Gli altri non si lasciano cambiare
Si
rassicuri il lettore, non siamo stati presi da un improvviso delirio
di onnipotenza, che ci ha rapiti alla realtà per portarci in un
mondo nel quale si possa immaginare di trasformare le persone a
misura dei nostri gusti e dei nostri bisogni.
Ben
sappiamo come, a dispetto dei nostri tentativi, gli altri non siano
disposti a lasciarsi cambiare come a noi piacerebbe o servirebbe.
Cambiare
significa rivedere il proprio modo di essere, cambiare è complicato,
cambiare è faticoso e nessuno mette mano ad un'impresa così
impegnativa solo perché siamo noi a chiederlo.
Potrà
farlo, partendo forse anche da un nostro invito o sollecitazione, ma
solo quando sarà lui stesso ad essersi preso la responsabilità di
decidere in tal senso.
Ed allora
per parte nostra altro non possiamo fare se non attendere il
verificarsi di questo cambiamento, scontrandoci al tempo stesso con
la constatazione che, a dispetto di tutte le nostre aspettative, le
cose continuano ad andare per il solito verso.
Eppure non
ci rassegniamo: come sarebbe tutto più facile se mia moglie ( mio
marito ) la smettesse con certi suoi atteggiamenti; se mio figlio non
si comportasse più in quel certo modo, se i miei genitori
diventassero meno noiosi, se quella certa professoressa decidesse di
essere meno esigente, se il capo ufficio non fosse così opprimente
...
E le
tentiamo tutte per riuscire a trasformare gli altri secondo le nostre
necessità.
Ci
lamentiamo, ci arrabbiamo, chiediamo, supplichiamo, ricattiamo ...
Usiamo
tutto il repertorio delle nostre strategie.
Il
risultato è comunque il più delle volte deludente.
Un'impresa impossibile?
Dovremmo
dunque concludere che non esiste un modo per costringere gli altri a
cambiare?
Inaspettatamente
la risposta è che esiste un modo in grado di suscitare cambiamenti
negli altri.
Esso
consiste nel cambiare noi stessi e quindi presentarci in un modo
diverso all'incontro con i collegamenti vitali in cui siamo
coinvolti.
Cambiare
noi stessi: esattamente il contrario di quanto ci viene spontaneo di
fare.
Insistere non serve
Proviamo a
pensare al nostro abituale modo di muoverci in queste circostanze.
Può
capitare di notare in qualcuno un aspetto dei suoi comportamenti che
non giudichiamo adatto al buon funzionamento di un collegamento
vitale e di decidere quindi di farglielo modificare.
A questo
scopo stabiliamo una strategia ( ad esempio, il rimprovero o la
minaccia ) e proviamo ad utilizzarla nei suoi riguardi una prima
volta: senza successo.
Ma non
molliamo e riproponiamo nuovamente quella stessa strategia in una
seconda occasione, caso mai non avesse capito.
Anche in
questa circostanza non ne ricaviamo l'effetto voluto.
Successivamente
ancora, tutte le volte in cui se ne presenta l'opportunità,
ritorniamo alla carica sempre con lo stesso sistema e sempre avendone
il medesimo riscontro.
E così
via, in un rincorrersi di provocazioni basate su una sempre identica
strategia da parte nostra, cui continua a non corrispondere il
cambiamento atteso, quasi ci aspettassimo che quella strategia,
dimostratasi inefficace in ormai decine di occasioni, diventi un
giorno, per un qualche strano caso del destino, improvvisamente
vincente.
Non
arrendersi all'evidenza: una bella ingenuità, non c'è che dire!
Una legge generale
Il fatto è
che, nel campo dei comportamenti umani, vale una legge della fisica
che si direbbe avere una portata universale.
Tra le
prime nozioni che abbiamo appreso nello studio della fisica sono
senz'altro comprese quelle riguardanti le condizioni sperimentali.
Ci fu
allora insegnato che, data una certa situazione sperimentale e
volendo correggerne gli effetti, è necessario apportare
modificazioni alle variabili in gioco di cui è possibile il
controllo da parte dello sperimentatore; diversamente, fintanto che
le variabili intervenienti rimangono costanti, rimane invariato anche
l'effetto.
La validità
di questa legge può essere applicata, esattamente come enunciata,
anche ai comportamenti umani.
