(Mt 25, 13-30 || Lc 19, 11-28)
Il bisogno di amare
Ma l’uomo ha anche un’altra fortissima esigenza, ed è quella di amare e di essere amato, anche su questo versante dobbiamo impegnarci a trafficare i talenti, anche da questo campo il nostro padrone vuole raccogliere frutti.
L’amore non è però solo qualcosa di naturale e spontaneo, è soprattutto un’arte che si impara investendo tempo e fatica; il frutto poi della fatica è una certa pienezza di vita; a volte sono concessi momenti di grazia e tutto viene trasfigurato, tutto acquista bellezza, leggerezza, splendore … Senza l’amore invece, tutto precipita nel non senso e nella morte; lo possiamo constatare ogni volta che vediamo sbocciare l’amore fra due persone e ogni volta che vediamo le catastrofi prodotte da un amore che si rompe.
Ogni amore che si rompe ci dice qualcosa su cui dovremmo seriamente riflettere, ossia che l’amore è molto potente e molto pericoloso, se non lo maneggiamo con attenzione rischiamo di fare un gran male a noi e agli altri. Tutti, in misura maggiore o minore, soffriamo per le ferite prodotte dal non amore, ma a tutti è anche dato di vedere, di desiderare, di sperimentare lo splendore dell’amore. La vita ci pone allora di fronte a una scelta: tu cosa vuoi, lo splendore dell’amore o l’orrore del non amore? Non è possibile rimanere neutrali perché chi non sceglie consapevolmente di amare agirà inevitabilmente contro l’amore. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde (Mt 12, 30).
Scegliere consapevolmente di amare significa trafficare i talenti, significa lasciarsi coinvolgere in un’avventura in cui ci saranno tutti gli ingredienti dell’avventura; si incontreranno imprevisti e sorprese, si dovranno affrontare paure e incertezze, si dovranno attraversare dolori e splendori, desolazioni e consolazioni, tenebre e luce, passioni e purificazioni … fino al giorno in cui il Signore dirà: Bene, servo buono e fedele … sei stato fedele nel poco ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
Poco e molto, storia in due tempi
Anche a questo punto possiamo chiederci: ma che cos’è questo poco e che cos’è questo molto? Un aspetto del poco è proprio il poco amore che riusciamo a dare e a ricevere rispetto alle grandi attese del nostro cuore, il quale vorrebbe sia dare di più, sia ricevere di più, ecco perché siamo sempre inquieti e insoddisfatti. Dobbiamo però disporci a soffrire a lungo per l’assenza del vero amore e accettare che il percorso vada dal poco al molto, da ciò che è imperfetto verso ciò che è perfetto.
Potremmo anche dire che il poco è quando ci esercitiamo nell’arte di amare soprattutto obbedendo a dei precetti morali: non uccidere, non rubare, non mentire, non fare a nessuno ciò che non piace a te … questi esercizi sono di solito poco gratificanti, poco gustosi come accade in tutti gli esercizi per imparare qualsiasi arte.
È bene inoltre riflettere su un aspetto dell’amore a cui rischiamo di porre poca attenzione, questo aspetto consiste nel “lasciarsi amare”. E qui possiamo guardare i bambini, i quali hanno bisogno di tutto e tutto ricevono, offrono così ai genitori la possibilità di dare e danno in cambio la loro gioia di vivere. Questo aspetto è molto importante nel rapporto fra Dio e noi perché non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi (1Gv 4, 10). A noi tocca rispondere correttamente a un amore che dona molto, ma esige ugualmente molto; è richiesta sensibilità, docilità, fedeltà, generosità … ma è solo a partire da un grande amore che i nostri atti di amore si perfezioneranno, perché saranno determinati sempre meno dai precetti e sempre più dal fascino di un certo volto, il volto e lo sguardo di Dio che in qualche modo ci raggiunge e ci dice: “Mi vuoi?”.
Dalla risposta a questo sguardo, che è contemporaneamente una dichiarazione d’amore, dipende tutto il bene e tutto il male che c’è nel mondo. Dalla risposta positiva nascono i santi, da quella negativa i demoni. La vita dell’uomo non è una cosuccia da niente, una piacevole passeggiata, un tempo di divertimento … e il suo compito principale non è di evitare il più possibile i disagi, di cercare tutte le possibili soddisfazioni, di provare tutti i possibili piaceri … ma l’uomo ha una dignità incomparabile perché ha il compito di scegliere il suo destino eterno, è chiamato a dire di si o di no a un Dio che mendica il suo amore; e l’esito della scelta sarà la beatitudine dell’intimità con Dio o l’inferno.
