P.
Giovanni Mariano Garcia Mendez nasce il 25 settembre 1891 a S.
Esteban de los Patos; villaggio umile e ridente, a pochi chilometri
da Avila. Suoi genitori sono due contadini: Mariano Garcia Hernandez
ed Emeteria Mendez Grande.
Al
fonte battesimale, sul crepuscolo del 27 settembre, al nome Mariano
sono aggiunti altri nomi dal suo parroco don Generoso Gutierrez. Ma
saranno più numerosi i fratelli e le sorelle che lo seguono:
quattordici. Riceve la Cresima quando ancora balbetta e incerto
cammina per la casa. Ha appena un anno e mezzo il 3 aprile 1893
quando mons. Munoz Herrera, vescovo di Avila lo unge con il sacro
Crisma. Ricevere un sacramento è sempre una festa, una gioia
dell’anima e questo vogliono donare al piccolo Mariano i suoi
genitori; accade spesso in questi tempi specie nelle famiglie
profondamente cristiane.
Riceve
la prima comunione a sette anni. Avviene un capovolgimento della sua
vita. Almeno così dicono i suoi fratelli: “La prima comunione lo
trasformò completamente. Fino allora aveva giocato con noi e con gli
altri ragazzi; dopo la prima comunione la sua allegria si trasformò
in accoglimento". Giunge anche presto per lui il tempo di
rendersi utile alla famiglia e di partecipare al lavoro dei campi.
Riesce bene; ma riesce bene anche come organizzatore di processioni
mariane, che lui bambino e i suoi coetanei snodano per le vie del
paese. Spesso lo si trova in chiesa solo soletto in preghiera ai
piedi della Madonna.
La
nonna materna è incaricata della pulizia della chiesa e desidera
sempre fiori freschi per adornare l’altare e lui, Mariano, ha una
scusa per prendere la chiave, aprire la chiesa, portare i fiori alla
Madonna per poi fermarsi a pregare.
Mariano
ha undici anni quando tutti i giorni percorre i tre chilometri di
strada per raggiungere Mingorria e prepararsi agli esami di
ammissione in seminario.
L’entrata
di Mariano in seminario non sorprende nessuno a S. Esteban, ma
certamente papà e mamma hanno il cuore pieno di gioia: un figlio
sacerdote è una grande grazia di Dio, ma è anche vero che la sua
partenza costituisce per loro un reale sacrificio. Entrato in
seminario si dedica allo studio, specie del latino. Riesce bene.
Il
suo professore di filosofia, don Giovanni Sanchez Mufioz attesta:
“Nessuno
mai avrebbe potuto sospettare quanto profonda fosse la sua conoscenza
della filosofia attraverso quella sua natura umile e riservata. Era
tutto per Dio e per la scienza“.
Scienza
e fede.
“La
sua pietà era solida e fervente, la sua austerità e il suo spirito
di sacrificio orientati verso la carità con tutti. Parlava
frequentemente della Madonna. Varie volte al giorno fuggiva in chiesa
per far visita al santissimo Sacramento... “.
È
questa la testimonianza di mons. Aniceto Gomez, teologo della
cattedra di Jaen.
Due
episodi durante la sua vita di seminarista ci mostrano come anch’egli
ebbe le sue difficoltà.
Sono
trascorsi già tre anni di seminario e il papà si ammala seriamente.
I reumatismi lo inchiodano curvo su una sedia o a letto; mamma
Emeteria ha assolutamente bisogno di aiuto. Si arriva alla
conclusione, la più penosa per tutti: il ritiro di Mariano dal
seminario. Per consolare i suoi che sono rammaricati non sta a
tergiversare, subito si reca nei campi e si dà ad accudire gli
animali, a sbrigare quanto è necessario.
Trascorrono
due mesi e il papà ristabilitosi può riprendere i suoi impegni di
contadino. Mariano chiede e ottiene di ritornare in seminario.
Riprende
la sua vita ordinaria, ma nella preghiera, nella sua direzione
spirituale comincia a farsi forte in lui la convinzione della
chiamata alla vita consacrata. I superiori danno il loro consenso e
lo aiutano in questa decisione.
Con
l’approvazione del suo vescovo, il consenso del suo direttore
spirituale lascia il seminario e si reca ad Avila nel convento di S.
Tommaso dei Padri Domenicani.
