lunedì 19 aprile 2021

Come funziona il peccato... Il peccato di Adamo ed Eva… di padre Serafino Tognetti – Tratto dal libro “Dio perdona sempre – Il sacramento della riconciliazione”

Ma come ha potuto Adamo peccare, perdere l’amicizia e l’intimità con Dio?

Andiamo a vedere quello che successe nel Paradiso terrestre, dove la realtà del peccato è descritta da Dio stesso, il quale può parlare del peccato meglio di qualsiasi altro teologo.

Il peccato di Adamo ed Eva è il primo di tutti i peccati, il più importante: compreso quello si capiscono anche tutti gli altri, che ne sono una derivazione. Peccato “originale” significa infatti che sta all’origine di tutti i successivi. Il peccato di Adamo ed Eva va conosciuto bene perché ne impariamo l’insidia e il pericolo.

Vediamo. Nella scena del peccato originale i protagonisti sono tre: Adamo, Eva e il serpente, oltre naturalmente a Dio che, avendo creato l’uomo libero, lo lascia agire come meglio crede. L’amore, infatti, o è libero o non è; non si può dire di amare una persona se non siamo posti nelle condizioni di poterla rifiutare; anzi, la tentazione diventa addirittura necessaria per capire fino a che punto amiamo. Il grande sant’Antonio abate, che s’intendeva bene di lotta spirituale contro il demonio, disse infatti: «Togli la tentazione e nessuno si salva».

Se Dio ci “costringesse” ad amarlo non ci tratterebbe da persone libere, e nemmeno come persone. Noi dunque siamo creati liberi, e lo siamo anche dopo il peccato originale: questa è la nostra grandezza di uomini, che ci distingue, per esempio, dall’animale, il quale agisce sempre per istinto.

Però noi possiamo usare questa libertà in modo sbagliato. La possibilità di scelta si chiama “libero arbitrio”. In ogni istante io posso decidere se compiere un atto buono o un atto cattivo: sono padrone di me e mi determino liberamente (ci sono poi tanti condizionamenti sulle mie scelte, ma questo è un altro discorso). Chiamiamo allora “libertà” la condizione generale nella quale Dio ha posto l’uomo al momento della creazione, e chiamiamo “libero arbitrio” la facoltà di decidere, volta per volta, se fare il bene o il male.

Ecco il rischio dell’amore di Dio e dell’amore in generale: esigendo una corrispondenza, l’amore si apre alla possibilità del rifiuto. Dio ci ama, non vi è alcun dubbio, perché Dio è amore (lGv 4,8) e come tale non può fare altro che amare. Ma per avere la libera risposta di Adamo ed Eva li deve porre in condizione di poter rifiutare l’amore.

Di qui la scelta, che possiamo chiamare anche “la prova dell’obbedienza”, del fidarsi: «Vi è un albero nel giardino di cui vi chiedo semplicemente di non mangiare il frutto». Tutto qui. Difficile? No, semplicissimo! Si tratta di accettare tale richiesta sapendo che, se Dio ha voluto questo, avrà il suo buon motivo. Poteva anche, per assurdo, chiedere di camminare ogni mattina per un minuto saltellando sul piede destro, o chiedere di dire ogni sera alle 18:00: «Per la barba del profeta!»; non è la cosa in sé che conta, ma che Dio chieda quella cosa. Dio ci ama e io posso dimostrare la mia fiducia in lui - ossia amarlo come buon figlio - dandogli credito, accettando in tutta tranquillità di non mangiare di quell’albero, visto che è questa la richiesta e che, per di più, è così facile da eseguire.

In questa prova di fiducia - non mangiare - Satana tenta di convincere Adamo ed Eva che Dio non è buono; sembra buono - ci dice - ma in realtà non lo è. Una volta convinti gli uomini di questo, gli sarà facile portarli alla ribellione, perché le azioni seguono la convinzione: dunque è su ciò che l’uomo pensa di Dio che occorre agire.

In un primo momento Adamo ed Eva, prima dell’arrivo del serpente, creati liberi da Dio, accettano la prova di non mangiare di quell’albero e se ne stanno beati nella magnifica creazione, tra gli animali che li servono senza creare alcun pericolo, nella stupenda scoperta di questo mondo, nella rassicurante e benevola presenza di Dio Padre e Creatore, il quale non è né minaccia né causa di turbamento, ma pura bontà. Ecco il Dio della creazione: la bontà. Dio è buono, è misericordia, è bene, e l’universo che ha fatto ne è la prima semplicissima dimostrazione. La creazione è una bambagia: vi si sta meravigliosamente bene perché tutto è in armonia.

Arriva Satana, sotto le mentite spoglie del serpente. Il serpente è il più astuto di tutti gli animali selvatici (Gen 3,1) e questo aggettivo - astuto - già richiama un inquietante segno di pericolo. L’astuzia può significare la capacità di confondere le idee attraverso argomenti convincenti, ma anche la malizia di portarti fuori strada appositamente.

