1.
Come le gesta degli antichi campioni della fede furono scritte quali
documenti della grazia divina a edificazione dell’uomo, affinché
leggendole e rappresentandoci alla mente i fatti, ne onoriamo Dio e
ne caviamo conforto per noi stessi: così è opportuno tramandare
anche i nuovi esempi, che non meno degli antichi possono giovare
all’uno e all’altro scopo. Infatti anche questi un giorno saranno
antichi e torneranno necessari ai posteri, sebbene nel loro tempo
presente godano minore autorità mancando di quel prestigio che
l’antichità attribuisce ai primi. Del resto, se la vedano essi,
coloro che l’una e medesima potenza dell’unico Spirito Santo
giudicano secondo l’antichità del tempo: ma, se la manifestazione
della grazia ha avuto la sua pienezza per disposizione divina in
quest’ultima epoca, si dovrebbe pur ritenere che gli esempi recenti
e ultimi rivestano un significato anche maggiore. Dice il Signore:
“Negli estremi giorni spanderò la virtù del mio Spirito su ogni
carne vivente, e i loro figli e figlie proferiranno vaticini; sopra
gli schiavi e le schiave mie spanderò il mio Spirito: i giovani
contempleranno visioni, i vecchi avranno rivelazioni nel sogno”
(Gioele 3, 1-5 e Atti 2). Pertanto anche noi, che riconosciamo e
onoriamo le profezie e le visioni nuove e rivolgiamo ogni altra
operazione dello Spirito Santo ad ammaestramento della Chiesa, alla
quale fu mandato per distribuire tutti i suoi doni spirituali a
ciascuno secondo la disposizione di Dio, reputiamo necessario
raccontarle e leggerle in comune a gloria di Dio. Così non accadrà
mai che alcuno per ignoranza o poca fede abbia a credere che la
grazia di Dio si sia manifestata solo agli antichi, sia confortando
al martirio, sia nel dono di rivelazione; poiché Dio opera senza
interruzione secondo le sue promesse, a documento di chi non crede e
a beneficio di chi crede.
Vi
presentiamo dunque, o fratelli e figlioli, anche noi “ciò che
abbiamo udito e veduto e toccato con mano” (1 Giovanni 1, 1. 3.);
affinché voi che siete stati presenti ai fatti, ricordandoli ne
diate gloria al Signore; quelli poi che ora soltanto vengono a
conoscerli per via di udito, vivano in spirituale unione coi santi
martiri, e per mezzo loro, col nostro Signore Gesù Cristo, a cui è
dovuta la gloria e l’onore per i secoli dei secoli. Amen.
2.
Furono arrestati i giovinetti catecumeni Revocato e Felicita sua
compagna di schiavitù, Saturnino e Secondino. Era fra loro poi anche
Vibia Perpetua di condizione patrizia, allevata accuratamente,
sposata secondo il costume delle matrone. Vivevano ancora suo padre e
sua madre, e aveva due fratelli, di cui l’uno era pure catecumeno.
Essa aveva un bambino alle poppe (infantem ad ùbera) e toccava
presso a poco l’età dei ventidue anni. Lo svolgimento del suo
martirio fu narrato tutto da lei stessa, così come lo lasciò
scritto di sua mano e di mente sua.
3.
Essa dunque così narra: “Mentre ancora mi trovavo in custodia
libera, e mio padre voleva ad ogni modo piegarmi colle ragioni, e
mosso dal suo affetto persisteva nel suo tentativo di farmi
apostatare, gli dico:
‘Padre,
vedi tu, per esempio questo vaso qui, o quell’orcio, o altro
qualunque?’
‘Lo
vedo’, risponde.
Ed
io a lui: ‘Può esso forse chiamarsi con altro nome che il suo?’.
‘No’,
dice.
‘Così
pure io non posso chiamarmi in altro modo se non ciò che sono, cioè
cristiana’.
Questa
mia risposta lo mosse ad ira; mi si rivolse contro e pareva mi
volesse cavare gli occhi; si limitò tuttavia a dirmi molte male
parole, indi se ne andò confuso coi suoi argomenti ispirati dal
diavolo. Per alcuni giorni in seguito non lo vidi più e ne
ringraziavo il Signore, perché lo starne lontana mi era di sollievo.