Deve
lasciare il noviziato. Al noviziato, Mariano passa un anno di
continue sofferenze fisiche. Gli duole il capo, lo stomaco gli si
ribella, la gola si secca. Un’afonia inspiegabile gli impedisce di
partecipare attivamente al coro.
Alla
fine si convince e i superiori glielo dichiarano: Dio non lo vuole
nell’ Ordine dei Domenicani. Ritorna a casa e rivolge i suoi passi
ancora una volta verso il seminario. Dio sostiene il giovane nella
prova e dispone gli animi, ancora buoni, verso di lui. Riprende i
suoi studi e si prepara alla sacra ordinazione.
E
consacrato sacerdote nella chiesa del Santo Salvatore il 18 marzo
1916 da mons. Gioacchino Beltran Asensio.
Il
25 marzo sul campanile della chiesa di S. Esteban sventola una
bandiera bianca e suonano a festa le campane; sono segni della gioia
che anima il paese, don Mariano celebra la sua prima Messa.
Per
alcuni mesi don Mariano rimane a S. Esteban, ma deve recarsi ogni
mese a Madrid; deve andarci per compiere il suo dovere di soldato. Ne
era stato dispensato al tempo degli studi, ma ora non può più
esimersi.
A
Madrid don Mariano frequenta il convento delle Suore Riparatrici e
qui conosce Madre Gesuina del Gran Poder. La religiosa rimane colpita
dalla spiritualità e dalla delicatezza del giovane sacerdote e viene
a conoscenza del desiderio sempre esistente della vita consacrata.
Alla
casa di don Mariano si può sempre bussare, sicuri di un aiuto.
Quante volte la sorella Giovanna e la nonna Gioacchina, che vivono
con lui constatano che ha donato il pranzo al mendico e che mancano
spesso indumenti, coperte... A loro insaputa, sono usciti di casa in
mano ai bisognosi. Perché don Mariano, naturalmente, non chiede loro
il permesso per fare la carità.
La
carità è il contrassegno che lo distingue in tutti gli anni e in
tutti i luoghi in cui ha dovuto esplicare la sua missione
sacerdotale.
La
carità unita a uno zelo divorante.
Mons.
vescovo osserva, approva. Gli vuole sempre bene. Ora che lo vede
santamente impegnato per la cura delle anime ritiene opportuno
affidargli un’altra parrocchia insieme alle due che ha. Il 23
febbraio 1918 lo nomina vicario economo di S. Giovanni di Encinilla.
La nuova parrocchia consta di due chiese, S. Giovanni Battista e S.
Antonio di Padova, site in due quartieri a loro volta divisi da un
vallone.
Ecco
la testimonianza di una sua parrocchiana, Filomena Ortiz:
“Era
di una carità immensa; gelosissimo delle anime nostre. Di notte e di
giorno, a tutte le ore, era sempre pronto a correre al letto dei
malati, comunque si presentasse il tempo.
A
Encinilla organizzò la visita della Madonna miracolosa alle singole
famiglie. Nelle case in cui la Madonna entrava per la prima volta,
imponeva a tutti la medaglia miracolosa “.
E
quando una sua sorella gli dice:
—“Don
Mariano, tu non ti risparmi mai. Dovresti un pochino riguardarti,
moderare un po’ il tuo zelo”;
si
sente rispondere:
— “O
sorella, sorella, le obbligazioni di un prete non finiscono mai”.
La
sorella parla così perché sa che invariabilmente si alza all’una
di notte per recarsi in chiesa a pregare, e al ritorno usa di
frequente la disciplina per martirizzare il suo corpo. Alle tre è
già in piedi di nuovo per la prima messa e la santa comunione ai
fedeli che devono lasciare il villaggio per il campo lontano, specie
ai tempi dei raccolti e di maggior lavoro.
Nell’archivio
della Curia di Avila le tappe del ministero di don Mariano Mendez
sono così schematizzate:
“Fu
successivamente, economo di Hernan-Sancho e di Villanueva Gòmez,
economo a S. Juan de la Encinilla, economo di S. Tomé de Zabarcos e
di Sotillo de las Palomas”
La
salute lo costringe a lasciare S. Juan de la Encinilla per assumere
nel settembre del 1921 la Cappellania del noviziato di S. Giuseppe
dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Nanclares de Oca (Alava).