Le paure del servo malvagio
C’è però qualcuno che sente questa dignità e questo compito come qualcosa d’inquietante e ne ha paura, è il servo pigro e malvagio della parabola, il quale, per vincere la paura non poteva comportarsi in modo più sbagliato e odioso. Anche lui come tutti aveva ricevuto un bene che per sua natura chiedeva di crescere, di espandersi, di perfezionarsi, ma lui decide con determinazione e con ostinazione, di mortificare e rendere inefficace il dinamismo naturale contenuto nel bene ricevuto, infatti va, ossia compie un certo cammino che lo allontana dal luogo in cui abitualmente vive, mostrando così l’intenzione di mettere una certa distanza fra lui e il bene ricevuto; scava anche una buca e vi nasconde il talento, ossia mette impegno e fatica per nascondere a se stesso il bene ricevuto; ma cosa succede al termine dell’impresa? Succede che non vede più il bene perché non lo vuole vedere e non ha più le risorse per farlo crescere perché ha deciso di renderle inefficaci.
Un simile comportamento avrà conseguenze catastrofiche quando ritornerà a casa. Infatti, bisogna considerare che la legge della crescita ha due direzioni, una è verso il bene e l’altra verso il male; ma se il servo malvagio si è privato volontariamente del bene e delle risorse per farlo crescere, che cosa ci si può aspettare da lui se non che tutto il suo operare sia inevitabilmente orientato verso il male? Giustamente il Signore lo chiama servo malvagio; e giustamente lo chiama pigro, perché non producendo alcun bene non potrà vivere se non sfruttando come un parassita il bene prodotto da altri; infatti, se il sole sorge sui cattivi e sui buoni (Mt 5, 45) è perché ci sono nel mondo un certo numero di buoni senza i quali il mondo sarebbe distrutto dall’ira di Dio come è successo a Sodoma e Gomorra.
Dobbiamo considerare inoltre che il servo malvagio si è messo al servizio del male non per un giorno o due, ma per molto tempo e durante questo tempo non è detto che si sia pentito e sia andato a recuperare il talento nascosto; vediamo così che il suo comportamento è caratterizzato sia da una determinazione ingegnosa per rendere inefficace il bene ricevuto, sia dalla perseveranza nella decisione presa. Questo comportamento è particolarmente odioso perché è contro natura, la natura dell’uomo infatti tende spontaneamente a crescere nella conoscenza e nell’amore, ma questa crescita non è automatica, deve essere liberamente scelta, positivamente voluta, altrimenti la tendenza naturale si esaurisce e diventa inefficace.
L’esercizio della libertà è ciò che caratterizza in profondità la natura umana e gli conferisce una dignità grande è terribile; terribile perché è concesso a questa libertà di operare contro Colui che gliel’ha data, di operare contro l’amore. Non c’è niente da fare, il Dio grande e terribile (Sal 88, 8) fa cose grandi e terribili ed è cosa gravissima minimizzare, banalizzare, trascurare … le sue opere e le sue parole. Purtroppo, è quanto il servo malvagio fa, anche perché non vuole assolutamente avere paura, dice infatti: Ho avuto paura e, come rimedio: sono andato a nascondere il talento sotto terra. Ma ogni nostro tentativo per evitare la paura è destinato prima o poi a fallire. Paradossalmente l’unico rimedio alla nostra paura è accettare di avere paura, perché questa è necessaria a preparare il giorno in cui il Signore ci dirà: Coraggio, sono io, non abbiate paura! (Mt 14, 27).