Non dimentichiamo che Satana è un angelo, una creatura di Dio che ha fatto la propria libera scelta: ha deciso di non adorare Dio, di non servirlo, di non accettare la sua paternità, il suo amore, e da quel momento si è posto, insieme agli angeli che hanno scelto la stessa cosa, in una condizione di ribellione e di odio. Egli sa che non contemplerà più il suo Dio, sa che cosa ha perduto e, nonostante capisca bene in che situazione si sia messo, preferisce rimanere fissato per sempre nell’orgoglio.

Satana è diventato non solo ribelle, ma odio. Vive anche oggi, ossia sempre e per sempre, nell’odio. Rimpiange quello che ha perduto? Chissà, forse sì, ma non si piega più. L’orgoglio satanico... quale grande smarrimento! Satana sa bene che non può fare niente contro Dio: come lo potrebbe? Dio è Creatore, Satana è creatura; Dio è santità e trascendenza infinita, causa dell’essere, Satana è causato, non deve la vita a se stesso. E non potendo fare niente contro Dio, vede nella creazione dell’uomo la possibilità di poter “rovinare” l’opera divina. Ecco che cosa fa l’odio: vuole dare dispiacere al prossimo, vuole la sua infelicità. In fondo questo è anche il peccato di Giuda Iscariota, del quale si afferma non a caso che fosse posseduto da Satana (Gv 13,27). Giuda era rimasto deluso dall’apostolato di Gesù, credeva in un regno terreno di gloria umana al seguito di Cristo condottiero contro i Romani per il trionfo di Israele nel mondo, ma quando capisce che Gesù non ha alcuna intenzione di combattere i regni umani per il successo visibile di Israele e il suo dominio terreno, anziché ritirarsi in buon ordine, vuole come “vendicarsi” di questa sua grande frustrazione e consegna il suo Maestro a coloro che vogliono ucciderlo.

Il serpente striscia, Adamo sta in piedi e questo gli è insopportabile; Satana non può tollerare né Dio né Adamo, ma non potendo agire direttamente sul primo, si getta sul secondo. Ecco allora un primo insegnamento: il male non ha nessuna forza creatrice, è distruttivo in sé. L’odio tende solo ad abbattere, mai a costruire. Il male tira giù, il bene invece edifica, costruisce, innalza.

Vedendo l’uomo nell’Eden in piedi e felice, Satana architetta il suo progetto. Sa che anche l’uomo, come fu per lui un tempo, verrà sottoposto prima o poi a una prova, per quanto piccola sia, ed egli sa che per abbattere l’uomo può appigliarsi solo a quel test della fiducia. Solo sul terreno di quella libertà egli può agire: dovrà pertanto fare di tutto per piegare la volontà dell’uomo a sé.

«E vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?» (Gen 3,1). La domanda sembra innocua, ma il serpente comincia a confondere le acque. Non si parla di tutte le cose buone, della grandezza della creazione, della meraviglia dell’amore tra Adamo ed Eva, della divina dolcissima paternità di Dio, ma dell’unico punto che può dare appiglio: quella proibizione. Buttiamo via tutto il resto - pensa Satana - e concentriamoci solo su questo.

La risposta di Eva è giusta, ma fino a un certo punto: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (Gen 3,2-3). La donna risponde bene, ma aggiunge una parola, il verbo toccare. Dio non aveva detto che l’albero non si poteva toccare, ma solo che non si poteva mangiare del suo frutto (Gen 2,16-17). Può sembrare un dettaglio da poco: mangiare, toccare, non è in fondo la stessa cosa? Per mangiare si deve pur toccare... Sarà, ma di fatto la risposta non è esatta al cento per cento, e il peccato inizia sempre con Faccettare un termine non corretto. Eva aggiunge, amplia, iniziando così a confondersi.

Satana immediatamente rincalza: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio!» (Gen 3,4-5). Il serpente presenta a Eva un Dio che dunque nasconde qualcosa, si tiene un segreto per sé, dice all’uomo tutto ma non tutto. Se non dice tutto - prosegue il ragionamento - significa che non si fida totalmente di voi, oppure che è geloso dei propri segreti, che vuole tenere le distanze, che vuole riservarsi qualcosa di non detto per far sentire la sua superiorità, per dominarvi; un Dio che non può sopportare che qualcuno diventi come lui (Gen 3,5). Per farli cadere nella trasgressione, Satana si deve sforzare di fare apparire agli occhi di Eva un Dio non Dio, o meglio, un Dio non buono ma geloso, che custodisce maliziosamente i propri segreti.

Come fare allora per conoscere questi segreti di Dio? Semplice: mangiare il frutto dell’albero, trasgredire, perché proprio facendo questo voi “diventereste come lui”.

