsi dire da lui: «Non vi conosco» {648}, e
di essere accusati di averlo visto soffrire la fame e di non avergli
dato da mangiare {649}. Preferiremmo essere trafitti da mille
folgori, piuttosto che vedere Cristo distogliere da noi il suo volto
o vedere il suo occhio, così sereno e tranquillo, gettarci sguardi
che non potremo sostenere. Se quando io ero suo nemico e lo odiavo e
lo fuggivo, egli mi ha cercato e inseguito, amandomi al punto di non
risparmiare se stesso e di abbandonarsi alla morte, con quale occhio
potrò alla fine guardarlo, io che, dopo tutto quell’amore, e quei
doni, non mi sono neppure degnato di dare un pezzo di pane a
lui che era affamato?
Ma
considerate ancora una volta la sua dolcezza: egli, infatti, non
rammenta le grazie che vi ha fatte, e neppure l’ingratitudine con
cui l’avete ripagato. Non dice: Tu hai osato disprezzare me che dal
nulla ti ho tratto all’essere, che ti ho dato l’anima con un
soffio del mio spirito, che ti ho fatto padrone di tutto quanto c’è
nel mondo, che ho creato per te la terra, il cielo, il mare, l’aria,
e tutto quanto esiste: tu hai osato disprezzarmi sino al punto di
preferirmi il diavolo, e neppure dopo tale ingiuria io mi sono
allontanato, anzi ho escogitato ancora nuove infinite grazie: per te
ho scelto di diventare schiavo, per te sono stato schiaffeggiato,
flagellato, ho sopportato sputi in faccia e sono stato ucciso; sono
morto, soffrendo la più vergognosa delle morti; anche in cielo ho
supplicato per te; ti ho donato lo Spirito, ti ho reso degno di
entrare nel mio regno, ti ho promesso un destino glorioso, ho voluto
essere tuo capo, e sono sposo, veste, casa, e radice, e cibo, e
bevanda, e pastore, e re e fratello; ti ho scelto quale erede e
coerede con me, conducendoti dalle tenebre a partecipare e a godere
della luce. Pur potendo rimproverare tutto ciò e tante altre cose
ancora, egli non dice nulla di tutto questo, ma nomina solo quel
peccato.
Ed
anche con le ultime parole rivolte ai reprobi, mostra il suo amore e
conferma il desiderio che ha di te. Non dice, infatti: andate nel
fuoco che è stato preparato per voi, ma dice: «nel fuoco eterno che
è stato preparato per il diavolo» {650}. Prima di pronunziare
queste parole, mostra i peccati di cui quelli si sono resi colpevoli,
e neppure sopporta di ricordarli tutti, ma solo pochi. E, prima di
loro, chiama i giusti {651} per dimostrare anche qui
l’equità del suo giudizio e della sua condanna.
Quale
supplizio può essere paragonabile a queste parole! Se un uomo vede
morir di fame chi lo ha beneficato, non lo trascura certamente, né
lo disprezza; ma se avesse trascurato di soccorrerlo, arrossirebbe di
vergogna se questo benefattore gli rimproverasse la sua
ingratitudine. Preferirebbe, anzi, scomparire sotto terra, piuttosto
che ascoltare dinanzi a due o tre dei suoi amici un simile
rimprovero. Che diverremmo dunque noi, quando egli ci rivolgerà
questo rimprovero al cospetto di tutto il mondo? La sua bontà è
tanto grande che vorrebbe anche allora evitare di ricordarci queste
cose, se non fosse indispensabile dimostrare a tutti che il giudizio
è equo. Egli ricorda i nostri peccati non con l’intenzione
d’insultarci, ma per testimoniare la propria giustizia e per
dimostrare inoltre che la sua sentenza: «Andate via da me», è
stata pronunciata con piena ragione, il che era già evidente dal
numero infinito delle sue grazie ineffabili. Se volesse insultarci,
ricorderebbe tutti i benefici di cui noi siamo stati oggetto, mentre
egli manifesta soltanto ciò che egli ha sofferto.
9.
– Dobbiamo dunque temere, o carissimi, di udire un giorno queste
parole. La vita non è un gioco. O meglio, mentre questa vita
presente è un gioco, quella futura non lo è certamente. Ma forse
non è soltanto un gioco, è anche peggio di questo, perché non
finisce nel riso ma in lacrime e in un gravissimo danno per coloro
che non avranno voluto regolare la loro condotta, diligentemente,
sulle leggi di Dio. Noi, infatti, prendiamo la vita come uno scherzo.