Cambiare se stessi per cambiare gli altri
In una
situazione che ci vede coinvolti con qualcuno, volendo cambiare
qualcosa che non ci soddisfa nei suoi comportamenti ( questo
corrisponde all'effetto che si vuole modificare nell'esperimento ),
dobbiamo apportare delle modifiche ai nostri comportamenti ( essi
corrispondono alle variabili su cui bisogna intervenire
nell'esperimento: sono infatti le uniche variabili che sono sotto il
nostro controllo ).
Fintanto
che i nostri comportamenti sono ripetitivamente identici, non c'è
motivo di sperare che cambi l'effetto rappresentato dai comportamenti
altrui che intendiamo modificare.
D'altra
parte, non c'è nessuna massaia così ingenua da riconfezionare
seguendo esattamente lo stesso procedimento una torta riuscita
malamente in una precedente occasione: cambierà le dosi, o la
temperatura del forno, o il tempo di cottura, nella consapevolezza
che se si regolasse come la volta precedente otterrebbe il medesimo
insoddisfacente risultato!
Ci si può
chiedere che cosa conferisca efficacia a questa strategia.
Partiamo
dal considerare la natura stessa dei collegamenti vitali.
Essi
appartengono alla categoria dei sistemi, fatto questo che comporta,
tra l'altro, di collegare e di rendere interdipendenti le singole
parti che vi appartengono, con la conseguenza che, all'eventualità
di un cambiamento anche minimo nell'una, corrisponde necessariamente
un cambiamento nell'altra.
Immaginiamo
un gioco di più specchi, orientati ognuno in modo da riflettersi
negli altri: se, collocandolo vicino ad una fonte di calore durante
la stagione invernale, ne facciamo appannare uno, questa
modificazione non interessa solo lo specchio in questione, ma si
riflette e comporta necessariamente una modificazione di tutti gli
altri.
Ad un
intervento operato su un unico elemento del sistema è corrisposta
automaticamente un'alterazione in tutti gli altri.
Dato che i
nostri collegamenti vitali sono appunto dei sistemi, avviene per essi
la stessa cosa: se all'interno di un collegamento vitale operiamo un
intervento su uno dei suoi singoli elementi - ad esempio decidiamo di
modificare un nostro comportamento - produciamo necessariamente
cambiamenti negli altri elementi del sistema stesso, cioè nei
comportamenti dei nostri interlocutori.
Non è
detto che azzecchiamo al primo colpo il cambiamento da apportare a
noi stessi: talvolta l'effetto desiderato è frutto di un
perseverante susseguirsi di tentativi per prove ed errori, coronato
solo alla fine dall'esito desiderato.
Ma è
comunque cambiando noi stessi che riusciamo a « costringere » gli
altri elementi del sistema in cui siamo inseriti a cambiare.
Un caso matrimoniale
Il signor
Sergio, più che cinquantenne e con i figli ormai adulti e sposati, è
entrato in crisi con il suo matrimonio.
Si è
infatti accorto che gli riesce sempre più difficile sopportare gli
atteggiamenti della moglie.
La
percepisce distaccata, sempre presa dalle sue faccende, sbrigativa,
poco disponibile al dialogo.
Il momento
della giornata in cui avverte con maggiore intensità questo disagio
è al suo rientro dal lavoro quando l'accoglienza è fredda, quasi
distratta.
Possibile
che un uomo, dopo aver faticato tutto il giorno, venga accolto a casa
con tanta indifferenza?
E poi, ha
senso stare insieme tanti anni per non avere più niente da dirsi e
finire per desiderare di separarsi?
Il signor
Sergio non ci sta, vuole cercare una soluzione alla questione e si
reca in un consultorio familiare.
Gli viene
chiesto di esporre la situazione, gli vengono domandate delle
precisazioni, gli viene offerta la possibilità di riflettere
servendosi di un aiuto esterno.
Insiste a
dire che ha già chiesto mille volte alla moglie di essere più
affabile, di mostrare qualche premura per lui, ma senza risultato.
A nulla
sono valse le discussioni, i silenzi risentiti, le minacce di
andarsene.
Nel corso
di una seduta, il signor Sergio viene invitato a soffermare la sua
attenzione sul momento difficile del rientro serale dopo il lavoro.