A ben pensare, questa proposta non doveva essere nemmeno interessante per Adamo ed Eva perché essi erano già in qualche modo “come lui”, nel senso che erano stati fatti a immagine e somiglianza di Dio, erano già perfetti e, in quanto tali, “come lui”, pur essendo uno Creatore e gli altri creature. La vita dell’uomo e della donna nel Paradiso terrestre consisteva nel perfezionarsi sempre più nell’amore, ossia nel dare a Dio il segno della fiducia, e Dio avrebbe insegnato poi il mistero della procreazione prima di chiamare a sé i propri figli alla vita eterna nella beatitudine del suo Regno, senza che essi dovessero conoscere la morte. Questo avrebbe dovuto essere. Ma questa conoscenza del bene e del male (Gen 3,5) ora appare appetibile per smascherare il Padre Eterno che, in fondo - suggerisce Satana - non è poi così buono se vi nasconde cose così importanti.

Ecco allora che Eva posa lo sguardo sull’albero e lo trova buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza (Gen 3,6). Lo sguardo si abbassa da Dio e scivola sui sensi. Bello, buono e desiderabile non è più Dio, ma un povero, semplice, piccolo alberello! Gli attributi propri di Dio finiscono sulle cose create. Solo Dio è buono, bello e desiderabile, non le cose! Ma in quel momento Eva è presa dall’ebbrezza di “diventare come Dio”, non accettando però di arrivare a essere tale attraverso la conoscenza amorosa del Padre buono, quanto piuttosto tramite un atto di volontà propria e usando gli oggetti, il frutto. Con gli oggetti io “divento come Dio”. Ecco il peccato: voler diventare come Dio ma senza Dio.

Che l’uomo porti in sé il bisogno di assoluto, questo è evidente; tutti sentiamo che non siamo fatti per questa realtà passeggera terrena. La nostra anima è più grande dell’universo, perché il pensiero lo contiene, e il Signore vuole portarci alla piena conoscenza di lui, perché questa è una esigenza dell’amore. Ma la via, il modo, ecco il punto: Eva decide, accecata dalle lusinghe di Satana, di diventare come Dio usando un oggetto, un semplice oggetto, un oggettuccio creato. Doveva solo aspettare e Dio le avrebbe detto tutto - il mistero della vita, della procreazione, del destino eterno dell’uomo... - a suo tempo. Ma non attese. E così da quel momento l’uomo cercò sempre di auto-divinizzarsi, attraverso le cose. Tutto divenne oggetto da rapire per la propria affermazione.

Dopo il peccato Adamo ed Eva si accorsero di essere nudi - questo termine si può tradurre anche: fragili, vulnerabili... la radice della parola è la stessa - e ricevettero da Dio delle tuniche di pelli (Gen 3,21). Dopo il peccato l’uomo cade nell’insicurezza, nella precarietà, ma gli rimane insopprimibile quel desiderio originario di Dio, di essere figlio, di salvarsi dal mondo precipitato nella ribellione. Infatti dopo le tuniche di pelli, l’uomo iniziò a fabbricarsi altre “tuniche” che lo coprissero, che gli dessero sicurezza, e sentì un bisogno sempre maggiore di oggetti che lo puntellassero, che gli dessero fiducia in se stesso. Nacque la cultura degli oggetti, l’idolatria delle cose: per essere più sicuro, devo possedere più cose; più tuniche di pelli - più beni materiali - ho e più protetto sarò.

Ma così facendo l’uomo toglie al mondo la sua verità: le cose, infatti, dovevano rivelare Dio; la creazione doveva essere un rimando continuo alla lode del Padre - come si vedrà magnificamente in san Francesco d’Assisi -, ora invece il creato stesso non rivelava più Dio ma quasi lo nascondeva, non per colpa propria, ma per colpa dell’uomo. Il mondo, creato per l’amore, ora veniva usato per l’egoismo. Ecco l’uomo seduto sul trono della propria auto-esaltazione, ma rimanendo fragile: volendo essere come Dio senza Dio.

Gli effetti del peccato sono immediati: divisione tra l’uomo e Dio: Adamo che si nasconde da Dio che lo chiama (Gen 3,8-10); divisione tra uomo e uomo: Adamo ed Eva che si accusano a vicenda (Gen 3,12- 13); divisione tra uomo e creazione: «Con il sudore del tuo volto mungerai il pane...» (Gen 3,19). Poi, subito dopo il peccato, si arriva facilmente all’omicidio. Per raggiungere la salvezza senza Dio, l’uomo giunge a uccidere il prossimo e Caino non esita ad ammazzare Abele non sopportando che egli sia più virtuoso di lui. Caino di fatto giudica il giudizio di Dio: è lui, Caino, che decide che cosa Dio deve fare con la sua offerta; vuole, in pratica, sottomettere Dio al proprio giudizio. Questo è il punto terminale del peccato: l’uomo si pone al centro e tutto deve ruotare attorno a lui, in un atto di auto-adorazione continua.