In
questo istituto vi rimane solo undici mesi come cappellano; il 17
maggio 1922 ottiene il permesso di entrare a far parte dell’Ordine
dei Carmelitani Scalzi. Il 19 giugno il convento di
Larraca-Amorebeita gli apre le porte. Diviene p. fra Giovanni Garcia
Mendez di S. Stefano.
Ma
ancora una volta la salute gli impone di ritornare, dopo un anno, il
solo don Mariano di prima.
Sarebbe
stato un ottimo Domenicano e un perfetto Carmelitano se avesse avuto
salute. Ma appena mette piede nel noviziato comincia a sentire forti
dolori allo stomaco, giramenti continui di capo, fiacchezza totale
nelle membra. Solo tutto questo costringe i Domenicani e i
carmelitani
a
lasciarlo uscire dai loro conventi. Vi sono obbligati e lo fanno a
malincuore.
Umile,
umile don Mariano è costretto a rivolgersi al suo vescovo. Tornato
in diocesi, torna la salute.
Il
14 luglio 1923 entra a S. Tomé de Zabarcos, economo di quella
parrocchia e della vicina Horcajeulos.
La
sosta di don Mariano a S. Tomé de Zabarcos è di circa un anno.
Nella sistemazione della diocesi monsignor vescovo lo destina alla
parrocchia di Sotillos de las Palomas.
A
Sotillo de las Palomas, don Mariano vive nella casa del signor Giusto
Morales.
Questi
dice di saper tutto della vita del sacerdote suo ospite.
Lo
chiama buon predicatore, mai stanco di stare in chiesa, uomo dalla
vita intessuta di sacrifici, dalla carità immensa che si priva del
suo per passarlo ai poveri e agli infermi.
Ma
la fatica e la carità più grande di don Mariano è quella di far
fiorire nella sua parrocchia l’apostolato della preghiera. Del suo
apostolato, questa è una delle iniziative più belle compiute a
Sotillo de las Palomas.
Più
belle e più care al cuore di don Mariano.
È
Madre Gesuina del Gran Poder, superiora delle Suore Riparatrici, a
Madrid a scrivere a don Mariano e a parlargli dei Sacerdoti del S.
Cuore; nuova Congregazione fondata da un sacerdote francese, p.
Giovanni Leone Dehon. Aveva parlato di don Mariano ai “padri
missionari del Camerun”, quando essi nella quaresima del 1924 si
erano recati a Madrid per una missione straordinaria alla colonia
tedesca di quella città.
Infatti,
i primi Sacerdoti del S. Cuore in Spagna sono i padri missionari
tedeschi del Camerun.
La
prima guerra mondiale aveva portato le armi fin laggiù, in
quell’angolo dell’Africa allora colonia dell’impero germanico.
La
guerra causa la totale rovina della missione e la fuga dei padri ...
tedeschi.
I
missionari si rifugiano nell’isola Fernando Poo prima, e poi in
Spagna a Cadice, poi salgono a Puente la Reina, nella Navarra.
V’è
lassù un antico monastero in abbandono dell’Ordine di Malta; viene
offerto ai reduci del Camerun, lieti della nuova missione che la
Provvidenza affida alle loro cure.
E'
proprio Puente la Reina, come si suol dire, la culla dei Sacerdoti
del S. Cuore in Spagna, poi Novelda 1920.
La
lettera di Madre Gesuina coglie di sorpresa don Mariano, ma lo
riempie di gioia.
Scrive
a p. Guglielmo Zicke, superiore dei Sacerdoti del S. Cuore, questi
risponde.
La
corrispondenza continua; ma un giorno don Mariano decide di andare di
persona a Puente la Reina per chiarire a viva voce la sua posizione e
rimuovere di comune accordo gli ostacoli.
“Questa
sarà la mia Congregazione. Voglio che mi si consideri da questo
momento come membro della Comunità. Sono disposto a lavorare anche
come semplice operaio alla ricostruzione di questo convento che per
quanto in rovina, serve tuttavia per dare un riparo. In seguito, Dio
vedrà “.
Nella
comunità, sorpresa e ammirata, hanno fatto epoca queste sue parole.
Il
vescovo dà ancora una volta il suo consenso e don Mariano va dai
suoi a S. Esteban de los Patos per dire addio alla madre, ai
fratelli, alla sorella.