La paura ha un certo ruolo per aiutarci a crescere nella conoscenza e nell’amore, ossia a trafficare i talenti. Infatti, essa tenta di dirci qualcosa sul mistero e la sacralità della vita che abbiamo ricevuto; ma di fronte al mistero e al sacro è giusto che l’uomo reagisca con sacro timore. Il salmo 110 afferma che principio della sapienza è il timore del Signore. Tenta di dirci inoltre una cosa che non vorremmo sentire, ossia che qualcosa non va nella vita dell’uomo, ciò che gli accade singolarmente e collettivamente non è affatto normale, qualcosa di molto grave deve essere successo perché l’uomo si trovi immerso in tribolazioni e guai a non finire, senza mai riuscire a venirne fuori in maniera soddisfacente. La Sacra Scrittura e la Chiesa che la interpreta correttamente, ci dicono cosa è successo: è successo che l’uomo ha offeso colui da cui tutto ha ricevuto, non ha avuto fiducia in lui, non ha creduto alle sue parole, ma ha creduto e dato fiducia al primo venuto che gli prometteva mare e monti. Così facendo, senza sapere bene quel che faceva, dichiarava Dio mentitore e inaffidabile e il demonio molto più veritiero e degno di essere ascoltato. Atti di questa gravità non possono non avere conseguenze gravissime, e la più grave di tutte è la rottura dell’amicizia con Dio; ecco perché ogni volta che Dio si avvicina all’uomo, l’uomo ha paura: Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto (Gn 3, 10).
Giustamente don Divo Barsotti osserva che non dovremmo tanto stupirci “che siano pochi i credenti”, ma dovremmo piuttosto stupirci “che ce ne possano essere”, proprio perché dopo il peccato originale “la reazione che ha l’uomo di fronte al Signore e la fuga”. Ho avuto paura e mi sono nascosto dice Adamo e il servo malvagio gli fa eco: Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. In questi due casi, “nascondere” ha una qualche relazione col peccato. Quando l’uomo pecca cerca poi, “nascondendo”, di rimediare in qualche modo le conseguenze dolorose e inquietanti del peccato.
L’oscuramento della ragione
Un’altra conseguenza del peccato, oltre al dolore e alla paura, è l’oscuramento della ragione, infatti, nascondendo il talento il servo malvagio non vede più il bene ricevuto, ma non vedendo il bene non vede più neanche il male perché gli manca il termine di paragone. Cade così nell’aberrazione di chiamare il bene male e male il bene, di ritenere giusto ciò che è sbagliato e sbagliato ciò che è giusto. L’aberrazione massima è dichiarare l’uomo giusto e Dio ingiusto, ma è proprio quello che fa il servo malvagio quando vorrebbe giustificarsi nell’ora della resa dei conti, dice infatti: “Ho avuto paura, ma è giusto che io abbia avuto paura, perché tu sei un uomo duro che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. Ora, un uomo che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso è un padrone ingiusto, ma da un padrone ingiusto è giusto stare lontano, è giusto evitare ogni rapporto. A causa del suo accecamento il servo malvagio pensa inoltre che ci siano dei campi non appartenenti al suo padrone, ma da cui il suo ingiusto padrone vuole raccogliere; questo perché non vede che tutti i campi appartengono a Dio e per tutti lui ha previsto dei semi destinati a produrre bellezza, nutrimento, conoscenza, amore … per chi li lavora, e gratitudine, lode, onore e gloria a lui a cui ogni cosa appartiene.
È sorprendente notare che il padrone non si preoccupa affatto di smentire le idee erronee che occupano la mente del suo servo, ma afferma che anche a partire da quelle idee erronee lui poteva e doveva fare qualcosa di utile per la sua salvezza: Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse.
Il dialogo fra il padrone e il suo servo mette in evidenza un momento critico, un paradosso, un dramma; il dramma dell’uomo che riceve da Dio ogni bene e si ritrova, non a gioire e ringraziare per beni ricevuti, ma ad avere paura e a pensare che il donatore sia qualcuno di duro è ingiusto. Ed è anche ciò che pensava il figlio maggiore della parabola del figlio prodigo, perché lui lavorava sodo nei campi, ma suo padre, duro e ingiusto, non gli ha mai dato un capretto per far festa con i suoi amici. Ben misera e misteriosa è la condizione umana!
Ogni situazione critica è una situazione instabile e va in qualche modo superata, ma il suo superamento dipende da una libera scelta. L’alternativa a cui si trova di fronte il servo è: “Rompo completamente e definitivamente i rapporti con il mio padrone per liberarmi dalla paura che la sua presenza e le sue esigenze incutono, oppure non li rompo?”. Andare, scavare, nascondere e ritornare a casa, sono tutte azioni che manifestano una volontà di rottura definitiva del servo nei confronti del suo padrone. Il servo doveva però giustificare in qualche modo la sua scelta, e lo fa dichiarando duro e ingiusto il suo padrone. La decisione gli procurerà certamente qualche sollievo e vantaggio a breve termine, ma si rivelerà disastrosa nel giorno della resa dei conti.