Questa dunque la tragica scaletta del peccato:

    1. Si è creata una falsa immagine di Dio.

    2. Se Dio è “cattivo”, l’uomo si separa da lui.

    3. Staccato da lui, viene preso dalla paura della

morte, fragilità somma dell’uomo.

    4. Per vincere questa paura, uso smisurato e spasmodico delle tuniche di pelle: gli oggetti.

Non avviene forse questo in ogni peccato?

Che cosa fare allora per non peccare? Tutto sta nel lavorare sul primo punto, l’unico in fondo sul quale possiamo veramente agire. Conosciuto il vero volto di Dio, il resto verrà di conseguenza.

Satana riuscì a convincere Adamo ed Eva che Dio non era buono? Noi prendiamo come picchetto fermo, irrinunciabile, indiscutibile, che Dio è buono. La creazione è buona, anzi cosa buona (Gen 1,12). E chi fa cose buone non può non essere buono. L’Autore di cose buone fa cose buone perché egli stesso è buono. Ed essendo egli unica Sostanza, possiamo facilmente dire che egli non è buono, ma è la Bontà. In Dio non esiste altro che Bontà, perché Dio è Amore (lGv 4,8). E l’Amore è buono. Possiamo usare indifferentemente la parola “misericordia” al posto di “bontà” e allora affermeremo che Dio è misericordia, e solo misericordia, nient’altro che misericordia.

Ce lo insegnerà mirabilmente, secoli dopo, Giobbe, che non era nemmeno un membro del popolo eletto. Di fronte a tante disgrazie, istigato dalla moglie a maledire la cattiva sorte - e quindi Dio -, la prima cosa che disse, per non cadere nella scaletta di cui sopra, fu: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sìa benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21).

La bontà del Signore è senza limiti, questa è verità di fede, perché attestata dalla Parola di Dio che non inganna. Come Giobbe anche noi, di fronte a qualsiasi evento che riguarda noi stessi o il mondo intero, proprio quando ci verrebbe da dubitare, dobbiamo ripetere con coraggio: «Dio è buono!». Tant’è vero questo, che un giorno un giovane si rivolse a Gesù chiamandolo “buono”, ma il Signore lo interruppe immediatamente: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Me 10,18). Eppure Gesù era Dio, e ben lo sapeva! Ma non vuole attribuire nemmeno a sé la qualità di “buono”, perché questa doveva essere riservata esclusivamente al Padre! Così tanto Gesù teneva a preservare questo attributo e a darlo all’unico cui spetta veramente e in pienezza: il Padre.

Dio è buono! Tieni questa verità e mettila in cassaforte. Il demonio subito ti tenterà; ti tenterà sempre, assolutamente, fino alla fine, e cercherà con tutte le forze di convincerti che questo non è vero. E ti mostrerà tutti gli argomenti possibili e immaginabili per farti andare dalla sua: ti farà vedere i terremoti, le carestie, le catastrofi, i morti, i campi di concentramento, i bambini abbandonati per le strade, la malattia mortale che ha colpito tua moglie, tuo marito, i tuoi figli, ti farà vedere tutto, presenterà alla tua mente lo spettacolo del mondo che soffre e ti dirà: «Se Dio fosse buono, tutto questo non sarebbe!». Ti dirà - come ad Adamo ed Eva - che in realtà Dio non è così buono come attesta la Sacra Scrittura, come dicono i preti e ripetono i santi. Cercherà di convincerti con tutti i mezzi e con tutte le forze che in realtà Dio non è buono, perché permette che gli uomini soffrano terribilmente. E se Dio non è la bontà allora chi è? E un Dio geloso, che se ne sta nel cielo a guardare.

A questa tremenda tentazione non si può opporre altro che l’immagine vera di Dio: quella di Gesù crocifisso, e rispondere a Satana: «No, Dio è bontà, e lo ha dimostrato quando, dopo il peccato e la ribellione dell’uomo è venuto nel mondo e si è addossato l’iniquità di noi tutti (Is 53,4)». Sì, sbattigli in faccia senza paura tutto il quarto canto del Servo (Is 52,13 - 53,12) e caccia via lui, il vero ribelle, spacciato in eterno, il ribaltatore della verità.

Non temere il demonio, il grande seduttore, colui che promette la sua falsa liberazione dal male usando il male. E se la sua lusinga fosse untuosa al punto tale da essere convincente, corri nella tua cassaforte, laddove è contenuta la verità di Giobbe, tira fuori il tuo tesoro e urla: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21). Di’ al mondo che questa è la verità su Dio.