In
particolare gli si chiede di immaginare questo momento - da quando
scende dall'autobus in poi - come se fosse ripreso da una telecamera
e di descriverlo.
Inizia a
dire che, sceso dal bus alla fermata sulla strada statale con l'aria
serena e rilassata, si incammina per la stradina che porta alla sua
villetta.
A metà del
cammino viene salutato dal vicino che sta lavorando nell'orto e si
intrattiene amichevolmente qualche minuto con lui con fare cordiale.
Prosegue
quindi con passo tranquillo verso casa, la testa alta, lo sguardo
disteso.
Gli viene
incontro il cane che gli saltella intorno festoso: il signor Sergio
si ferma, si china ad accarezzarlo.
Si avvicina
alla porta di casa: a questo punto la sua andatura diventa più
pesante, l'espressione del volto si rabbuia, le sue spalle si
incurvano, il suo sguardo è rivolto a terra.
Ancora
qualche passo ed infila con fare irruente la chiave nella toppa,
spalanca con impeto la porta mentre i lineamenti del suo volto
diventano ancora più duri e tesi.
Richiude di
scatto la porta, appoggia malamente chiavi e giornale e si avvia con
passi nervosi verso la cucina per salutare la moglie intenta a
stirare.
La sua
faccia è sempre scura, il suo sguardo severo.
Entra in
cucina con fare quasi rabbioso, i muscoli sono tesi, i lineamenti
irrigiditi e dalla sua bocca esce un suono roco con il quale saluta
la moglie.
Nel
commento si rileva come, se quest'ultima avrà pure le sue
responsabilità a riguardo dei modi con cui abitualmente accoglie il
marito, d'altra parte è chiaro che con un'entrata in scena come
quella descrittaci dal signor Sergio non vien certo voglia di
gettargli le braccia al collo.
Egli è un
po' stupito dall'immagine di se stesso evocata ai suoi stessi occhi
dal racconto e decide di stare più attento per cercare di rendere
meno antipatici e scostanti i suoi modi.
Con un po'
di esercizio e non senza fatica il signor Sergio è riuscito piano
piano a correggersi e da allora gli atteggiamenti della moglie hanno
cominciato a cambiare, il clima in casa a farsi più disteso.
Un caso aziendale
Garassini è
titolare di un'azienda di medie dimensioni.
Tutto fila
liscio, gli affari vanno bene.
Ma a
Garassini amministrare, far andare avanti la macchina organizzativa,
costa una fatica incredibile.
Si è
scelto con cura i collaboratori più vicini, li conosce bene ed è
sicuro della loro competenza e professionalità.
Malgrado
ciò, tutto finisce per cadere sempre sulle sue spalle.
Continua a
delegare le responsabilità, ma quando è il momento di decidere lo
vengono sempre a cercare.
Pensare che
gli piacerebbe cosi tanto riservare a se stesso esclusivamente il
ruolo di chi guida le cose dall'alto, prendendo le decisioni
strategiche e lasciando ad altri la preoccupazione dell'ordinaria
amministrazione.
Ha ormai
tentato di tutto: ha organizzato riunioni di definizione degli
obiettivi per cercare di coinvolgere maggiormente il suo management
nelle decisioni, ha costituito gruppi di studio sperando di ottenere
quanto meno un'assunzione di responsabilità decisionale a livello
collettivo.
Niente da
fare: al momento topico continuano a venire da lui.
Ora,
osserviamo Garassini al lavoro.
È un uomo
che si è fatto da sé, grazie all'impegno ed all'autodisciplina con
cui ha sempre lavorato.
Il suo
motto è: « non si può chiedere rigore agli altri se non si è
rigorosi con se stessi ».
Coerente
con questo motto, in azienda ha sempre preteso e dato molto, per cui
è per lui ovvio fare altrettanto con i suoi collaboratori.
Questo
rigore riguarda non tanto l'intensità dell'impegno, quanto piuttosto
la sua qualità.
Egli
infatti è un po' perfezionista e mal sopporta gli errori; i suoi non
se ne parli, ma anche quelli dei collaboratori.
Quando
qualcuno sbaglia, le sue reazioni, anche se a fatica, sono molto
controllate.
Per
scaricare il disappunto spesso ricorre all'ironia.