Lui ha deciso di non avere alcun rapporto col suo padrone, ma un padrone che, stando alle sue parole miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso, anche da lui che aveva deciso di non lavorare nel suo campo avrebbe preteso qualche frutto. Inoltre, un uomo duro se non trova i frutti che si aspetta, come si comporterà se non punendo severamente chi si è dimostrato malvagio, pigro, infedele?
E in quel giorno il servo deve ammettere che l’espulsione dalla casa del suo padrone è il salario che gli è dovuto, perché è ciò che lui ha voluto guadagnandoselo a poco a poco durante tutta la vita. Le scuse che accampa non reggono, perché non poteva pretendere un premio da un uomo duro dopo aver fatto nella vita quello che voleva, senza minimamente impegnarsi a lavorare per lui. Al termine della vita l’uomo malvagio scopre di essere un mostro e di non poter far parte della compagnia di coloro che, avendo operato bene, sono diventati belli.
Il brutto anatroccolo, a forza di ammirare i cigni si vedrà, con sua grande sorpresa, trasformato in cigno e accolto nella loro compagnia, ma chi non ammira i cigni, ossia chi non cerca e ammira ciò che è bello, buono e vero, se ne andrà con la compagnia da lui scelta. Il giorno del giudizio manifesterà ciò che con le nostre scelte quotidiane saremo diventati. I buoni vedranno che il duro padrone non era affatto duro, perché terrà in gran conto anche quel poco bene che ognuno avrà saputo offrire e ripagherà al di là di ogni merito anche chi ha lavorato un’ora soltanto. E sembra essere questo anche il senso della risposta piuttosto misteriosa del padrone al suo servo: Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse.
Dio non ci chiede più di quanto possiamo dare
Un aspetto di questa risposta è affermare che ogni uomo può e deve fare per la sua salvezza qualcosa che è alla sua portata, qualcosa che non è al di sopra delle sue forze e delle sue possibilità. Ciò che l’uomo può fare si estende da un minimo come consegnare un talento a una banca per ricavarne l’interesse, a un massimo come chi fatica tutta la vita per raddoppiare il capitale ricevuto. Da notare che il minimo richiesto può essere fatto anche sotto l’effetto del timore; in effetti proprio il timore di non contrariare i desideri del padrone e il timore del suo giudizio dovrebbero spingere a lavorare per lui.
Ciò che si fa anche sotto l’effetto del timore è comunque una manifestazione d’amore nei confronti del padrone, perché è un riconoscimento della sua signoria, manifesta una non indifferenza nei suoi confronti e una volontà, anche se debole, di non rompere completamente i rapporti con lui. Questa manifestazione minima di amore deve però esprimersi con atti concreti ripetuti con una certa perseveranza. Solo il Signore conosce con precisione tutte le volte in cui le vicende della vita richiedono da noi una scelta, che può essere: secondo le esigenze dell’amore, oppure di chiusura all’amore. Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi… Ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo (Mt 25, 35. 34).