Se non capisci pienamente come faccia Dio a essere buono su quella certa situazione di sofferenza, sii umile e confessa: «Ora non capisco, ma domani capirò. O Signore, mandami lo Spirito affinché io possa comprendere, quello Spirito che ci deve guidare alla verità tutta intera (Gv 16,13)». Anche Pietro un giorno disse, sbagliando, al Signore: «Questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22), riferendosi al primo annuncio che Gesù fece dell’imminente passione; l’Apostolo non aveva ancora capito nulla della vera missione del suo Maestro. Nonostante il richiamo forte che Gesù gli fece in quell’occasione, Pietro continuò a non capire tutto subito. Nell’Ultima Cena rifiutò di farsi lavare i piedi dal Cristo e si sentì rispondere: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (Gv 13,7). Così è anche per noi, che pretendiamo di avere una risposta immediata su tutto e siamo quindi portati a giudicare Dio.

L’umile invece accetta, si fa da parte, accoglie. Questo non significa rinunciare a ragionare: non siamo marionette e Dio stesso non vuole pupazzi, vuole figli che usino il proprio cervello e il proprio cuore. Ma se siamo in uno stato di peccato ragioniamo stando nella nebbia, senza vedere bene, senza capire nemmeno dove siamo. Hai fatto mai un viaggio nella nebbia? Io sì - sono emiliano, me ne intendo: un giorno mi ritrovai in una strada statale ma non riuscivo a capire assolutamente se fossi ancora sulla via giusta; giravo nel nebbione attento solo a non finire nel fosso, senza sapere se mi stessi avvicinando alla meta o piuttosto allontanando. Ecco la condizione dell’uomo peccatore: vive nella nebbia del peccato. E all’interno della nuvola opaca pretende di capire subito corretta- mente. Capiremo, stai pur certo che capiremo. Capiremo tutto. Oggi possiamo avere qualche intuizione, qualche raggio di sole, mentre il santo, tanto per capirci, è già quasi fuori dalla nebbia: egli vede chiaramente, sa dov’è il bene e dov’è il male, individua la meta e cammina sicuro verso di essa.

Questo dunque l’atteggiamento vitale quando ci avviciniamo a Dio: la convinzione radicale e assoluta della sua bontà. Guardiamo il Padre Eterno in noi nell’atto di donarci il Figlio nella potenza dello Spirito Santo e, avvolti dalla verità, diciamo: Dio è buono, Dio è buono, Dio è buono... Il mondo va a rotoli? Dio è buono. Ho sbagliato tutto nella vita? Dio è buono. Mio figlio è drogato? Dio è buono. Il mio amico è morto improvvisamente? Dio è buono. Sono languente in un lager ad Auschwitz mentre dovrei essere a casa con mia moglie e i miei figli? Dio è buono. Io capisco forse come Dio possa essere buono in tutto questo? No, ma non importa: non è il mio comprendere o meno che toglie qualcosa alla bontà di Dio. Capirò. Dio è assolutamente buono nell’atto più tremendo della vita di Gesù, la passione e la morte sulla croce. Dio è buono anche lì, sì. Questo è il vertice della nostra fede che fa impazzire Satana, fanti-peccato che ripara il peccato di Adamo - in Cristo, si intende - perché tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio (Rm 8,28).

L’amore non è solo la carità che facciamo al prossimo, ma anche l’atto di fede che diamo a Dio. Sì, l’atto di fede è un atto di amore, perché è un moto di fiducia. Per amarlo occorre una fede granitica e la roccia su cui poggiamo i piedi è questa: Dio è buono. Su tale roccia io costruisco la mia fede, la mia casa, la mia vita, costruisco tutto (Mt 7,24). Se crolla questa convinzione non riuscirò più a edificare nulla e ogni cosa sarà precaria.

Per permettere all’uomo di entrare in questa verità, Dio si è incarnato, si è fatto uomo, mostrando la sua vera natura: amore, accoglienza, umiltà, dono di sé, sacrificio. Gesù ci ha mostrato la bontà di Dio e questo non riescono a negarlo nemmeno gli atei. «Vi ho fatto vedere molte cose buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché, tu che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,32-33). Le opere di Gesù erano buone, su questo nessuno poteva obiettare nulla. E se erano buone le opere del Figlio, significa che Dio è buono.

Satana ci vuole convincere del contrario.

Abbiamo mai dubitato, almeno qualche volta, della bontà di Dio? Abbiamo avuto il pensiero che, in certe condizioni, Dio non sia stato buono? Se la risposta è sì, allora questo è il segno che l’antica seduzione del serpente ha avuto anche in noi un effetto: la traccia del peccato è ancora radicata lì. Allora anche noi, fondamentalmente, pecchiamo perché non crediamo che Dio sia buono. Ossia, manchiamo di fiducia.

Che cosa è la fiducia? Facciamo un esempio: in una casa isolata, nella notte scoppia, improvviso, un incendio. Tutti scendono in fretta, uscendo all’aperto, in un prato. Al bagliore delle fiamme, guardandosi attorno, si accorgono che manca il più piccolo, un bambino di cinque anni.