Secondo
lui, usare questo accorgimento gli permette di intervenire con tutti
ed in tutte le situazioni, ad esempio anche di sottolineare l'errore
di una persona di fronte ad altri, come può avvenire in una
riunione.
Chi mai
potrà essere così sciocco da offendersi per una battuta di spirito?
Purtroppo
le occasioni per far uso di questo accorgimento non mancano, con suo
grande disappunto.
Questo modo
di gestire l'errore, bonario ed elegante all'apparenza, nasconde una
trappola.
Chi tra i
suoi collaboratori si è sorbito questo genere di battute si è
sentito, a differenza di quanto immaginato da Garassini, fortemente
imbarazzato.
Trovarsi di
fronte a questo principale fatto tutto d'un pezzo che ti spedisce
addosso frecciate, eleganti e spiritose fin che si vuole nella forma
ma graffianti nella sostanza, è molto penalizzante, perché con la
sua ironia non ti da modo di spiegare, di replicare, di giustificare.
Stai lì,
ti senti paralizzato e finisci per fare di fronte a tutti la figura
del fesso.
E poi
bisogna sopportare le immancabili battute dei colleghi, i sorrisini
nei corridoi.
Sotto la
minaccia di questo genere di figuracce si è sviluppata in tutti la
paura di sbagliare e, conseguentemente, la paura di decidere.
Il nostro
Garassini a questo punto è servito.
Se vuole
far cambiare i suoi collaboratori perché vuole diminuire il suo
carico di responsabilità, è necessario che intervenga sui propri
comportamenti, iniziando col trovare un diverso modo di regolarsi in
presenza di errori.
Quando il
loro principale sarà cambiato, i collaboratori avranno meno paura
delle conseguenze nell'eventualità di un errore; sarà a questo
punto loro possibile cambiare il proprio atteggiamento di fronte alle
responsabilità decisionali, essendo diventato per loro più
accettabile assumersene il rischio.
Garassini
potrà insistere, minacciare, indire altre riunioni, formare chissà
quanti gruppi di studio.
Tutto ciò
rappresenterà quasi certamente un'inutile perdita di tempo.
E sulle
variabili dei collegamenti vitali di sua esclusiva competenza, cioè
sui suoi comportamenti relazionali, che è necessario intervenire
affinché ne scaturisca in loro un cambiamento a livello sistemico.
Ma non si
illuda che basti cambiare un giorno reagendo diversamente dal solito
per ottenere quasi magicamente le risposte attese.
Probabilmente
dopo la prima, anzi, le prime volte, non succederà proprio nulla.
É questo
il momento difficile in cui è necessario continuare ad avere fiducia
nella linea adottata e non mollare.
Successivamente,
poco alla volta, cominceranno timidamente ad apparire le prime
novità: saranno segnali deboli, ma rappresenteranno una conferma
della bontà della strada intrapresa.
Solo dopo
qualche tempo, quando agli occhi dei collaboratori sarà chiaro che
nel caso di un errore la reazione del principale non sarà più
quella pesantemente penalizzante del passato, si presenteranno in
modo chiaro e stabile i cambiamenti tanto attesi.
Ed il
signor Garassini potrà finalmente cominciare a fare il titolare come
a lui piace, cioè senza sentire tutte le incombenze decisionali
sulle sue spalle.
Ci vuole costanza
Ci siamo
serviti dell'esempio di un collegamento vitale riguardante la coppia
e di uno relativo all'ambiente di lavoro: sono solo due fra i tanti
possibili.
Numerose
sono infatti le occasioni in cui roviniamo la nostra esistenza e
quella degli altri per rimproverare, assillare, ricattare, minacciare
i nostri partners perché non sono come dovrebbero essere, suscitando
in tal modo verso di noi le stesse reazioni di rimprovero, assillo,
ricatto o minaccia per costringerci a nostra volta a cambiare ed a
non più ricorrere a questi stessi sistemi.
É una
specie di circolo vizioso che rischia di imprigionarci se non
riusciamo a romperlo cambiando completamente la logica che lo
alimenta: non più costringere gli altri a cambiare in modo che
successivamente io ne tragga beneficio, ma comincio a cambiare io e
so che, così facendo, cambieranno anche gli altri.