Frattanto, proprio in quell’intervallo di pochi giorni ricevemmo il
battesimo; allora lo Spirito mi suggerì che non dovessi attendermi
altra grazia dell’acqua battesimale se non la forza di resistere ai
tormenti corporali, pochi giorni dopo fummo chiusi in prigione. Ne
fui spaventata; non avevo mai provato l’orrore di simile oscurità.
Fu un giorno doloroso! V’era un calore insopportabile, prodotto dal
gran numero di persone quivi ammucchiate; vi si aggiungevano le
villanie della soldataglia, e per estrema miseria ero straziata dal
pensiero del mio bambino che avevo lasciato a casa. Allora i diaconi
Terzo e Pomponio, che, benedetti, si curavano della nostra sorte,
distribuendo mance ottennero che per alcune ore fossimo fatti uscire
a ristorarci nella parte più comoda del carcere. Usciti dunque dalla
prigione, eravamo tutti a nostro agio; potevo così allattare il mio
bambino che veniva meno per inedia. Mentre mi curavo di lui,
conversavo con mia madre e rivolgevo parole di conforto a mio
fratello; a tutti e due poi raccomandavo mio figlio. Soffrivo perché
li vedevo costernati per causa mia; così stetti in afflizione per
molti giorni. Ottenni che il bimbo restasse con me nella prigione;
presto lo vidi rimettersi in forze, onde fui sollevata dalla dolorosa
apprensione per la vita di lui. D’allora il carcere mi divenne
comodo come un palazzo, né più desiderai d’essere in alcun luogo
fuori di là.
4.
Mi disse allora mio fratello:
‘Signora
sorella mia, ormai hai acquistato tanto merito da poter chiedere a
Dio di mostrarti in visione se avverrà il martirio o se saremo
dimessi’.
Io
sapevo di avere rivelazioni da Dio per i molti favori che ne avevo
ricevuti, onde piena di fede glielo promisi dicendogli:
‘Domani
te lo farò sapere’.
Lo
domandai infatti e mi fu mostrata questa visione. Vidi una scala
eretta nell’aria; era straordinariamente grande e coll’un dei
capi arrivava fino al cielo; ma era stretta, sì che non vi si poteva
salire che uno alla volta. Sui fianchi della scala erano confitti
arnesi di ferro d’ogni sorta: v’erano pugnali, lance, uncini,
sciabole, spiedi, sicché se uno vi saliva distrattamente e senza
volgere gli occhi verso l’alto, veniva straziato e lasciava
brandelli di carne attaccati a quei ferri. Ai piedi della scala stava
sdraiato un drago di mostruosa dimensione; questo attendeva al varco
quanti passavano per salire la scala, e così li atterriva per
impedire loro la salita. Per primo vi ascese Sàturo, che ci aveva
fatti cristiani e poi per nostro amore s’era offerto spontaneamente
alle guardie, non essendo egli presente prima, quando fummo
arrestati. Egli giunse fino alla sommità della scala, poi si rivolse
e ci disse:
‘Perpetua,
vieni; io ti aiuterò, ma guardati dai morsi di questo drago’.
Dissi:
‘Nel nome di Gesù Cristo, non mi farà alcun male’.
E
subito quello, quasi avesse paura di me, abbassò lentamente la testa
ai piedi della scala stessa: onde io vi posi sopra il piede
premendogli la testa quasi fosse il primo gradino. Presi a salire;
giunta sopra, vidi un estesissimo giardino. In mezzo sedeva un uomo
dai capelli bianchi, vestito da pastore, grande, in atto di mungere
le pecore. Intorno a lui molte migliaia di persone vestite di bianco.
Alzò egli il capo, mi guardò e disse:
‘Sii
la benvenuta, o figlia’.
Poi
mi chiamò; e mi porse tanto come un boccone di panna rappresa di
quel latte che stava mungendo; lo ricevetti con le mani giunte e lo
mangiai. Tutti i circostanti dissero:
‘Amen’.
Al
suono di quella parola mi risvegliai, e ancora mi pareva di
inghiottire un non so che di dolce. Riferii il sogno a mio fratello;
da quello comprendemmo che il martirio ci attendeva tra poco; onde ci
disponemmo ad abbandonare ogni speranza di questo mondo.
5.
Pochi giorni dopo si sparse la voce che saremmo stati interrogati.