P.
Giuseppe Goebles lo accoglie a Novelda nel noviziato.
Il
16 luglio 1925 è postulante.
Scrive:
“Consacro
al mio Signore Gesù Cristo Crocifisso, al Suo Cuore agonizzante, per
il dolorosissimo Cuore di Maria, tutto il mio essere, la mia anima,
le mie parole, i miei sentimenti, specialmente l’udito, la vista,
la lingua, per non servirmene che per la gloria di Dio, in spirito di
riparazione".
Tre
mesi dopo è novizio. È consuetudine tra i Sacerdoti del S. Cuore
scegliersi un nome nuovo nell’entrare nella vita consacrata. Don
Mariano sceglie Giovanni della Croce.
Giovanni
Maria Garcia sarà d’ora innanzi la sua firma abituale. Al
noviziato p. Giovanni Garcia è edificante, pone nelle cose tutta la
sua anima ardente, tutto il fuoco del suo essere, senza risparmiarsi.
La passione di Dio gli fa dimenticare la fragilità della sua carne.
Ma
questa sta per giocargli un’altra volta il suo tiro più birbone,
facendogli abbandonare quest’altro tentativo, e forse l’ultimo
della sua aspirazione alla vita consacrata.
P.
Garcia si rivolge a Dio e lo scongiura di dargli qualche anno di vita
per la sua gloria.
Il
16 gennaio 1926 scrive:
“Giorno
di gratitudine, giorno memorabile. Grazie, mio Dio... Perdona la mia
pessima corrispondenza, Signore. Se non è orgoglio, se non è
presunzione, se a te piace, Dio dell’anima mia, se è conforme al
tuo beneplacito e alla tua gloria, concedimi almeno dieci anni di
vita per lavorare con vivo interesse e zelo per la tua gloria alla
salvezza delle anime.
Purifica
sempre di più la mia intenzione e i miei affetti.., O Maria, mia
dolce madre, a te raccomando questo mio desiderio. Aiutami!”.
La
preghiera ottiene la vittoria. La salute non impedirà più a p.
Garcia di proseguire per la sua strada, ch’è la strada
segnalatagli da Dio.
Alla
vigilia della sua professione religiosa, nel ritiro di preparazione,
esprime il suo proposito di vivere con Dio e per Dio con queste
parole:
“Adotterò
d’ora innanzi come linea di condotta il «Sì» per Dio, il «No»
per me.
A
quanto Dio mi comanda, risponderò: Sì, mio Dio!
A
quanto Dio mi insegna, risponderò.’ Sì, mio Dio!
A
quanto Dio mi ispira, risponderò: Sì, mio Dio!
Un
Sì pratico ed effettivo!
Al
contrario risponderò un «No» risoluto al mio amor proprio, alla
mia vanità, alla mia superbia, alla mia sensualità: l’io è
nemico di Dio!”.
È
la festa Cristo Re (1926): P. Giovanni Maria Garcia emette la sua
prima professione religiosa.
Riceve
per l’occasione una crocetta nuda con un cuore d’argento.
campeggiante nelle piccole traverse.
Dopo
la professione religiosa, la sua vita di religioso, oggi diremmo “di
dehoniano”, continua a svolgersi in mansioni differenti che
rivelano in p. Garcia sempre il sacerdote.
Rimane
per due anni a Novelda come cappellano nella chiesa dell’Istituto e
insegnante di religione al collegio.
La
stessa cosa farà, in forma un po’ diversa, a Puente la Reina:
contatto col popolo, contatto con i giovani. Farà del ministero in
mezzo al popolo e impegnerà il suo cuore e le sue energie per i
giovani.
Il
popolo lo definirà il predicatore dell’amore di Dio.
Forza
di tutto è la sua pietà, quel suo spirito ardente, quella sete di
Dio trasparente e mai completamente soddisfatta.
I
superiori gli concedono di fare un viaggio in Italia.
I
Sacerdoti del S. Cuore hanno qui la Scuola Apostolica ad Albino, il
Noviziato ad Albisola, lo Studentato per i giovani teologi a Bologna.
Tre opere conosciute e volute dal Fondatore p. Leone Giovanni Dehon.
Ma
la meta più ambita è Roma. Roma tanto cara allo stesso Fondatore.