Ecco alcune cose minime alla portata di tutti, a patto di ascoltare la reazione naturale del cuore umano quando si trova di fronte a un fratello che soffre. Se in questi casi non possiamo liberare chi soffre dal suo dolore, possiamo almeno tentare di far sentire la nostra vicinanza, offrire un sorriso, manifestare la nostra compassione … è poco, ma al nostro orgoglio può risultare difficilissimo anche questo poco. È il caso del ricco epulone che vedendo alla sua porta Lazzaro, piagato e affamato, non gli ha dato nemmeno gli avanzi dei suoi ricchi banchetti, perché di fatto aveva “nascosto” Lazzaro ai suoi occhi. È il caso del servo malvagio che ha sepolto ogni capacità di bene posta da Dio nel suo cuore. Ciò che ci condannerà nel giorno del giudizio non saranno gli atti eroici che non siamo stati capaci di fare perché troppo eroici per le nostre deboli forze, ma gli atti facili che potevamo fare e non abbiamo fatto: portare un talento in una banca, lavorare soltanto un’ora durante il giorno, procurarsi per tempo un po' d’olio per alimentare una lampada, offrire cinque pani e due pesci perché non abbiamo di più, dare un bicchiere d’acqua agli amici del Signore, accogliere un giusto perché è giusto, accettare di cambiare un abito inadatto per indossare quello adatto ad una festa nuziale …
Chi è umile accetta di farsi aiutare
Ma la risposta del padrone al servo contiene anche altri insegnamenti: quando l’uomo si ritrova smarrito, disorientato, inadeguato rispetto ai misteri della vita, oppure oppresso da situazioni difficili e angosciose, tormentato dalla paura di Dio … ciò che non deve assolutamente fare è nascondere a sé stesso i problemi, evitare ad ogni costo le difficoltà, decidere di venirne fuori da solo, ma in questi casi l’uomo deve e può farsi aiutare; ma aiutare da chi? Dai banchieri. Infatti, come i banchieri sono i massimi esperti nell’arte di maneggiare e far fruttare i denari, così nella Chiesa ci sono sicuramente servitori esperti nel maneggiare e far fruttare ogni situazione umana, perché la Chiesa è la massima “esperta in umanità”. Gli imperi, i regni, le mode, le follie umane passano … ma la Chiesa resta. Nella Chiesa ci sono stati e ci sono un gran numero di servi fedeli che avendo trafficato correttamente i talenti, possono aiutare chi, trovandosi in qualunque genere di difficoltà, non sa come venirne fuori. Non sono gli esperti che mancano, ma piuttosto chi li cerca, sono molti infatti a pensare di non averne bisogno, e questo perché in fondo nascondono a sé stessi sia la complessità, sia la grandezza della condizione umana. Troppi vogliono una vita tranquilla a cui basti il pane e il divertimento, allora, tutto ciò che minaccia la loro tranquillità e i loro divertimenti lo fuggono e lo reprimono: vanno, scavano, nascondono; corrono così il rischio di diventare pigri, malvagi e inadatti per il regno di Dio. Larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano (Mt 7, 13).
La possibilità della perdizione
La possibilità della perdizione è chiaramente insegnata sia nella parabola di Matteo, sia in quella di Luca, ma questo è un tema spinoso che si tende a evitare, oppure è trattato in maniera superficiale o scorretta. Siccome l’idea che ci possano essere persone, uomini e angeli, che per qualche motivo soffrono eternamente è difficile da accettare, allora ci si arrampica sui vetri e si escogitano spiegazioni strampalate per rendere il progetto di Dio più accettabile; ci si illude così di anestetizzare l’ansia e i timori suscitati dal problema dell’inferno.
Su questo tema è ampiamente diffuso il tentativo di ridurre i pensieri di Dio alla misura dei nostri corti pensieri. Non è raro infatti sentire discorsi di questo tipo: la misericordia di Dio è grande, più grande di qualunque nostro peccato, se ci fosse qualcuno all’inferno sarebbe una sconfitta della misericordia di Dio, ma la misericordia di Dio non può essere sconfitta, quindi … il santo curato d’Ars, a una donna angosciata per il marito che si era suicidato, ha assicurato che fra il ponte e l’acqua la misericordia di Dio aveva operato un miracolo, quindi … la Chiesa poi non ha mai dichiarato che qualcuno sia da ritenersi sicuramente in inferno, quindi … un altro discorso di origine antica è quello secondo cui alla fine dei tempi, dopo un periodo di purificazione, tutti saranno ammessi in paradiso, quindi …
È molto probabile che l’origine di tutti questi discorsi dipenda in gran parte dalle nostre paure, dalla nostra incapacità di comprendere il disegno di Dio, dalla nostra mancanza di fede. Il guaio è che rischiamo di attaccarci tenacemente ai nostri giudizi erronei e ai nostri corti pensieri.
