Primo
quadretto. Un prete a SanPietroburgo.
Silvano
del monte Athos è una delle grandi figure del monachesimo ortodosso
russo. È il santo della misericordia di Dio. Pochi sanno che egli fu
indirizzato al monte Athos da un parrocco padre Ivan, che esercitava
il suo ministero in una parrocchia della periferia di San
Pietroburgo. L’incontro che Silvano ebbe con quel santo sacerdote,
quando era ragazzo, lo segnò per tutta la vita. “Dopo san Serafino
di Sarov -scrive Silvano del monte Athos – ci è stato dato San
Giovanni (Ivan) di Cronstad. La suapreghiera, come una colonna, si
innalzava al cielo...L’abbiamo visto pregare con i nostri occhi. Mi
ricordo che quando lasciava la chiesa, al termine della liturgia, il
popolo lo circondava invocando la sua benedizione. Anche in mezzo ad
una folla così numerosa, la sua anima rimaneva sempre fissa in Dio e
non perdeva la pace. Padre Ivan amava gli uomini e non cessava di
pregare per loro”.
Gli
innumerevoli pellegrini, ricchi o poveri, giovani o ignoranti, che
accorrono verso di lui, cercano il prete, l’uomo
dell’intercessione, oltre che il profeta che scruta i cuori,
guarisce i corpi e provoca conversioni sconvolgenti.
Si
tratta di qualcosa di assolutamente inaudito nella storia della
Chiesa ortodossa russa: infatti il clero secolare,
spesso meschino e poco istruito, a volte
dedito al vino e brutale, con famiglia numerosa (il prete
nell’ortodossia può essere sposato), a volte addirittura
utilizzato dallo stato
per fini polizieschi,
è quasi sempre considerato appartenente ad una categoria spirituale
inferiore. Il popolo russo preferisce rivolgersi ai monaci, molti dei
quali vivono
nella solitudine di immense foreste o isole lontane, sognando la
santità,
e la santità assoluta. Ivan di Cronstad invece non è né un monaco
né un “folle in Cristo”: fa parte del clero secolare, sposato,
legato ad un povero gregge che non abbandonerà mai, nell’angolo
più povero della città di Cronstad, alla periferia di San
Pietroburgo. Nacque il 19 ottobre 1829, era figlio dell’archivista
della parrocchia. Faceva abbastanza fatica a scuola,
ma era affascinato dal mondo di Dio, soprattutto dalla liturgia così
ricca di segni, di incensi, di croci, di icone. Della vita scolastica
del collegio ricorda: “Dovevo fare tutto da solo, i miei compagni
di classe non mi aiutavano per niente. Erano tutti più dotati di
me”. Uscito dalla scuola, si orienta decisamente verso il
sacerdozio:
vuole essere prete. Ivan cerca soprattutto la preghiera, l’unione
con Dio. Essa è il “senso della vita, l’unico”. Nel frattempo
il padre muore, e Ivan diviene l’unico sostegno della famiglia:
deve aiutare la madre e le sorelle. Deve fare l’impiegato e tutto
quello che guadagna lo spedisce a casa. Ha anche un periodo
spiritualmente difficile, con tentazioni di fede. Ne esce con il gran
mezzo della preghiera. “La preghiera ardente, accompagnata dalle
lacrime, ha la forza non solo di purificare i peccati, ma anche di
guarire i malati, di rinnovare l’essenza dell’uomo e di
rigenerarlo. Lo dico per esperienza”.
Poco dopo sposa Elisabetta Nesvistsky, una donna eccezionale, figlia
dell’arciprete di Cronstad.
Elisabetta va vivere al suo fianco come
una sorella; i due infatti decidono di vivere in perfetta castità,
pur essendo sposati; Elisabetta diventa così un aiuto prezioso per
la sua vita sacerdotale. Ella chiamerà sempre suo marito “fratello
Ivan”. Nel novembre del 1855 Ivan riceve il sacerdozio
e scrive: “Il prete in mezzo al suo gregge deve essere, nell’ordine
spirituale, quello che il sole rappresenta nell’ordine naturale:
una luce per ciascuno, un calore vivificante, l’anima di tutti”.