Ditemi, quando costruiamo questi stupendi palazzi, in che cosa siamo
diversi dai fanciulli che giocano costruendo case? Che differenza c’è
tra loro che, per giocare, preparano colazioni e merende e noi che
mangiamo senza moderazione? Non c’è nessuna differenza, se si
toglie il fatto che i loro divertimenti sono innocenti, mentre i
nostri giochi, colpevoli, saranno puniti con estremo rigore. E non
dobbiamo stupirci se non vediamo ancora la vanità delle cose di cui
ci occupiamo. Sta di fatto che non siamo ancora diventati uomini.
Quando lo saremo, riconosceremo la puerilità di tutto quanto noi ora
facciamo. Ora che siamo adulti, noi ridiamo dei fanciulli; ma quando
eravamo bambini, i giochi infantili erano i nostri affari importanti.
Quando ammucchiavamo insieme cocci e fango, non eravamo meno
soddisfatti e fieri di quanto lo sono coloro che innalzano immensi
edifici ed enormi complessi. Ma come quelle piccole costruzioni
cadevano e sparivano ben presto e, anche se stavano in piedi, non ci
servivano a niente, lo stesso si può dire dei superbi edifici che
costruiamo da grandi. Sono indegni di chi è cittadino del cielo, che
dovrebbe vergognarsi di vivere soddisfatto in simili case avendo una
patria celeste. E come noi distruggiamo con i piedi questi castelli
di fango costruiti dai bambini, così anche colui che è saggio
abbatte con la sua mente tutti questi superbi palazzi innalzati dagli
uomini. E come noi ridiamo, vedendo i fanciulli piangere sulla rovina
dei loro piccoli castelli, così anche questi saggi, al vederci
addolorati per la rovina dei nostri palazzi, non solo ridono ma
versano anche lacrime, poiché essi soffrono alla vista della nostra
miseria e del grande male che facciamo a noi stessi giocando con
simili futilità. Cerchiamo, dunque, di diventare uomini: Fino a
quando ci trascineremo per terra, riponendo la nostra orgogliosa e
vana gioia nei sassi e nei legni? Fino a quando, insomma, giocheremo?
E volesse il cielo che soltanto giocassimo; ma ora noi rischiamo di
perdere anche la salvezza eterna, sacrificandola a queste vanità. E
come i fanciulli sono puniti molto severamente, quando trascurano i
loro studi per occuparsi di questi giochi, così anche noi saremo
condannati all’estremo supplizio avendo consumato tutta l’energia
e l’attività della nostra vita in vani giochi e non avendo nulla
da offrire quando Dio ci chiamerà a render conto, attraverso le
nostre opere, della scienza divina a noi insegnata e del nostro
apprendimento spirituale. Nessuno allora potrà liberarci, né padre,
né fratello, né chiunque altro. Tutte le nostre trascorse
occupazioni svaniranno; ma le pene che esse hanno attirato sul nostro
capo resteranno per l’eternità. Dio ci tratterà, insomma, come
sono trattati questi fanciulli, quando i loro padri, irritati per la
loro pigrizia, tolgono di mezzo i loro giocattoli infantili e li
lasciano piangere, senza commuoversi alle loro lacrime.
Per
farvi vedere che quanto sto dicendo corrisponde a verità, vediamo un
po’ ciò che – mi pare – gli uomini desiderano più
ardentemente: le ricchezze; cioè, immaginiamo che delle ricchezze
siano qui in mezzo: opponiamo ad esse una virtù qualsiasi, a vostra
scelta, e vedrete allora quanto poco quelle valgono. E non vi sto
parlando ancora dell’avarizia, ma di ricchezze acquistate con mezzi
giusti e legittimi. Immaginiamo due uomini, uno dei quali non pensa
che ad aumentare i suoi beni materiali, attraversa mari, coltiva
terre e traffica in molti altri modi. Naturalmente dubito che, così
facendo, possa sempre guadagnare onestamente; ma voglio crederlo e
suppongo che tutti i suoi guadagni siano leciti. Costui, dunque,
acquista terre, schiavi e mille altre cose senza commettere mai
alcuna ingiustizia. L’altro uomo che è ugualmente ricco e possiede
tutti questi beni, vende le sue terre, le sue case, il suo vasellame
d’oro e d’argento e ne dona il ricavato a chi ha bisogno;
soccorre i poveri; assiste i malati e aiuta gli indigenti, sottrae
alla prigione i debitori, libera coloro che sono condannati ai lavori
forzati nelle miniere, strappa alla morte quelli che stanno per
impiccarsi e dal supplizio i prigionieri, ridotti a questo punto
dalla loro estrema povertà. Vi domando: quale di questi due uomini
voi vorreste essere? Non vi parlo del loro futuro, ma vi invito a
scegliere tenendo conto della loro diversa condizione in questa vita
terrena. A quale di questi due vorreste assomigliare? A colui che
accumula ricchezze o a colui che impiega le sue risorse per
soccorrere gli sventurati? A colui che acquista campi, o a colui che
fa di se stesso il porto e il rifugio per ogni uomo? A colui che vive
circondato da molto oro, o a colui che è coronato da infinite lodi e
benedizioni? Non è forse vero che il secondo di questi due uomini
sembra un angelo disceso dal cielo per salvare gli uomini, mentre
l’altro non sembra un uomo, ma un bambino, che raccoglie e
ammucchia ogni cosa senza ragione e senza scopo? E se è una cosa
estremamente ridicola e insensata impiegare tutta la vita per
arricchirsi onestamente, non sarà forse il più misero e infelice di
tutti gli uomini colui che, oltre tutto, si arricchisce
ingiustamente? E se aggiungete, infine, che il frutto di questa vana
fatica consisterà nell’aver guadagnato l’inferno e nell’aver
perduto il regno dei cieli, che giustamente non lo compiangerà di
continuo, sia durante la sua vita che dopo la sua morte?