Giunse frattanto dalla città mio padre; era quasi sfinito dalla
costernazione. Venne su da me per tentare di farmi mutar proposito e
prese a dirmi:
‘Abbi
pietà della mia canizie, o figlia; abbi pietà di tuo padre, se pure
sono degno d’essere chiamato da te con questo nome; se ti ho
allevata con queste mani sino al fiore dell’età, se ti ho
prediletta su tutti i tuoi fratelli! Guarda tua mamma e la tua zia
materna; guarda il tuo figliolino, che non potrà sopravviverti.
Lascia codesto tuo proposito che sarebbe la morte di noi tutti, che
non potremo più parlare a fronte alta, se si oserà toccarti!’.
Diceva
queste cose mosso dal sentimento paterno e dal suo cuore; prostrato
ai miei pedi mi baciava le mani, piangeva e non mi chiamava figlia,
ma signora. Io soffrivo vedendolo in quello stato e pensando che egli
solo di tutta la mia famiglia non fosse in grado di godere per il mio
martirio. Lo consolavo dicendogli:
‘Quando
sarò su quel palco accadrà quello che Dio vorrà; sappi che ormai
non apparteniamo più a noi stessi, ma a Dio’.
Se
ne andò via da me tutto pieno di tristezza.
6.
In uno dei giorni successivi, durante il pasto, fummo condotti via
d’improvviso per l’interrogatorio. Arrivammo alla piazza; s’era
sparsa la voce di noi in tutte le adiacenze, e tosto accorse una
folla innumerevole. Salimmo sul palco; gli altri furono interrogati e
confessarono la fede. Venne la mia volta. Sopravvenne allora mio
padre col mio bambino tra le braccia; mi trasse indietro
supplichevole disse:
‘Abbi
pietà di questo bambino’.
Il
procuratore Ilariano, che esercitava allora il potere esecutivo in
sostituzione del proconsole Minucio Timiniano che era morto, mi
disse:
‘Abbi
riguardo dei capelli bianchi di tuo padre, e di questo tenero
fanciullo! Offri un sacrificio per la salute degli Imperatori’.
Risposi:
‘Non lo faccio’.
Ilariano
disse: ‘Sei tu cristiana?’.
Risposi:
‘Sono cristiana’.
Mio
padre mi si faceva addosso per farmi rinnegare; Ilariano comandò di
trascinarlo via e per di più lo fece cacciare a bastonate. Mi dolse
il caso di mio padre, mi parve di sentire quei colpi sulle mie
membra; mi piangeva il cuore per quella sua miseranda vecchiaia.
Frattanto il procuratore pronunziò la nostra sentenza condannandoci
alle fiere. Contenti ritornammo alla prigione. Il mio bambino soleva
starmi alle poppe e restare con me in carcere; onde io tosto mandai
il diacono Pomponio perché chiedesse il piccino a mio padre. Questi
non volle consegnarglielo. E come piacque a Dio, il bambino cessò di
domandare la mammella, e io fui libera dall’infiammazione che ciò
cagionava, né più fui oppressa dalla cura del fanciullo e dal
dolore delle mammelle.
7.
Dopo pochi giorni, mentre tutti siamo in orazione, m’uscì di bocca
il nome di Dinòcrate; stupii, che non m’era mai sovvenuto di lui
se non allora, e mi dolsi al ricordar i suoi casi. Sentii che Dio mi
favoriva e che dovevo pregar per lui. Cominciai a farlo molto
intensamente implorando con sospiri il Signore. Subito la notte
seguente ebbi questa visione. M’apparve Dinòcrate che usciva da un
luogo scuro dov’eran parecchi altri; era oppresso e arso di sete,
col viso macilento e scolorito; aveva la faccia deturpata da una
piaga, come era quando morì. Questo Dinòcrate era stato mio
fratello carnale, vissuto fino ai sette anni; aveva contratto una
malattia che lo condusse a mala morte per un tumore alla faccia, sì
che la sua morte aveva destato grande ribrezzo in tutti. Avevo dunque
pregato per lui, ed ora me lo vedevo innanzi, ma fra noi due vi era
una grande distanza, sì che non potevamo avvicinarci l’uno
all’altra. Quivi nel luogo ove stava Dinòcrate era una vasca piena
d’acqua, con un parapetto più alto della statura del fanciullo;
Dinòcrate vi si protendeva in atto di voler bere. Mi rammaricavo che
quella vasca abbondasse così di acqua, mentre egli non avrebbe
potuto berne per l’altezza della sponda. Mi svegliai e compresi che
mio fratello pativa. Ma avevo fiducia di poter sollevare la sua
sofferenza e pregai per lui ogni giorno, fino a che fummo trasferiti
nella prigione militare, perché dovevamo scendere a combattere colle
fiere durante lo spettacolo castrense per il natalizio di Geta
Cesare. Feci orazione giorno e notte, con sospiri e lacrime, per
ottenere che quel mio fratello mi fosse salvato.