Dopo poche settimane viene inviato a Cronstad, dove rimarrà tutta la
vita, in quella zona
di periferia dove regnano tutte le miserie fisiche e morali di un
porto militare. “Ho voluto occuparmi dei poveri – dirà un giorno
– di coloro che si trovano nella miseria, in quella stessa miseria
che anche io avevo conosciuto. Osservando più da vicino questi
poveri che mi circondano, e soprattutto dopo alcuni minuti di
conversazione, mi accorgo che sono così degni di essere amati, così
miti, umili, semplici di cuore, così pieni di benevolenza, che dico
a me stesso: si, sono
poveri di beni terreni, ma così ricchi di tesori del cielo!” Mi
fanno vergognare di me stesso”. Padre Ivan si dedica interamente a
coloro che chiama “i miei figli”. Dicono che non sia quasi mai a
casa sua per i pasti: dove mangia allora? Dappertutto e da nessuna
parte, sempre e mai. Qui accetta un frutto o un pezzo di pane, là
beve una tazza di te, ma non si siede mai. Naturalmente qualche volta
lo assale la fatica e sperimenta una specie
di nausea di cui si accusa nel diario e davanti
alle sante icone della sua povera camera. Spesso lo si può vedere
prosternato in singhiozzi davanti all’angolo delle case dove ci
sono le icone, prega e invita alla preghiera, alla fiducia e alla
gioia in Dio. In giorni stabiliti distribuisce ai bisognosi che
accorrono a lui enormi somme di denaro, ricevute da benefattori
sempre più numerosi.
Nel
1874 fa costruire con queste offerte una scuola
professionale per i poveri. Ci sono anche miracoli nella sua vita,
come quello dei piccoli Paolo e Olga, da lui raccontato nel suo
diario: “Mi sono recato a pregare da loro nove volte
con una fiducia piena di audacia, sicuro che la mia fiducia non
sarebbe stata confusa. Sono andato a casa loro la decima volta e i
bambini erano guariti”.
Il
suo vero compito era quello della Parola di Dio, di cui tutti avevano
bisogno. Ad un suo confratello prete, che esitava a leggere e
predicare, scrive: “Lo Spirito Santo è forse assente? Rimane
ozioso? Non illumina più il cuore dell’uomo? Non hai forse provato
anche tu questa azione dello Spirito Santo nel tuo cuore? All’inizio
non capivi subito alcune parole, poi all’improvviso lo Spirito
Santo ti ha aperto la mente e ti ha messo in grado di capire... ed
ecco che la luce ha invaso di colpo il tuo cuore... Credimi, la
stessa cosa avviene negli altri: semina il grano, Dio lo farà
crescere”.
Nella
sue prediche, padre Ivan si dimostra assolutamente estraneo alla
mentalità razionalista del suo tempo. È l'uomo della Bibbia, della
santa fede, della tradizione dei Padri, ma è anche l’uomo
spirituale che scruta le profondità di Dio e quelle del cuore
dell’uomo.
A
padre Ivan piace parlare del mistero di Dio, di Gesù Salvatore,
degli uomini, della sua croce e dell’Eucaristia, della Madre di Dio
“piena di Misericordia”, della grandezza della preghiera. Esorta
continuamente alla conversione, alla lotta contro Satana, alla
libertà, all’amore. Migliaia di pellegrini fanno ressa attorno a
lui per ascoltarlo. La sua parola va diritta al cuore e sconvolge.
“Il popolo lo amava – scrive Silvano del Monte Athos – e tutti
restavano nel timore di Dio... Ho visto folle che lo seguivano, come
se egli avesse posseduto un incendio, per ricevere la sua
benedizione, e dopo averla ricevuta erano beati, poiché lo Spirito
Santo è soave e dona all’anima la pace”.
Ascolta
per ore e ore, a casa sua o in chiesa, la Confessione dei peccati,
con pazienza e forza. Alla fine congeda tutti con le parole:
“Figlioli, non disperate, pentitevi e confessate sempre i vostri
peccati con cuore contrito e umile. Gloria a te, Signore, per la tua
misericordia! Gloria alla tua indulgenza, alla tua instancabile
pazienza!”, Queste guarigioni, questi pentimenti dei cuori, padre
Ivan li implora con un’incessante preghiera accompagnata da pianti
e lacrime. Possiede un tale senso della miseria dell’uomo senza Dio
e della misericordia instancabile del Salvatore, amico degli uomini!