10.
– Osserviamo, ora, se volete, un’altra specie di virtù.
Immaginiamo un uomo che dispone di potere sovrano, che comanda a
tutti ed è circondato dal fasto di una grande dignità: un araldo lo
precede in gran pompa, egli tiene in mano lo scettro, insegna del
potere, i littori l’accompagnano, e una corte numerosa lo segue.
Non vi pare, questo, essere grandi e felici? Ebbene, poniamo accanto
a costui un altro uomo, paziente, mite, umile, generoso. Supponiamo
che questo uomo sia ingiuriato e percosso e che egli sopporti con
pazienza e serenità questi affronti, che, anzi, benedica coloro che
lo maltrattano. Ditemi chi dei due vi sembra più degno di
ammirazione, il superbo, colui che è gonfio e infiammato d’orgoglio
o colui che è calmo e sereno? Non è forse vero che quest’ultimo
assomiglia agli spiriti celesti che non sono turbati da nessuna
passione, mentre l’altro sembra un mantice gonfiato, o un idropico
oltremodo tumefatto? Non è forse vero che uno è simile a un medico
spirituale, mentre l’altro assomigli a un bambino che si rende
ridicolo, gonfiando per gioco le sue guance? Di che cosa dunque sei
fiero, o uomo? Ti vanti perché sei portato in alto su un carro
tirato da muli? Ma cos’è questo? Con i muli si trainano anche i
carri carichi di tronchi d’albero e di pietre. Vai superbo perché
sei magnificamente vestito? Ma guarda l’uomo adornato di virtù, in
luogo di ricche vesti, e ti vedrai simile a fieno marcito; mentre
l’uomo virtuoso rassomiglierà a un albero carico di meravigliosi
frutti, che dà grande letizia a chi lo guarda. Tu porti attorno, con
i tuoi abiti, un’esca per i vermi e le tigne, che, se ti
aggrediscono, ti denuderanno in un istante d’ogni tuo ornamento. I
più superbi abiti sono filati e tessuti di vermi; l’oro e
l’argento vengono dalla terra e dalla polvere, e non possono che
ritornare alla terra e a niente di più. Chi invece è adornato di
virtù, ha un abito che né la tigna né la morte stessa possono
corrompere: e molto giustamente. Le virtù dell’anima non hanno
origine dalla terra, ma sono frutto dello Spirito: per questo non
temono i vermi. Abiti siffatti si tessono in cielo, dove non esiste
alcuna specie di corruzione.
Ed
ora ditemi: che cosa è preferibile? Esser ricchi o esser poveri?
Essere potenti o non avere onori? Vivere fra le delizie di una ricca
mensa, o soffrire la fame? È evidente che desiderate vivere tra gli
onori, nell’abbondanza e nella ricchezza. Ebbene, se realmente
volete godere di questi beni, e non accontentarvi della loro
apparenza, lasciate la terra e tutto quanto vi è quaggiù e
trasferitevi in cielo. Tutte le cose, qui, non sono che ombra, mentre
i beni celesti sono stabili, sicuri, immutabili. Scegliamo, dunque,
questi beni, con la massima cura, se vogliamo essere liberati dal
tumulto delle preoccupazioni terrene, e se desideriamo, navigando
verso il tranquillo porto del cielo, giungervi carichi di molte
ricchezze e dell’ineffabile tesoro accumulato con le vostre
elemosine.
Voglia
Dio che noi tutti vi arriviamo per mezzo della grazia e della
misericordia di nostro Signore Gesù Cristo, a cui la gloria e la
potenza per i secoli dei secoli. Amen.
{599} Mt.
7, 1.
{650} Mt.
25, 41.
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