8.
Il giorno che rimanemmo legati in prigione mi fu mostrata questa
visione. Mi apparve lo stesso luogo veduto la prima volta, e quivi
Dinòcrate tutto ben ripulito e sano, coperto di belle vesti,
d’aspetto allegro. Al posto della piaga appariva la cicatrice.
V’era la vasca che avevo già prima veduta, ma con la sponda
abbassata tanto da arrivare a mezza statura del fanciullo, il quale
vi poteva attingere a suo piacere. Sul parapetto era una fiala d’oro
ricolma d’acqua. Dinòcrate si apprestò e prese a bere da quella,
e mentre beveva non diminuiva l’acqua della fiala. Quando fu sazio
dall’acqua si mise a trastullare, come sogliono fare i bambini,
allegro. A questo punto mi risvegliai, e compresi che egli aveva
finito di soffrire.
9.
Di lì a pochi giorni un soldato attendente di nome Pudente, che era
preposto alla custodia delle carceri, cominciò a dimostrarci grande
stima; s’era convinto che in noi fosse grande virtù. Così
lasciava entrare molte persone a farci visita, ed era un gran
sollievo reciproco per noi e per i nostri visitatori. Intanto si
avvicinava il giorno dello spettacolo pubblico; allora venne mio
padre. Era sfinito dal dolore; prese a strapparsi la barba, gettarsi
ai miei piedi prostrato fino a terra; malediceva gli anni suoi e dava
in tali lamenti da far pietà a ogni cosa creata. Io mi struggevo per
quella vecchiaia sventurata.
10.
Il giorno prima del combattimento nostro ebbi questa visione. Mi
parve che venisse da noi il diacono Pomponio e che fermatosi alla
porta del carcere battesse fortemente. Uscii incontro a lui e gli
aprii la porta. Era vestito di una bianchissima tunica fluente, e
portava calzari variati di molti colori.
Mi
disse:
‘Perpetua,
t’aspettiamo, vieni’.
Indi
mi prese per mano e ci avviammo per sentieri scoscesi e tortuosi. A
fatica giungemmo finalmente trafelati dinanzi all’anfiteatro; mi
condusse fino nel mezzo dell’arena dicendomi:
‘Non
temere: sono qui io a soffrire in tua compagnia’.
Indi
uscì. Vidi un’immensa folla che mi guardava meravigliata. Sapendo
io d’essere condannata quivi alle bestie, mi stupivo che quelle non
venissero sguinzagliate contro di me. Allora mi uscì incontro un
certo egiziano, brutto di aspetto, e si accinse a combattere con me
assistito da compagni che gli facevano da scudieri. Intanto vidi
venire alla mia volta alcuni leggiadri giovinetti e schierarsi in mio
soccorso. Mi svestii dei miei abiti e fui trasformata in maschio. I
miei aiutanti allora presero a farmi massaggi con olio, come suol
farsi agli atleti prima della lotta; vedevo frattanto di contro a me
quell’egiziano che si voltolava sull’arena. Nel punto stesso vidi
farmisi incontro un uomo di grandezza smisurata, tale da oltrepassare
la parte più elevata dell’anfiteatro; aveva una tunica fluente di
porpora percorsa da due fascette davanti; e portava calzari variati
fatti d’oro e d’argento. Egli reggeva in una mano una bacchetta
come sogliono portarla i maestri gladiatori e nell’altra un ramo
verdeggiante con mele color d’oro. Impose silenzio e disse:
‘Questo
egiziano, se avrà vinto costei, la ucciderà con la spada; se invece
essa vincerà, riceverà questo ramo’.
Indi
si ritirò. Ci appressammo l’un altro e cominciammo il pugilato.