Per affrontare correttamente il problema dell’inferno è necessario soddisfare alcune condizioni preliminari: la prima condizione è cercare di mettere da parte il proprio io, con le sue paure e le sue ottusità, per ascoltare spassionatamente quello che Dio rivela, qualunque cosa la rivelazione dica; ora, la rivelazione ha tre testimoni o riferimenti fondamentali che sono: ciò che dice la Sacra Scrittura, ciò che dice la Tradizione della Chiesa, ciò che dice il Magistero della Chiesa. Tutti possono verificare, con un minimo di onestà intellettuale, che questi tre testimoni sono concordi nel dire che l’inferno è una realtà oggettiva ed eterna, e che purtroppo non è vuoto. Nella Sacra Scrittura i testi su questo tema sono molti, tra questi la parabola che stiamo meditando. Fra i rappresentanti autentici della Tradizione della Chiesa ci sono i santi: mistici e dottori, i quali, essendo santi, possiedono il certificato rilasciato dalla Chiesa che la loro vita è stata secondo gli insegnamenti degli apostoli, ma se lo è stata la loro vita non poteva non esserlo anche il loro pensiero, almeno sulle questioni fondamentali. Possiamo allora ascoltare, fra tanti, cosa dice Santa Teresa d’Avila al capitolo 32 del libro della sua vita: “Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto … il Signore allora non volle mostrarmi altro dell’inferno, in seguito, però, ho avuto una visione di cose spaventose, tra cui il castigo di alcuni vizi … Non so come questo sia avvenuto, ma mi resi ben conto che era per effetto di una grande grazia e che il Signore volle farmi vedere con i miei occhi da dove la sua misericordia mi aveva liberato …”.
Santa Faustina Kowalska nel “Diario della divina misericordia” scrive: “… per ordine di Dio sono stata negli abissi dell’inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l’inferno c’è … la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l’inferno” (II° quaderno parte 3, 20 ottobre 1936, n° 741).
La venerabile Marta Robin nel libretto “Incontri con Marthe Robin” dice: “Sto tornando dall’inferno dei preti e delle suore, è il più terribile …” (n° 55 Correzione di una religiosa).
I Padri della Chiesa e i santi teologi poi, non insegnano certo dottrine diverse.
Il terzo testimone che dobbiamo ascoltare è il Magistero della Chiesa; ne troviamo un riassunto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove il tema è trattato dal n° 1033 al 1037. Con tono solenne è detto che “La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità” (1035). Non avrebbe nessun senso affermare l’eternità dell’inferno se l’inferno fosse vuoto, perché sarebbe un’affermazione inutile.
Se non ascoltiamo e seguiamo docilmente questi tre testimoni è come se, dovendo attraversare una fitta foresta o salire su un’altra montagna, prendessimo per guida un fanciullo, ossia qualcuno che non ha le forze e l’esperienza sufficienti nemmeno per guidare sé stesso. E se qualcuno insegna cose diverse da ciò che dicono concordemente i tre testimoni, anche se ci impressiona con il suo abito, con i suoi titoli, con la sua eloquenza, non dobbiamo ascoltarlo.
Questo primo requisito riguarda piuttosto la nostra intelligenza e non è molto adatto a pacificare il nostro cuore, ecco perché ci vuole un secondo requisito non meno fondamentale per affrontare un tema di questa importanza; proprio perché le difficoltà non sono piccole è indispensabile chiedere aiuto, è necessario piegare le ginocchia e pregare il Signore perché illumini la nostra mente, e non permetta che le nostre ottusità oscurino i suoi giudizi; perché fortifichi la nostra fiducia nella sua bontà, così da poter dire: “Anche se l’inferno esiste e non è vuoto, fa che possiamo lodarti e adorarti per la tua saggezza e per i tuoi giusti giudizi”.
Senza la pratica di questi due requisiti non si va da nessuna parte, chi insegna fa danni e chi ascolta li subisce. Al contrario, pregando il Signore di aiutarci a riflettere correttamente su questo tema e ascoltando onestamente la Scrittura, la Tradizione e il Magistero della Chiesa è possibile tentare di dire qualcosa che non sia in disaccordo con la rivelazione.