Roma
incanta p. Garcia.
“Lo
impressionarono in S. Pietro in Vincoli, le catene che avvinsero il
Principe degli Apostoli; nelle catacombe di S. Callista, il sepolcro
di S. Cecilia. Lì si fermò a lungo “.
A
detta dei testimoni p. Drissen e p. Brawnsiepe, p. Garcia si
inginocchia e non stacca più il suo sguardo da quella tomba, lì
dentro c’è il corpo della Martire. Nel mormorio delle sue labbra
che accompagna la sua ammirazione per la vergine martire si ode
ripetere a lungo: “Questo mi interessa, questa è fede!”.
I
confratelli sollecitano la partenza e a mala pena riescono a
smuoverlo. Tutto lo attrae nelle catacombe e ogni particolare lo
interessa.
Si
esce per andare a S. Paolo alle Tre Fontane, p. Garcia chiede scusa e
rientra nella catacomba. Lo si attende a lungo, quando esce il suo
viso è luminoso e i due confratelli, che lo attendono, lo sentono
esclamare:
"Mio
Dio che grazia grande il martirio!Quanti martiri e quanta gloria per
la Chiesa! “.
Prima
di lasciare Roma vuole fare gli Esercizi spirituali. Torna in Spagna;
parla di Roma e di quanto ha visto; ma il suo ricordo più vivo, più
coinvolgente sono le catacombe e la vergine martire Cecilia.
“Questa
sarà la mia Congregazione. Voglio che mi si consideri da questo
momento come membro della Comunità. Sono disposto a lavorare anche
come semplice operaio alla ricostruzione di questo convento... “,
così si era espresso nel suo primo incontro con i confratelli.
Ora
i superiori gli fanno presente che hanno bisogno di lui, vedono in
lui colui che è destinato ad essere la provvidenza dei giovani, di
quei giovani che Dio chiama a consacrare a Lui la propria vita. Deve,
quindi, mettersi in cammino e sollecitare dai buoni il pane per loro.
P.
Garcia si mette subito in cammino.
Se
ricordiamo e pensiamo al suo desiderio della vita consacrata più
volte manifestato e cercato di conseguire, ritorna a noi difficile
vedere in lui l’uomo che scende per le strade, passa per le vie
delle città in cerca di qualcosa che possa servire a mantenere i
suoi giovani “apostolini” o “aspiranti” di Puente la Reina.
Eppure
p. Giovanni Garcia ci riesce ed è proprio quella sua aria umile,
cortese e pia ad aprirgli maggiormente le porte.
Ma
sempre facile non è; giornate vuote le incontra anche lui. Ma la
Provvidenza, la sua fiducia in Maria, madre vigile e sollecita lo
aiutano.
P.
Giovanni è in compagnia di uno studente di Puente la Reina. E’
stata questa una giornata nera; le porte delle case sono rimaste
chiuse o sorde alla loro domanda di aiuto.
“Prima
di bussare” — dice p. Giovanni al giovane, testimone di quanto
narriamo “recitiamo una Salve Regina alla Madonna perché almeno
in questa casa siamo accolti e ascoltati”.
Bussano
e la porta viene aperta immediatamente.
Una
signora li invita ad entrare: “Vengano, entrino; si riposino un
istante.”
— Signora,
siamo venuti per chiedere un’ offerta per i ragazzi della Scuola
Apostolica di Puente la Reina che versano in gravi necessità".
La
signora, senza dire una parola, entra nei suoi appartamenti, ritorna
poco dopo con una offerta abbondante. P. Giovanni è confuso, nelle
sue mani la signora depone alcune centinaia di pesetas.
— "Tutto
sia per il Signore, padre. La Vergine santissima ha ascoltato la
vostra Salve Regina, e immediatamente ha fatto luce nel mio cuore.
Dovevo aprire e ricompensare la vostra preghiera".
Non
meno sorprendente quanto successo al signor Santiago Ferrer di
Pamplona.
Gennaio
1934, p. Giovanni bussa alla porta del signor Ferrer per chiedere il
suo aiuto.
Il
signor Ferrer sta radendosi e la sua mente, i suoi pensieri sono là
in ospedale, dove la sua bimba giace gravemente ammalata; alla
domestica, che gli annuncia la visita del padre sta per far dire di
tornare un altro giorno. Ma p. Giovanni, data la dimestichezza con la
famiglia Ferrer, è già dentro.