Quegli voleva afferrarmi i piedi; io gli sprangavo calci sulla
faccia. Mi sentii allora sollevare in aria, e presi a percuoterlo
come se i miei piedi non poggiassero sul terreno. In un istante che
quegli esitò giunsi le mani incrociando le dita, gli serrai così
alla testa e lo percossi sul viso, indi atterratolo gli posi un piede
sul capo. La folla prese a gridare; i miei fautori cantavano. Mi
appressai al maestro dei gladiatori e ricevetti da lui il ramo. Mi
baciò e mi disse:
‘Figlia,
la pace sia con te’.
Allora
m’avviai per uscire verso la porta Sanavivaria. In quel punto mi
svegliai; compresi che dovevo combattere non con le bestie, ma col
diavolo, ma mi tenevo sicura della vittoria.
Queste
sono le cose da me fatte fino alla vigilia dello spettacolo; quanto
allo svolgimento di questo, lo descriverà chi vorrà”.
11.
Anche Saturo benedetto fece conoscere una sua visione da lui stesso
narrata per iscritto.
“Mi
pareva – dice – che avessimo già sofferto il martirio e fossimo
già usciti dalla carne mortale e che quattro angeli ci
trasportassero verso l’oriente, senza che le loro mani ci
toccassero. Procedevamo non coricati con la faccia all’insù, ma
come se ascendessimo una facile erta. Usciti dal mondo inferiore,
fummo avvolti da immensa luce. Io dissi a Perpetua, che mi stava al
fianco:
‘Ecco
quello che il Signore ci prometteva; siamo giunti ormai al promesso
bene’.
Mentre
eravamo portati da quei quattro angeli, ci si offerse alla vista una
grande spianata che aveva l’aspetto di un giardino, con cespugli di
rose e fiori d’ogni genere. V’erano alberi che si ergevano
all’altezza di un cipresso, e le foglie cadevano da quelli
continuamente. In quel giardino apparvero altri quattro angeli più
splendidi dei primi; quando ci videro, ci fecero riverenza e dissero
agli altri angeli:
‘Ci
sono, ci sono!’.
ed
erano pieni di meraviglia. I quattro angeli che ci portavano, presi
da timore, ci deposero; indi a piedi cominciammo a percorrere per la
lunghezza d’uno stadio un’ampia strada, fino a che incontrammo
Giocondo, Saturnino e Artassio, i quali in quella medesima
persecuzione erano stati bruciati vivi. Con essi era anche Quinto
martire, morto nel carcere. Domandavamo a loro dove fossero gli
altri. Gli angeli ci dissero:
‘Entrate
prima, andate a salutare il Signore’.
12.
Ci appressammo a un recinto le cui mura parevano fatte di luce;
sull’entrata di esso stavano quattro angeli. Questi entrarono e
indossarono candide vesti. Entrammo noi pure e udimmo voci in coro
che cantavano:
‘Santo,
Santo, Santo’,
e
non cessavano di ripeterlo. Vedemmo quivi la figura di un uomo tutto
bianco, dalle chiome color di neve, dal volto d’adolescente. Non
vedevamo i suoi piedi. A destra e a sinistra di lui stavano quattro
anziani; dietro di essi ve n’erano molti altri. Ci avanzammo pieni
di meraviglia e giungemmo ai piedi del trono. I quattro angeli ci
sollevarono; baciammo in volto quel personaggio ed egli ci passò la
sua mano sul viso.
Gli
altri anziani dissero:
‘Alziamoci’.
Ci
alzammo, ci demmo a vicenda il bacio di pace. Gli anziani ci dissero:
‘Andate
a divertirvi’.
Io
dissi a Perpetua: ‘Il tuo desiderio è compiuto’.
Mi
rispose: ‘Siano rese grazie a Dio, perché lieta fui nella carne
mortale, ed ora qui la mia letizia è accresciuta’.
13.
Uscimmo e dinanzi alla porta trovammo a destra il vescovo Ottato, a
sinistra il presbitero Aspasio, maestro dei catecumeni; stavano l’uno
in disparte dall’altro e tristi. Ci si gettarono ai piedi dicendo:
‘Fate
la pace tra noi, ora che siete usciti dal mondo e ci avete così
abbandonati!’.