Nell’allarme generale anche lui era sceso con gli altri, ma arrivato, ultimo, al fondo delle scale, di fronte alla porta avvolta ormai dalle fiamme, preso dal panico, era risalito. Eccolo apparire alla finestra del secondo piano, tutto spaventato e singhiozzante. Suo padre lo vede e gli grida: «Buttati giù!». Egli riconosce la voce di suo padre ma non lo vede: c’è troppo fumo e le fiamme sono paurose. «Non ti vedo papà». E lui: «Ti vedo io e basta. Buttati giù!». Il bambino obbedisce e le braccia di suo padre lo accolgono.1 Ecco cos’è la fiducia.

Divisi da Dio, divisi da tutto

Il peccato, come ribellione a Dio, ha come effetto immediato quello di frantumarci: ci divide da Dio, ci divide dai fratelli, ci divide da noi stessi, ci divide dalla creazione intera. Ci ritroviamo, per nostra scelta, nell’ombra di morte» descritta nel Benedictus (Lc 1,79). È possibile immaginare un dramma più grande? Purtroppo l’uomo non si rende pienamente conto in quale abisso precipiti con l’offendere l’amore di Dio, che sostiene il mondo... Gli pare più grave perdere qualcosa che serve per la vita terrena come la salute, un affetto, il lavoro. I santi invece sapevano che la vita interiore e le “cose invisibili” (2Cor 4,18) sono più preziose di ciò che solitamente consideriamo come importante e cioè le cose materiali; quando tuonavano contro il male era perché sapevano che un peccato solo può portarci alla dannazione eterna, mentre una disgrazia umana, per esempio uno stato di malattia, può, alla fine, diventare addirittura anche un bene, se vissuta nella giusta luce della fede.

Divisi da Dio, ci ritroviamo divisi da tutto, e non riusciamo più a distinguere il bene dal male: questo è certamente il primo e il maggior smarrimento. Padre Bernard Bro (1925) scrive: «Chi di fronte al nostro peccato ci dice che esso è bene, e chi ci fa credere che in fondo non c’è più il peccato stesso, costui coopera alla peggior forma di disperazione».

Divisi da Dio, perdiamo anche il “senso del peccato”: ci sembra di non fare niente di male, siamo pronti a giustificarci in ogni cosa.

Secondariamente, la frattura con Dio opera l’inquinamento dei buoni rapporti anche con il prossimo. Quando san Paolo descrive le cosiddette opere della carne elenca quattordici azioni peccaminose; trattandosi di “carne” ci aspetteremmo che si debba riferire a peccati legati al mondo della sessualità; invece su quattordici ben sette - la metà - riguardano i rapporti guastati tra noi uomini: inimicizie, discordie, gelosie, dissensi, divisioni, fazioni e invidie (Gal 5,20-21). Probabilmente non abbiamo mai sentito dire che invidiare la vicina di casa che ha un abito più bello del nostro è un’“opera della carne”, ma così è. E se viviamo nella carne, vivremo sempre nel disordine: «Non fatevi illusioni: chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione» (Gal 6,7a.8a).

Divisi da Dio, siamo divisi da tutto, anche da noi stessi. Ci ritroviamo frantumati, tristi, senza riuscire a dare un senso alle cose che facciamo, ci sentiamo soli e naufraghi. Come è possibile questo se siamo figli di Dio e abbiamo un Padre nei cieli? Non dovrem­mo piuttosto essere sempre fiduciosi e pieni di gioia e di amore? Se così non è, significa che dentro di noi il peccato ha operato una vera e propria deflagrazione.

Certamente Dio non vuole lasciare i suoi figli in questa triste condizione e per questo ci offre, con l’incarnazione del Figlio e il suo sacrificio sulla croce, con il dono dello Spirito Santo, la possibilità di ricomporre in noi l’unità e di vivere, già fin da ora, l’unità con Dio, con i fratelli nella vera comunione, con noi stessi nella sua pace. Gesù infatti ha detto: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27). Non quella del mondo, che dura pochi minuti, ma quella di Dio, che è indistruttibile.

Il peccato, dividendoci da tutto, opera la morte. Un ramo staccato dal tronco muore, un dito staccato dalla mano perde vitalità e si decompone, un uomo che si separa volontariamente dalla Vita muore. Parliamo della morte vera, quella dell’anima. L’anima separata da Dio è già morta. Non ci illuda l’aspetto esteriore, che può essere florido. Anche se uno avesse tutte le ricchezze del mondo ma in sé porta un’anima staccata da Dio, che è vita, è già morto. La morte fisica poi non farà che evidenziare, se rimane così anche al momento dell’ultimo respiro, lo stato in cui si trova: la separazione definitiva da Dio si chiama Inferno. Più morte di così...