La sua preghiera è certamente quella di un profeta: intensa,
traboccante di emozione, una preghiera che compie miracoli. Hanno
detto di lui che vedeva l’invisibile, che lottava con Dio. Nel bel
mezzo di una conversazione, durante un pranzo, il suo sguardo si
concentrava su una presenza; allora non sentiva più le domande che
gli venivano fatte... era letteralmente “partito” e si
intratteneva con Dio, gli presentava le disgrazie umane, convinto che
il Salvatore non potesse rifiutargli nulla. Come Mosè, restava sulla
breccia per difendere i suoi figli e il popolo della Russia, di cui
presentiva la tragedia imminente. Quando poi celebrava la divina
Liturgia, diventava interamente preghiera. Testimoni oculari ci
descrivono padre Ivan completamente trasfigurato. “Ho visto padre
Ivan a Cronstad. Stava celebrando la Liturgia e fui colpito dalla
potenza della sua preghiera e fino ad oggi — sono passati
quarant’anni e più — non ho mai visto nessuno celebrare come
lui”, ci confida Silvano del Monte Athos, che aggiunge: “Il suo
volto era come quello di un angelo; allora ci prendeva il desiderio
di non perderlo di vista nemmeno per un attimo”. Assolutamente
incapace di rispettare la melodia prevista per gli inni liturgici,
invocava Dio, gridava, piangeva, rivolto alla croce; “Signore, abbi
pietà del tuo popolo!”. Un giorno, con viva emozione, predicò:
“Gesù è il mio respiro, ancora più che l’aria, in ogni istante
della mia vita. È la mia luce, prima di ogni altra luce, il mio cibo
e la mia bevanda, il mio vestito, il mio profumo, la mia dolcezza,
mio padre e mia madre, una base più solida della terra, il mio
sostegno che nessuno può far tremare”. Non tutti naturalmente lo
capiscono e lo amano. Anzi, gli ambienti rivoluzionari, che preparano
il colpo di Stato, giurano di eliminarlo, trovando insopportabile
l’enorme influenza di questo prete, amico dello zar, privo di
docilità e indiscutibilmente troppo conservatore, nonostante in suo
spiccato senso sociale. “Resisti al male con il bene”, scrive nei
suoi diari, ma il suo cuore sanguina per il suo popolo, per la sua
amata terra russa che ben presto conoscerà la rivoluzione atea.
Sua
moglie Elisabetta è tornata a Dio, padre Ivan l'ha amata come
sorella e lei è rimasta nell’ombra con rispetto e amore. A questo
punto entra la malattia nella sua vita, una malattia che non gli darà
tregua salvo, particolare curioso, mentre celebra la Liturgia.
Tuttavia si lascia vincere dalla gioia. “Il Signore è tutto per
me, è la mia forza, la mia pace, la mia vita”.
Il
9 dicembre 1908 padre Ivan celebraper l’ultima volta nella
cattedrale. Un testimone racconterà: “E impossibile dimenticare il
volto di padre Ivan e la sua voce appena percettibile; tutti ci
rendevamo conto che se ne stava andando per sempre. Del resto anche
lui piangeva come un bambino”. Dopo la liturgia esorta i fedeli:
“Figlioli, pregate e amate Dio”. Il 18 dicembre chiede al
superiore del monastero vicino alla parrocchia: “Che giorno è
oggi? Ho ancora due giorni di vita, abbiamo ancora tempo di fare
tutto”. Il 20 dicembre, alle tre del mattino, celebra per l’ultima
volta davanti ad una folla enorme. Tutti piangono. Alle 7 del mattino
padre Ivan muore. Il 1 novembre 1964 la Chiesa Sinodale russa
dell’esilio dichiara santo, con il decreto di canonizzazione, padre
Ivan (stesso nome: Giovanni), dichiarandolo “il santo Curato d’Ars”
della Russia ortodossa.
Tokio,
luglio 1985. Questo episodio ha una fonte certa, perché io ero uno
dei tre testimoni. Mi trovavo a Tokio con don Divo Barsotti: io
all’inizio del cammino religioso, novizio e seminarista, e don
Barsotti, settantenne, fondatore della Comunità (17) in cui
ero da poco entrato. Avevo accompagnato don Divo a Tokio perché
delle suore italiane missionarie in Giappone lo avevano chiamato per
un ciclo di predicazioni, e il padre mi aveva chiesto di aiutarlo nel
viaggio come accompagnatore. Un giorno don Divo mi disse che doveva
consegnare una lettera ad un sacerdote statunitense, residente da
anni nella capitale giapponese, di cui aveva l’indirizzo. Aveva
fatto telefonare il giorno prima dalle suore e si era fissato
l’appuntamento per le 10 del mattino presso la sua parrocchia.
Prendemmo la metropolitana, con tutte le indicazioni precise
(perdersi a Tokio sarebbe stato per noi un bel problema!), e
arrivammo in perfetto orario all’appuntamento con il sacerdote
americano. Entrammo nella grande chiesa, moderna, e ci immergemmo nel
fresco – faceva infatti molto caldo quel giorno – e nel silenzio.
Don Barsotti aveva la sua bella busta in mano. Entrando, vedemmo una
persona inginocchiata nella prima panca, di fronte al tabernacolo del
Santissimo Sacramento. Era il parroco, che evidentemente era sceso in
chiesa, e ci attendeva. Stava pregando, fermo, concentrato.