Dicemmo
loro: ‘Non sei tu il nostro vescovo, e tu uno dei nostri
presbiteri? Perché vi siete messi ai nostri piedi?’.
Eravamo
commossi e ci gettammo fra le loro braccia. Perpetua cominciò a
parlare loro in lingua greca. Li conducemmo in disparte entro il
giardino sotto un gran cespo di rose. Mentre con essi conversavamo,
gli angeli dissero a quelli:
‘Lasciate
che si divertano; se avete qualche contrasto tra voi due, perdonatevi
a vicenda’.
Quelle
parole li rattristarono. Allora (gli angeli) dissero a Ottato:
‘Raddrizza
il tuo popolo; perché si radunano con te come gente che ritorna dal
circo e agitati da animosità partigiane’.
Ci
parve poi che volessero chiudere le porte. Frattanto cominciammo a
riconoscere quivi molti fratelli e anche molti martiri. Tutti
aspiravano profumi di ineffabile soavità e ne eravamo inebriati. In
quel punto mi svegliai ancor tutto pieno di allegrezza.
14.
Queste sono le più insigni visioni degli stessi beatissimi martiri
Sàturo e Perpetua, scritte da loro medesimi. Dio chiamò a sé poi
Secondino con morte anticipata mentr’era ancora in carcere, non
senza usargli un favore, poiché gli risparmiò le belve. Ma se il
ferro non gli tolse la vita, certo gli straziò la carne.
15.
In quanto poi a Felicita le fu riserbata dal Signore questa grazia.
Essendo essa all’ottavo mese (che, quando l’arrestarono era
incinta), e avvicinatosi ormai il giorno dello spettacolo, era in
grande passione per timore che ella a cagione del suo stato non fosse
rimandata ad altra volta, non essendo permesso offrire all’arena a
supplizio le incinte; così che le fosse poi toccato di versare il
suo sangue innocente insieme con delinquenti. Anche i compagni di
martirio si affliggevano assai, nel dubbio di dover lasciare una
compagna così valente e quasi loro guida, indietro da sola nella via
di raggiungere la loro medesima speranza. Pertanto sul fare del terzo
giorno prima dello spettacolo, con le lacrime unanimi e concordi
fecero orazione dinanzi al Signore. Tosto finita l’orazione,
Felicita fu sorpresa dalle doglie; e poiché, stentando, dolorava nel
parto, per la naturale difficoltà dell’ottavo mese, uno dei
soldati sorveglianti del carcere le disse:
‘O
tu che ora patisci tanto strazio, che farai quando verrai gettata in
pasto a quelle belve che disprezzasti rifiutando di sacrificare?’
E
quella rispose: ‘Ora sono io che devo sopportare questi strazi;
quivi invece vi sarà dentro di me un altro, il quale patirà per me,
perché anch’io mi dispongo a patire per lui’.
Così
Felicita mise alla luce una bambina, la quale fu allevata come figlia
da una sorella di fede.
16.
Poiché dunque lo Spirito Santo ha permesso, e permettendolo l’ha
voluto, che si scrivesse lo svolgimento di quello spettacolo, sebbene
indegni di scrivere il restante di sì grande gloria, tuttavia, come
per eseguire un incarico, anzi un fidecommesso della santissima
Perpetua, aggiungeremo un documento della sua costanza e altezza
d’animo. L’ufficiale militare aveva preso a trattarli più
severamente, per causa delle ciarle di certi uomini vanissimi, che
avevan fatto temere non fossero i martiri sottratti dalla prigione
per mezzo di qualche stregoneria; allora Perpetua arditamente gli
disse:
‘E
perché dunque non permetti un po’ di buon trattamento per noi,
che, per essere destinati a lottare nel natalizio di Cesare, siamo
vittime privilegiate? Non sarà forse tuo merito, se ci troveremo più
in carne nel dì che verremo presentati all’arena?’.
L’ufficiale
si turbò ed arrossì, e frattanto ordinò che fossero meglio
trattati, sì che ai loro fratelli di fede e agli altri fosse
permesso d’entrare e di prendere cibo con essi; perché del resto
lo stesso attendente del carcere s’era convertito alla fede.
17.