— "La
mia piccola di due anni ha la gola che la soffoca; perdoni, padre,
devo correre in ospedale".
— "Non
si preoccupi e non si dia pena. Ho con me questa medaglia miracolosa
la pongo al collo della piccola, migliorerà".
Il
signor Ferrer fa presente la proibizione assoluta del medico di
disturbare la bimba. Gradisce la preghiera, ma alla bambina non si
può recare alcun fastidio.
— "Non
è la stessa cosa, ma pregherò per la sua bimba".
P.
Giovanni esce di casa e si incammina pregando. All’improvviso si
sente chiamare:
— "Padre
Giovanni, venga con me all’ospedale".
Appena
giunti, il padre si reca in cappella; il dottor Juaristi s’avvede
del signor Ferrer e ancora una volta raccomanda di non recare il
minimo disturbo alla piccola.
P.
Giovanni scende dalla cappella rivestito di cotta e stola.
— "Per
carità, padre, non entri. Il dottore lo vieta".
Ma
p. Giovanni è già al capezzale della bimba. La sveglia con una
carezza e le dice con dolcezza, quasi che potesse comprenderlo:
— "Sono
venuto ad importi la medaglia della Madonna. Ella ti guarirà e tu
potrai tornare a giocare".
Comincia
a pregare.
E'
circa mezzogiorno. La piccola inferma, dopo essere stata benedetta
dal padre, entra in un sonno tranquillo e riposante.
Alle
quattro del pomeriggio apre gli occhi senza difficoltà, vede la
medaglia appesa al suo collo, la prènde e la bacia.
E’
presente il dottor Juansti.
Resta
attonito: “Questo è un miracolo. Non capisco. Pare impossibile che
abbia dormito con tanta tranquillità e non abbia fatto uscire il
tubo dalla gola”.
Il
giorno dopo la bimba lascia l’ospedale. E’ guarita. Ecco la
deposizione lasciata dal signor Ferrer.
“La
mia figlioletta contrasse una laringite, da principio piuttosto
leggera. Ma con i giorni si aggravò destando preoccupazioni e
ansietà. La bimba non dormiva, non riposava, si agitava
continuamente. Chiedemmo un consulto io e mia moglie. La sentenza fu
terribile: tracheotomia. Bisognava operarla.
Fummo
costretti a portarla alla clinica e affidarla al dottor Juaristi,
specialista. Il giorno dopo un ‘altra sentenza ancora più
terribile: la piccola era veramente molto grave e aveva espulso il
tubo della respirazione. Dopo lo stato infiammatorio della gola,
rimetterlo significava una nuova espulsione e l’operazione.
Mentre
mi preparavo ad andare in clinica venne a trovarmi padre Giovanni
Garcia per una elemosina. Lo vedo ancora: secco, ascetico,
autoritario, assorto in pensieri suoi. Fece quello che il cuore e la
grazia gli dettavano. Impose la medaglia miracolosa, pregò e la mia
bimba guarì senza operazione, senza più cure”.
Inevitabile
che andando in giro, incontri e faccia amicizia con parroci e
sacerdoti e sia da questi invitato a predicare.
Il
padre accetta sempre e volentieri. Ha temi suoi sui quali ama
intrattenere l’uditorio: l’amore di Dio, la sua misericordia, la
devozione al Santissimo Sacramento, la pietà filiale verso la
Vergine santissima.
La
sua preoccupazione è l’adorazione perpetua; la divul ga per la
Navarra, il Vizcaya e il Guipuzcoa.
Il
tema delle vocazioni alla vita sacerdotale e consacrata è sempre
presente nella mente di p. Giovanni.
I
ragazzi che l’hanno conosciuto affermano che la sua messa era
lunga, molto lunga; ordinariamente vi impiegava tre quarti d’ora e
che qualcuno si stancava a stare in ginocchio.
Solo
più tardi divenuto più grande uno si rese conto del perché.
Quella
messa interminabile è celebrata da un infermo con sforzi di volontà,
sovente interrotta da dolori lancinanti ed è anche frutto di
meditazione e gusto spirituale.