Il peccato che porta alla morte, detto peccato mortale, è quello che ha per oggetto una materia grave, che è commesso in piena avvertenza e con deliberato consenso. Piena avvertenza significa che si ha la consapevolezza che l’azione sia illecita; il deliberato consenso è la volontà che sceglie intenzionalmente di compiere un’azione peccaminosa: so che quello che faccio è male, so che è grave, voglio farlo lo stesso, lo faccio. Va da sé che il peccato mortale non è poi così semplice da commettere: ci vogliono tutte e tre le condizioni contemporaneamente. Ma non chiediamoci tanto se sia semplice o difficile: il solo fatto che possiamo vivere la condizione terribile della separazione da Dio deve farci tremare. Non dobbiamo nemmeno scherzare sul peccato cosiddetto veniale: esso comporta un disordine, anche se non conduce alla perdita totale della grazia di Dio; non è qualcosa di trascurabile o di poca importanza, perché indebolisce la carità, manifesta un affetto disordinato per i beni creati, ostacola i progressi nell'esercizio delle virtù. Ogni peccato, mortale o veniale che sia, ha una ricaduta nella vita di tutti, si ripercuote negativamente e misteriosamente nella vita dell'umanità, perché vi è una solidarietà umana, sia nel bene che nel male. Noi uomini siamo come dei vasi comunicanti; è per questo motivo che il peccato di uno ha effetto su tutti, come è anche vero che la virtù di uno solo innalza il mondo. Per via di questa comunicazione è anche possibile "riparare", con le buone opere, non solo i peccati nostri ma anche quelli degli altri. Ma di questo parleremo nei prossimi capitoli. 

Don Dolindo Ruotolo e la metropolitana 

Da pochi giorni si era inaugurata a Napoli la metropolitana e grandi cartelloni con su disegnato un teschio segnalavano un "pericolo di morte"; sulla ter-za rotaia correva una corrente di alta tensione: vietato, dunque, attraversare i binari! Don Dolindo, interessato sempre a calare nella realtà della vita le verità della fede, si affrettò a visitare la stazione di piazza Cavour e scese giù, ai treni. Si fermò un attimo a osservare i cartelli su indicati e incominciò ad attraversare i binari. Un urlo dalla folla che sostava in attesa: «Padre è proibito! C'è pericolo di morte! Padre, tornate indietro!». Don Dolindo si fermò e calmo calmo disse: «Pericolo di morte? Io non ci credo». E fece per procedere oltre. Qualcuno corse a fermarlo. Tornato indietro, alla folla che si era formata in-torno a lui, don Dolindo col sorriso incominciò a dire: «E perché, quando la Chiesa vi dice: questo non dovete farlo, c'è pericolo per l'anima vostra, perché voi non ci credete? E violate la legge di Dio, non ascoltate la voce del Signore che vi dice: "Figlio mio, tu muori se fai questo, figlio mio non farlo! Tu puoi morirne per l'eternità!". Perché allora?». E la folla capì perché don Dolindo aveva finto di voler andare incontro alla terza rotaia. 

San Luigi Orione e la Confessione nella neve 

È uno dei più famosi episodi della vita di don Orione predicatore. Lo raccontò egli stesso più volte: «La misericordia di Dio è più grande del cielo, è più grande del mare; la misericordia di Dio è più grande dei nostri peccati. Tanti anni fa, predicavo le missioni a Castelnuovo Scrivia (AL). Era arrivata l'ultima sera di predicazione, che finiva per la festa dell'Immacolata. Avevo parlato, quella sera, della Confessione: la chiesa, che è più grande del duomo di Tortona, lunga uguale ma più larga, era piena: tutta una testa. Durante la predica, non so neppur io come, o senza che me ne fossi accorto, perché non avevo mai pensato a una simile cosa, mi uscì un'espressione sulla quale non avevo prima riflettuto. Dissi: "Se anche qualcuno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre e l'avesse così fatta morire, se è veramente pentito e se ne confessa, Dio, nella sua infinita misericordia, è disposto a perdonargli il suo peccato". Finita la predica, mi fermai a confessare fino a mezzanotte; poi andai in sacrestia e là c'era altra gente che voleva confessarsi; c'erano altri confessori, ma tutti volevano confessarsi da me, sapevano che avevo la manica larga... e poi perché tanti amano confessarsi da un forestiero: dal parroco o dal curato, che li conoscono, non vanno a dire certi peccati. Dovevo tornare a Tortona perché avevo da insegnare, da far scuola. Benché stanco, mi avviai sulla strada che da Castelnuovo Scrivia viene a Tortona. 