Tentativo di riflessione sull’inferno
Se l’inferno non esistesse o fosse vuoto vorrebbe dire che a tutti è riservato il paradiso, ma questo vorrebbe dire che nella vita presente comportarsi bene o male non ha nessun senso, perché alla fine la sorte di tutti è già decisa, tanto valeva che il Signore ci avesse creati immediatamente nel paradiso, ma non è questo che il Signore ha voluto. Inoltre, orientare la nostra vita verso il bene è una libera scelta della volontà, ora, una volontà che produce atti buoni tende a fortificarsi e a stabilizzarsi nella bontà, mentre una volontà che produce atti cattivi tende a fortificarsi e a stabilizzarsi nella malvagità, bisogna poi considerare che la perfezione di una scelta libera è nell’essere irrevocabile sia nel bene, sia nel male, ma se tutti vanno in paradiso vorrebbe dire che la libertà di una persona malvagia non verrebbe rispettata nella sua scelta definitiva, ma verrebbe in qualche modo forzatamente cambiata. In questo caso Dio non rispetterebbe la natura della libertà da lui stesso creata. Dire poi che non ci può essere una scelta malvagia definitiva equivale a dire che l’uomo non ha una reale possibilità di scelta, perché alla fine tutti faranno necessariamente parte dei buoni.
Durante la vita presente l’esercizio della nostra libertà è imperfetto, in quanto è caratterizzato da instabilità; anche quando scegliamo la via del bene e della vita possiamo sempre cambiare e ritrovarci a percorrere vie di morte, così come chi percorre le vie del peccato può sempre pentirsi per camminare poi sulla via della vita. Queste incertezze e instabilità non possono però durare sempre, ma è necessario che ci sia un punto di non ritorno in cui la nostra libertà si stabilizzi in un senso o nell’altro; a quel punto essa esige che sia rispettata la sua scelta definitiva.
Ascoltiamo su questo punto un pensiero molto illuminante del padre Marie Dominique Molinié op: “Ammetto di essere stato a lungo tentato di appoggiarmi sull’illusoria sicurezza secondo la quale ci si può dannare solo al termine di una specie di eroismo al contrario, di cui mi sentivo tanto incapace quanto di eroismo nella direzione giusta! C’è sicuramente del vero in quello che diceva Santa Caterina da Siena, che cioè si deve perseverare sia per dannarsi sia per salvarsi. Ma che ne sarà di quelli che non hanno perseveranza alcuna? Risposta: bisognerà che un giorno perseverino in un senso o nell’altro. La mia era una falsa sicurezza. Incapace di qualunque eroismo, se non c’era chi mi portasse in cielo, mi credevo però protetto nei riguardi di colui che porta all’inferno. Ignoravo così che lo spirito umano non ha modo di sfuggire all’eroismo. Non lo sceglie di per sé, ma sarà chiamato a scegliere il giorno in cui la sofferenza, la morte o l’amore lo costringeranno a una decisione eterna tra l’eroismo del bene e l’eroismo del male. A quel punto la nostra mediocrità non offrirà più nessuna garanzia …” (“Le face à face dans la nuit” Cap. 1).
Da quanto detto fin qui non deriva che creare persone libere comporti necessariamente la realtà dell’inferno, ma l’inferno c’è non perché c’è la libertà, ma solo perché c’è di fatto un cattivo uso della libertà.
Conviene ancora considerare che creando Dio vuole soprattutto avere un rapporto d’amore con le sue creature intelligenti, ma non un rapporto d’amore a senso unico in cui lui darebbe tutto e la creatura non darebbe nulla, ma ha voluto un rapporto d’amore in cui lui potesse essere liberamente scelto, non ha voluto che l’uomo fosse costretto ad amarlo. Ha quindi fatto in modo che ognuno potesse accogliere o rifiutare il suo amore, ed è il senso profondo della nostra vita sulla terra, questa è la valle della decisione (Gl 4, 14). Ognuno è chiamato a decidersi per Dio o contro Dio. Questo comporta necessariamente un momento d’incertezza e di tentazione che esige di essere superato per stabilizzarsi da una parte o dall’altra.
Potremmo ancora chiederci perché Dio ha deciso di creare persone libere pur conoscendo in anticipo che alcune di esse, usando male la loro libertà, non avrebbero accolto la sua proposta d’amore e sarebbero andate incontro a sofferenze eterne, non sarebbe stato meglio non creare? Se considerando la sorte dei malvagi Dio non avesse creato, questo avrebbe significato che in fondo la decisione della creazione sarebbe dipesa dai malvagi, è più giusto invece che sia stata la previsione della beatitudine dei buoni a determinare la scelta di creare, come di fatto è avvenuto.