Anche la vigilia, mentre s’intrattenevano a quell’ultimo desinare
che chiamano ‘cena libera’, lo celebravano piuttosto come
un’agape (banchetto eucaristico) che come una cena, e con solita
franchezza rivolgevano la parola al popolo, minacciando il giudizio
di Dio, dicendosi felici d’andare al martirio; talora anche
prendevano in burla la curiosità dei sopravvenienti; come Sàturo,
il quale andava dicendo:
‘Eh,
non vi basta il giorno di domani? Ci squadrate con tanta curiosità,
mentre ci portate odio; vi mostrate amici oggi, voi, i nemici di
domani? Ebbene, osservate con cura le nostre facce, sì che abbiate a
ravvisarci in quel giorno’.
Così
tutti se ne tornavano di là turbati, e fra loro molti si volsero
alla fede.
18.
Sorse il dì della loro vittoria, ed essi uscirono dalla prigione
verso l’anfiteatro, lieti e composti in volto, come quelli che
s’avviano al cielo: trepidavano, è vero, non però di paura, ma
piuttosto di gioia. Perpetua teneva dietro con passo tranquillo, come
una matrona di Cristo, come una prediletta da Dio; e la luce del suo
sguardo faceva abbassare gli occhi di tutti; così pure Felicita,
lieta d’aver felicemente partorito, per potere lottare con le belve
passando da sangue a sangue, dall’ostetrice al reziario, pronta a
purificarsi del parto con un secondo battesimo. Furono condotti alla
porta e venne loro imposto d’indossare abiti da spettacolo: gli
uomini a foggia di Saturno, le donne a mo’ delle sacerdotesse di
Cèrere. Ma quella nobile donna oppose un coraggioso e irriducibile
rifiuto. Diceva:
‘Siam
venuti di nostra volontà sino a questo punto per non sacrificare la
nostra libertà; abbiamo messo la vita a pegno per non macchiarci di
simili atti; tanto abbiamo pattuito con voi’. L’ingiustizia
allora s’inchinò alla giustizia, e l’ufficiale diede licenza che
fossero introdotti senz’altro così com’erano. Perpetua cantava
un salmo, già sul punto di premere la testa dell’Egizio; Revocato,
Saturnino e Sàturo facevano ammonimenti alla folla degli spettatori.
Quindi, giunti in presenza d’Ilariano, cominciarono a far gesti e
cenni, quasi per dirgli:
‘Tu
colpisci noi, ma Dio raggiungerà te’.
A
quella vista, la folla irritata, richiese che venissero straziati con
staffili, passando fra le fila dei carnefici (venatores); di che essi
furono lieti, perché eran messi in qualche modo a parte dei
patimenti del Signore”.
19.
Ma Colui che aveva detto ‘domandate e riceverete’ aveva concesso
a ciascuno di loro quel genere di morte che preferiva. Difatti,
quando essi discorrevano fra loro dei propri desideri riguardo al
martirio, Saturnino dichiarava di preferire le belve, per avere una
corona più gloriosa; pertanto, nello svolgersi dello spettacolo,
egli e Revocato, dopo aver affrontato il leopardo, dovevano anche
essere straziati dall’orso, sopra il palchetto. Veramente Sàturo
aveva orrore dell’orso più che d’ogni altra fiera, e sperava che
un solo assalto del leopardo l’avrebbe finito. Fu allora esposto al
cinghiale; in questo, appunto il carnefice, che l’aveva legato al
palo per il cinghiale fu azzannato in vece di lui dalla medesima
fiera, sì che morì il giorno appresso; Sàturo, al contrario, fu
solo da quella trascinato per un breve tratto. Nuovamente legato sul
palchetto per l’orso, questo non volle uscir fuori dalla gabbia.
Così fu che Sàturo, rimasto due volte illeso, fu chiamato dalla
folla fuori dell’arena.
20.
Per le giovani, il diavolo preparò una vacca ferocissima, cosa
veramente inusitata, quasi volesse fare, anche con quella bestia, uno
sfregio al loro sesso. Spogliate dunque, e ravviluppate nei reticoli,
esse venivano condotte nell’arena. La folla fu presa da un senso di
ribrezzo, vedendole tenera fanciulla una, l’altra ancora fresca di
parto e con le poppe stillanti. Furono allora richiamate e rivestite
con lunghe tuniche. Perpetua, acciuffata per la prima e sbattuta,
ricadde a terra supina. Messasi a sedere, raccolse i lembi della
tunica lacerata sul fianco per coprirsi il femore, più ansiosa del
proprio pudore che del proprio dolore. Indi raccolse le forcelle, si
appuntò la scomposta capigliatura: non s’addiceva davvero a una
martire soffrire la passione con le chiome disciolte, sì da sembrare
far lutto nella sua gloria! Ciò fatto, s’alzò in piedi, e, veduta
Felicita colpita, le si avvicinò porgendole la mano per rialzarla.