Il tempo era pessimo: si era d'inverno e all'intorno tutto era coperto di neve, la neve era alta, anzi nevicava. Io m'incamminai, a piedi, si capisce... a quell'ora non c'era più il tram; e io del resto facevo spesso quei nove-dieci chilometri a piedi. Avvolto nel mio mantello, uscii dal paese senza che si vedesse anima viva: erano tutti a letto, era notte fonda, ero solo sulla strada. Ed ecco che, fuori dal paese, vedo muoversi davanti a me un'ombra nera, che si avvicinava verso il mio sentiero, da in mezzo al bianco della neve. Era l'una dopo la mezzanotte. Era un uomo ammantellato, avvolto in un tabarro, con il cappello calcato sulla testa: camminava anche lui verso Tortona, ma in un modo che sembrava aspettasse qualcuno. Ogni tanto si voltava indietro e mi accorsi che l'aspettato ero io. Qualche momento dopo mi sentii chiamare; mi voltai e quello disse: "Reverendo, vorrei dirle una parola". "Siete anche voi di viaggio, brav'uomo? Andate a Tortona?", dissi subito anch'io. "Veramente no". "Allora aspettate qualcuno forse? Avete forse bisogno di qualche cosa?". "Veramente sì". Aveva detto due volte "veramente". Veramente no, veramente sì. "Ci siamo", pensai. "Senta — mi disse finalmente — lei è don Orione? È lei il predicatore? Quello che ha predicato in chiesa stasera?". "Sì, brav'uomo...". L'avevo chiamato, capite, per la seconda volta, brav'uomo. Egli continuò: "Io ho sentito la sua ultima predica: lei questa sera ha detto una parola...". "Che parola?". "Lei stasera ha parlato della Confessione, della misericordia di Dio". "Sì". "Ecco, vorrei sapere se quello che ha detto questa sera è proprio vero". "Ma sicuro! Credo di non aver detto nulla che non si trovi nel Vangelo. Io ho detto che il sacramento della Confessione è stato istituito da Gesù Cristo; che dopo la sua risurrezione ha soffiato sugli Apostoli dicendo: Ricevete lo Spirito Santo, a coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi" (cfr. Gv 20,22b-23). Io pensavo che egli volesse sapere se fosse vero che la Confessione è stata istituita da nostro Signore. "No, questo; non è questo che voglio sapere". "Che cosa allora?". "Io ero alla predica... Ma lei crede proprio a quello che predica, che ha detto?". "Quello che predico — risposi — lo credo e, se non lo credessi, non lo predicherei". "Vorrei sapere — insistette l'altro —se è proprio vero che, se anche uno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre, potrebbe essere ancora perdonato del suo grande peccato". Non mi ricordavo proprio di aver detto quelle parole, tuttavia gli dissi: "Ma sì che è vero! Basta che sia veramente pentito, domandi perdono al Signore e si confessi; qualunque peccato, per quanto grosso sia, sarà per-donato; se è pentito, ci sarebbe per lui misericordia e perdono". "Allora — disse — io sono proprio quello che ha messo il veleno nella scodella di sua madre: vi era discordia fra mia moglie e mia madre, e io ho ucciso mia madre... Posso ottenere perdono?". E si mise a piangere. Mi raccontò la sua storia, poi mi si gettò ai pie-di: "Padre, mi confessi, mi confessi: io sono proprio quello della scodella". Poi soggiunse: "Da quel momento non ho avuto più pace. Sono tanti anni...". Pensate che quell'uomo aveva potuto portare sempre con sé il suo terribile segreto; la giustizia umana nulla sapeva; nessuno aveva mai dubitato di nulla su di lui, ma il rimorso c'era... Era già di età. Quanto dico me lo disse fuori di Confessione: nessuno potrà mai individuare quella persona, che credo sarà morta. "Ebbene — gli dissi subito, confortandolo — per l'autorità ricevuta da Dio, io vi posso rimettere questo peccato. È tanto tempo che non vi confessate?". "Da allora non mi sono più confessato". "Venite qua". Mi avvicinai a un paracarro, levai il cappello di neve che c'era sopra: anche per terra spazzai un po' di neve e dissi sedendomi sul paracarro: "Venite qua, confessate tutte le vostre colpe dall'età della ragione fino ad ora, confessate anche quel peccato di aver messo il veleno nella scodella di vostra madre". Si inginocchiò e poi si confessò piangendo e gli diedi l'assoluzione; poi si alzò e mi abbracciava e stringeva, sempre piangendo e non sapeva staccarsi da me, tanta era la consolazione da cui era inondato... Anch'io piansi e lo baciai in fronte e le mie lacrime si confondevano con le sue. Volle accompagnarmi fino quasi a Tortona e, solo per le mie insistenze, tornò finalmente indietro, e io continuai la mia strada con una grande consolazione, con una gioia nel cuore che mai uguale provai nella mia vita. Io non so di dove fosse, se del paese o delle cascine; veniva alla predica molta gente anche dalle cascine. Di lui non seppi più nulla. Arrivai a Tortona tutto bagnato; quella notte mi levai le scarpe e mi gettai sul letto, e sognai. Che cosa sognai? Sognai il Cuore di Gesù Cristo; sentii il Cuore di Dio, quanto è grande la misericordia di Dio». 

padre Serafino Tognetti – Tratto dal libro “Dio perdona sempre – Il sacramento della riconciliazione” - Edizione Shalom da pag.37 a pag.63



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