Padre
Giovanni soffre di gastrite acuta. Quando gli arrivano quei giorni di
spasimo e si trova in comunità, la messa dura molto più a lungo. Se
gli capita fuori, mentre è alla ricerca di aiuti per i suoi
apostolini, allora nessuno sa quello che passa di sforzo e di
mortificazione per essere più che può normale. In casa tace, fuori
tace. I superiori sapranno molto vagamente che cosa il padre
nascondeva di mortificazione nel suo fisico.
Lui
poi, da parte sua, è convinto che i dieci anni sarebbero stati
dieci. E allora perché allarmarsi e allarmare?
Il
fatto che la gastrite mal si confà con l’impegno di questuante,
non è motivo di muovere lamenti o di cercare dispense o di rifiutare
a Dio quello che Dio, per mezzo dei suoi superiori, gli chiede.
“Mi
ritengo indegno di consacrare il Corpo di nostro Signore Gesù
Cristo”, sono parole dello stesso p. Giovanni.
Questa
sensazione vigorosa del proprio nulla di fronte a Dio e ai santi
Misteri, lo porta a una esattezza scrupolosa nella pronuncia delle
parole e nel compimento dei gesti richiesti dalla sacra liturgia
Tanto
tempo “deve” impiegare, anche, perché ogni volta che sale
all’altare, sente in sé un senso profondo di smarrimento.
“Nella
preghiera, nella comunione, ecc. cercherò con ogni sforzo di
ottenere il fervore, senza allarmarmi se la mia anima è arida e
affidarmi a Dio. L’amor di Dio è la vera felicità delle anime e
non la si può ottenere senza costanza nell’orazione. Dio a volte
lo fa attendere, ma la perseveranza nella domanda ha infallibilmente
la sua risposta “.
Quel
suo amore per Dio costante e focoso si traduce pure nelle piccole
attenzioni per gli oggetti di pietà, immagini o altro, che non può
vedere abbandonate per terra o esposte a sgualcimenti o a strapazzo.
Salvo
l’atto eroico di questuare per dieci anni, la carità di p. Garcia
è fatta di atti semplici, di cose che potremmo definire “da
nulla”, ma rivelatori di un amore grande, di un animo buono e pieno
di compassione.
Sempre
pronto a venire incontro ai desideri degli apostolini, è disposto a
sacrificare del suo, dicendo che non ne ha bisogno.
Riportiamo
la testimonianza di Luigi Rodriguez.
“Sono
stato domestico a Puente la Reina tra gli anni 1933 e 1936.
Il
mio primo incontro con p. Giovanni avviene alla stazione di Pamplona.
Ero un ragazzo di 17 anni a quel tempo, confuso per trovarmi la prima
volta in terra sconosciuta. Il padre mi è venuto incontro con tanta
umile affettuosità che mi diede coraggio e tranquillità.
Ma
era così semplice il portamento che l’ho preso per un fratello
coadiutore.
Mi
ha portato al ristorante per il pranzo, abbiamo parlato di tante
cose, ma per quanto parlassimo, la sua umile naturalezza non mi fece
indovinare di trovarmi di fronte a un sacerdote. Me ne accorsi il
giorno dopo quando fui invitato a servirgli la messa.
Passato
un certo tempo a Puente, mi chiese la causa del difetto fisico che mi
affliggeva. Gliela dissi: una sorta di rachitismo alla gamba destra.
E
lui: «Come ti invidio, Luigi. Per questa tua sofferenza tu hai
percorso la metà del tuo cammino verso il cielo. Rallegrati per
questa croce».
Una
notte d’inverno, me lo vidi venire in stanza.
Soffrivo
moltissimo per il freddo. Lui lo ha saputo, non so come, e mi ha
portato lo scaldino che lui usava, per i suoi piedi frequentemente
gelati.
Me
lo diede e, per quanto mi rifiutavo di accettano, fu tanta la sua
insistenza e così calorosa, che ho dovuto prenderlo.
La
carità del padre era tanto grande! Sì, lo posso dire, era un uomo
che si privava del suo per fare contenti gli altri, per alleviarli da
qualunque sofferenza “.
Ecco
la testimonianza di un’altra anima semplice.
Una
povera mendica, dopo averlo ascoltato in chiesa parlare dell’amore
di Dio, gli si avvicina per comprare uno scapolare del S. Cuore
offrendo tutti i soldi che aveva raccolti di elemosina.