Come evitare la perdizione
La rivelazione non ci parla solo della possibilità della perdizione, ci parla anche dei mezzi per evitarla, questi mezzi sono: la preghiera, le buone opere, la docilità nel seguire il nostro Salvatore. Nelle fatiche, tentazioni e tribolazioni della vita presente, con questi mezzi manifestiamo a Dio la nostra volontà di rispondere liberamente al suo amore. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14, 23). Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti (2Gv 1, 6). San Paolo ci assicura poi che chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato (Rm 10, 13); Signore, salvami! (Mt 14, 30) grida Pietro mentre sta affondando, e il Signore lo salva, ma se non c’è praticamente nessun reale pericolo di sprofondare nell’inferno, diventa superfluo invocare e gridare al Signore.
Il grande danno che fanno coloro che negano la realtà dell’inferno o insegnano che è vuoto è di impedire a chi li ascolta di utilizzare i mezzi previsti per evitare la perdizione. Si assumono inoltre la grande responsabilità di rendere inutili i richiami del Signore e di sua Madre, la quale a Fatima raccomanda esplicitamente di pregare per essere preservati dal “fuoco dell’inferno”. Anche i sacrifici, che i pastorelli offrivano proprio per evitare ai peccatori di andare all’inferno, non avrebbero nessun senso se l’inferno c’è, ma è vuoto; e a maggior ragione questo si può dire del sacrificio di Cristo sulla Croce.
Naturalmente tutte queste riflessioni sono cenni incompleti e insoddisfacenti, assomigliano a balbettamenti di bambini, possono tuttavia suscitare in chi ama la verità il desiderio di maggior luce, il desiderio di comprendere maggiormente il grandioso e misterioso progetto di Dio. Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 18, 3). È normale per dei bambini esprimersi in modo approssimativo e incerto, ma per loro non è un problema, sanno che i genitori li guideranno a poco a poco verso una comprensione sempre più ampia e certa della realtà. Le opere del Signore sono tutte buone … tutto infatti al tempo giusto sarà riconosciuto buono (Sir 39, 33-34).
Conclusione della parabola
La parabola termina mostrando un comportamento del padrone che può suscitare sconcerto; è quando ordina che il talento riavuto dal servo malvagio sia dato a chi, avendo guadagnato più di tutti, si trova già in possesso di dieci talenti. Nella parabola raccontata da Luca è sottolineato lo sconcerto dei presenti che esclamano: Signore, ne ha già dieci! come se percepissero una qualche ingiustizia nella decisione del Signore. Questa reazione mostra ancora una volta come i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie.
Intanto l’episodio rivela come nessuna grazia prevista da Dio per gli uomini vada sprecata, se qualcuno per qualunque motivo la rifiuta o non le permette di agire, questa grazia passerà ad altri, sarà data a chi ha dimostrato di sapere come far fruttare le grazie. Ma perché dare il talento a chi ne ha già dieci? Non sarebbe meglio darlo a chi ne ha di meno? A nostro parere sembrerebbe forse più giusta questa soluzione; evidentemente la nostra difficoltà nel comprendere le leggi che governano la vita nel regno di Dio emerge in ogni momento. Assomigliamo anche noi ai Sadducei, i quali volevano sapere dal Signore di chi sarebbe stata sposa, nel Regno dei Cieli, una donna che sulla terra lo era stata successivamente di sette fratelli; il Signore rispose loro: Vi ingannate, perché non conoscete le Scritture e neppure la potenza di Dio (Mt 22, 23-30).
Allora perché è bene dare ancora una grazia a chi già abbonda di grazie? Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza … ma l’abbondanza di chi è abitato dallo Spirito di Dio non è come l’abbondanza di chi è abitato dallo spirito del mondo. Nel Regno di Dio ciò che è dato a uno è come se venisse dato a tutti, perché lì i beni di tutti entrano in circolo e chi abbonda di grazie è perché più di altri è capace di condividerle.
Ascoltiamo su questo aspetto San Tommaso d’Aquino: “… La vita eterna infine consiste nella gioconda fraternità di tutti i santi. Sarà una comunione di spiriti estremamente deliziosa, perché ognuno avrà i beni di tutti gli altri beati. Ognuno amerà l’altro come sé stesso e perciò godrà del bene altrui come proprio. Così il gaudio di uno solo sarà tanto maggiore quanto più grande sarà la gioia di tutti gli altri beati” (Conferenze sul credo).
Che il Signore, a suo tempo, possa dire anche a noi: Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone …
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