L'avvertenza
è quella di non avere fretta, di continuare a credere nell'efficacia
di questo approccio soprattutto nei momenti iniziali nei quali lo
sforzo richiesto per il nostro cambiamento è maggiore e non trova
nessuna apparente corrispondenza nel comportamento del nostro
interlocutore: è questo il momento di stringere i denti, di
continuare a crederci a dispetto dell'evidenza.
Chi saprà
in questa fase mantenersi coerente, vedrà premiata la sua costanza.
Sembra
infatti che solo a questo punto i nostri interlocutori arrivino a
pensare: « Ma allora ci crede veramente, non è un fuoco di paglia.
Quindi, non
ha più senso rispondere con un comportamento vecchio ad una
sollecitazione nuova ».
Ecco
innescato il meccanismo del cambiamento.
Stare bene con gli altri
Cambiare se
stessi per cambiare gli altri.
A prima
vista sembra una pia esortazione per persone indirizzate da un
anelito interiore verso una generosa disponibilità nei riguardi del
prossimo.
Oppure può
avere tutta l'aria di una sentenza morale, o di uno di quei pensieri
che troviamo stampati sulla carta che avvolge i cioccolatini.
Si tratta
invece di un modo molto pratico ed efficace, anche se impegnativo,
per muoverci all'interno dei nostri collegamenti vitali e migliorarne
la qualità.
Quando il
saggio dice « se non ti piace come va il mondo, comincia con
cambiare te stesso », esprime la stessa logica: l'umanità è vista
implicitamente come un sistema all'interno dei quale ogni singolo
cambiamento diventa una leva su cui fa perno il cambiamento del
tutto.
D'altra
parte, pensare di cambiare se stessi, riuscire a cambiare se stessi
anche poco, anche solo per qualche piccolo aspetto, è il segno di
quanto di autenticamente vivo vogliamo mettere nelle nostre cose di
tutti i giorni.
Infatti
vivere comporta inevitabilmente cambiare: le pietre e le rocce che
non sono mai state vive non cambiano, il legno secco che è stato
vivo ma ora è morto non cambia più.
Il
cambiamento è invece una prerogativa che riguarda esclusivamente gli
organismi viventi e fa sì che tutto quanto è vivo e cambi.
l nostro
stesso corpo, quando è sano, è in continuo cambiamento: si pensi ai
ritmi alimentari in base ai quali subito dopo un pasto possediamo un
eccesso di sostanze nutritizie che va poi man mano consumandosi sino
ad un fugace istante di equilibrio tra bisogni energetici e risorse
disponibili, passato il quale inizia una sempre più accentuata
carenza di elementi nutritivi sino al pasto successivo, appena dopo
il quale il ciclo si ripete da principio.
La vita e
la salute sono indissolubilmente legate alla capacità di cambiare.
I dinosauri
sembra siano scomparsi, a differenza di altre specie, proprio perché
non sono stati capaci di adattarsi ( cioè di cambiare ) in occasione
di grandi mutazioni climatiche della terra.
Non
cambiare ha voluto dire morire.
Tutto
questo vale anche per i nostri atteggiamenti e per i nostri
comportamenti.
Sta perciò
a ciascuno di noi decidere se giocare le regole vincenti della vita
chiedendo a noi stessi, forse anche con sforzo, di presentarci nei
collegamenti vitali non nel nostro solito modo, quello immutabile di
tante altre volte precedenti, ma nel modo che è più adatto a far
star bene ed a « stare bene con gli altri », quelli che amiamo,
quelli con cui lavoriamo, quelli che incontriamo ...
Per riassumere
I
collegamenti vitali in cui siamo coinvolti potrebbero essere in molti
casi più soddisfacenti se i nostri interlocutori cambiassero i loro
modi di essere ed i loro modi di fare.
Quando
proviamo a sollecitarli con nostri inviti o con nostre richieste, non
sempre otteniamo il risultato voluto.
Possiamo
originare un loro cambiamento modificando i nostri stessi
comportamenti.
Per il
fatto che sia noi come un certo nostro interlocutore facciamo parte
del medesimo sistema rappresentato da un collegamento vitale, al
nostro nuovo modo di presentarci corrisponde necessariamente un suo
diverso modo di reagire.
Si verifica
cioè un suo cambiamento.
Dal
sito http://www.unionecatechisti.it/
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