Così stettero alquanto, fino a che, ammansita la ferocia della
folla, furono richiamate e fatte uscire per la porta Sanavivaria.
Quivi Perpetua fu accolta da un tal catecumeno di nome Rustico, che
era stato addetto al suo servizio, e, riscossa come da sonno,
talmente era assorta e rapita in spirito, prese a volgere gli occhi
attorno e con meraviglia di tutti uscì in queste parole:
‘Ma
quando dunque saremo noi esposte a quella vacca?’.
Udito
che la cosa era già accaduta, non voleva credere, sino a che non
ebbe ravvisate nella sua persona e nell’abito certe tracce dello
strazio. Chiamato quindi a sé il fratello e quel tal catecumeno,
così disse:
‘Siate
fermi nella fede, amatevi tutti l’un l’altro, né prendete
sgomento dei nostri tormenti’.
21.
Similmente Sàturo, presso un’altra porta, rinfrancava il soldato
Pudente, dicendogli:
‘Tutto
sommato, davvero finora, come avevo predetto, non ho ancora sentito
lo strazio d’alcuna fiera; sii fermo dunque con tutto il cuore
nella fede. Ora vedrai, io mi avanzo fin là, e sarò ucciso da un
solo morso di leopardo’.
E
tosto, essendo lo spettacolo sul termine, sguinzagliatogli contro un
leopardo, ne toccò una zannata per cui fu inondato di sangue in gran
copia; e, mentre, si ritraeva, la folla gli rendeva testimonianza del
secondo battesimo vociando:
‘Salvo,
lavato’.
Davvero
che era salvo colui che s’era bagnato in simile lavacro! Disse
allora al soldato Pudente:
‘Addio,
ricordati della mia fede e di me; che tutto questo valga non a
turbarti ma a darti animo’. Così dicendo, lo richiese dell’anello
che portava in dito, e, bagnandolo nella propria ferita, glielo rese
come sua eredità, lasciandoglielo come pegno e come una memoria di
sangue. Quindi, ormai sfinito, venne disteso insieme con gli altri
nel luogo solito per essere sgozzato. La folla reclamava che fossero
portati in vista, per seguire con i loro occhi omicidi l’entrar del
coltello nelle carni di quelli; i martiri si rizzarono spontaneamente
e si trascinarono fin là dove la marmaglia voleva. Già s’erano
dato fra loro il bacio, ché ben volevano por fine al martirio con il
santo rito della pace. Gli altri ricevettero il ferro raccolti in
silenzio. Tosto rese lo spirito Sàturo, che era asceso per primo
nella scala; egli attendeva Perpetua che gli tenesse dietro. A questa
era ancora riserbato di gustare qualche tormento: perché il ferro le
si impigliò tra le vertebre della gola. Mandò un forte gemito, e
prese essa stessa a guidare la incerta mano dell’inetto gladiatore,
aggiustandosi la punta alle carni. Ma forse una donna di tanto
valore, che incuteva spavento allo spirito immondo, non avrebbe
altrimenti potuto essere uccisa se essa non l’avesse voluto!
O
martiri fortissimi e mille volte beati! O voi veramente chiamati ed
eletti per la gloria del nostro Signore Gesù Cristo! Chiunque aspira
ad aumentare, illustrare e adorare questa gloria, ben deve leggere a
edificazione della Chiesa questi esempi, non minori di quelli
passati: sì che le nuove gesta rendano testimonianza all’unico e
medesimo Spirito Santo che finora ha operato, a Dio Padre onnipotente
e al Figlio suo Gesù Cristo nostro Signore, al quale si deve onore e
potestà senza limiti per tutti i secoli.
Amen.
da:
P. VANNUTELLI – a
cura di –, Atti dei Martiri 1, Città del Vaticano, ristampa
1962, 14-57
Dal sito http://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/passione_delle_sante_perpetua_e.htm
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