Totalmente solo. Io feci per avvicinarmi a lui, ma don Divo mi
trattenne, e disse sottovoce: “No, non disturbiamolo, fermiamoci
anche noi qui, e preghiamo”. Ci mettemmo così in fondo alla chiesa
e ci raccogliemmo un po’ in preghiera. La chiesa era talmente
grande che il parroco in prima fila non si accorse della nostra
entrata. Non si voltò, Dopo una ventina di minuti, io feci cenno a
don Barsotti che forse era ora di andare dal sacerdote, che era già
passato del tempo: probabilmente il parroco, che ci stava aspettando,
cominciava ad inquietarsi non vedendo nessuno. Certo, però, la cosa
strana era che il sacerdote non faceva minimo cenno di guardare
indietro, di volgersi per vedere se fossimo arrivati. Trovai che
anche don Divo si era molto raccolto, e non volli insistere. Dopo
circa tre quarti d’ora, in cui non successe assolutamente nulla,
cominciai a brontolare dentro di me: “Ma guarda questo parroco:
siamo già qui da tre quarti d’ora, sa che dobbiamo venire, e sta
fermo là come una statua... e anche don Barsotti, anziché andare ad
avvertirlo che siamo arrivati, se ne sta qua in fondo, in attesa che
l’altro faccia la prima mossa...”. Mi volsi verso don Divo e gli
feci presente che il tempo passava. Quanto ancora avremmo dovuto
stare lì? Ma il padre non sembrava affatto preoccupato. Mi chiamò
vicino e mi disse solo: “Preghiamo un poco qui anche noi...”.
Come un poco? Eravamo lì da quasi un’ora, e quel parroco là
davanti che sembrava una statua! Mi domandai persino se quello in
prima fila non fosse davvero una statua o un manichino... Eppure no,
qualche movimento glielo avevo visto fare. Ma non si voltava mai,
quel benedetto americano! Pensai allora di fare “inavvertitamente”
qualche rumore, che so, far cadere il breviario, farmi prendere da
una convulsione di tosse. Ma non osai, perché vedevo che in fondo
don Divo Barsotti sı era come immerso anche lui in una preghiera
silenziosa, e pareva stare bene così... Nel silenzio della chiesa e
del cuore, mi posi allora qualche domanda: “Sono forse io che non
so stare qui un poco buono, calmo, a parlare con il Signore? In
fondo, che mi importa di quella busta da consegnare? Posso
approfittare anche io di questo tempo di silenzio per pregare un
poco”. Ma, a dire la verità, non ci riuscivo. Dopo un’ora e
mezza, mi sembrò di essere precipitato in una situazione kafkiana, o
in un film dell’assurdo. Stavamo tutti fermi, in attesa che
quel
sacerdote desse segni di vita, o che don Divo si alzasse e andasse
verso di lui per consegnargli la busta.
E
non entrava mai nessuno! Verso mezzogiorno, quando io ormai avevo
speso tutte le mie energie interiori, e aspettavo ormai soltanto
l’ambulanza o la morte, don Divo si alzò e cominciò a camminare
silenziosamente, lentamente, in avanti, verso il sacerdote. Come
svegliandomi da un incubo, io lo seguii. A pochi metri dall’agognata
mèta, finalmente il sacerdote si voltò verso di noi. Quello che
vidi, allora, non lo potrò mai dimenticare. Ci fece un sorriso mite
e accogliente, non sorpreso, come se tutto fosse normale, ma da
quegli occhi uscì una luce che ci avvolse tutti e ci lasciò come
sospesi. Non si trattò ovviamente di una luce sensibile e visibile
esternamente: fu un sorriso luminoso che ci entrò dentro, che ci
invase. Io sentii un grande benessere, senza sapere da dove mi
venisse. E una grande pace. Poi il parroco si alzò, ci salutò,
scambiò più di qualche parola con don Divo Barsotti, ricevette la
lettera, sempre con quel suo sorriso dolce e mite.
Quando
ci congedò, si rimise lì nella panca, questa volta seduto, e non
più in ginocchio.
Nell’uscire,
don Divo mi disse: “Non bisogna mai disturbare un prete quando tu
entri in chiesa e lo vedi pregare. Forse sta pregando per i suoi
parrocchiani, forse li sta raccomandando al Signore uno a uno”.- Io
non avevo più parole da spendere. Mi sentivo svuotato, ma al tempo
felice.- Ebbi l’impressione netta di essere stato un paio d’ore
con due santi.
Un
prete in Russia, un prete a Tokio.
Il
carisma del santo Curato d’Ars, ringraziando il Signore, non è
finito. Lode a lui ora e sempre.
(17)
La “Comunità dei figli di Dio”, fondata da don Divo
Barsotti (19 14-2006). Don Barsotti, fondatore di questa comunità
monastica aperta ai laici, è considerato uno dei più grandi mistici
italiani del '900.
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