Glieli
porse in mano tutti, come la vedova del vangelo.
“Poveretta”,
esclama p. Giovanni “tenga, tenga tutto e che il Sacro Cuore la
benedica”.
Le
dona lo scapolare e le restituisce il denaro.
Così
padre Giovanni Mariano Garcia si prepara, con le piccole e grandi
cose della vita, al supremo impegno e offerta della sua stessa vita.
18
luglio 1936: doveva essere uno dei soliti colpi di mano, invece le
passioni degli animi trasformano il conflitto in una implacabile
guerra civile, che durerà tre anni e dilanierà la Spagna. La Chiesa
avrà le sue rovine, le sue devastazioni, i suoi martiri.
Nella
notte tra il 18 e 19 luglio 1936 nella sola Madrid vengono incendiate
cinquanta chiese.
Gli
schieramenti vedono da una parte i nazionalisti con Franco e Mola
Vidal, appoggiati dalla Germania e dall’ Italia, dall’altra i
repubblicani del governo di Madrid sostenuti dalla Russia, dalla
Francia, dall’Inghilterra.
Già
dal 12 aprile del 1931, quando le elezioni amministrative costrinsero
Alfonso XIII ad andare in esilio e nacque la Repubblica, l’odio
alla religione, già fatto serpeggiare largamente nel popolo, non
ebbe più freno.
Con
l’odio, tutto ciò che l’odio genera: calunnia, soprusi,
concussioni, rapimenti, omicidi.
Nelle
Asturie furono uccisi dai rivoluzionari rossi 855 contadini e altri
219 si ebbero nella repressione da parte delle forze dell’ordine.
La Chiesa dovette lamentare 34 membri assassinati e 58 chiese
distrutte.
E
questo in nove giorni di terrorismo dal 5 al 14 ottobre del 1934.
P.
Giovanni Garcia, in questi anni, è legato alla casa di Puente la
Reina.
Con
la questua non ha vita facile. La vita gli impone spesso giornate
senza pasti, lunghi tratti di strada fatti a piedi, sante messe
celebrate o troppo presto o troppo tardi.
L’appoggio
e l’aiuto degli uomini, chiesto con umiltà, non sempre viene
offerto. Spesso il rifiuto è condito con l’insulto. Qualche volta
è dato con paura.
Non
è meraviglia allora che quando p. Giovanni si presenta ad una porta,
un tempo amica, si trovi davanti una domestica o il padrone che gli
chiude la porta in faccia perché indossa una veste nera.
Un
giorno un giovanotto dà di mano a una pietra e gliela scaglia con
violenza contro, lo ferisce al viso. Tutto il volto gli diviene
fiamma, rosso come il sangue che gli sgorga dalla ferita. Ma, p.
Giovanni se ne sta tranquillo e neppure si volta a vedere da che
parte è partito quel sasso.
“Non
è necessario che sia un delinquente, si grida, basta che sia prete
per essere degno di morte”.
E’
l’ora delle tenebre.
A
Mirafuentes ricordano quella sua predica sul S. Cuore di Gesù dove
invita tutti a fare il proprio dovere di cattolici e a opporsi con
ogni vigore a ogni forma di violenza contro la Chiesa e la fede.
Dopo
quella predica è minacciato di morte..
Gli
si sussurra di stare attento perché a Oviedo nove religiosi dei
Fratelli delle Scuole Cristiane sono stati presi dal Comitato
Rivoluzionario e portati alla fucilazione.
Queste
cose, questa vita prostrano p. Giovanni. I superiori gli impongono un
periodo di riposo.
In
luglio è inviato, a Garaballa presso il santuario della Madonna di
Tejeda.
Gli
animi della popolazione di Garaballa hanno subìto gli influssi della
denigrazione. Erano orgogliosi un tempo i Garaballesi della loro
Madonna e del loro santuario. Lo frequentavano con devozione, ne
celebravano con sontuosità la festa.
Ora
una corona di spine e di rancore sembra circondare il santuario e i
sacerdoti che lo custodiscono.
La
sollevazione del 18 luglio esalta tutti gli anticlericali di Spagna.
A
Cuenca i rossi si dividono in pattuglie, plotoni e raggruppamenti.
Devono colpire i paesi di più antica tradizione cattolica, fare
scorrerie, seminare ovunque il panico.
Il
23 luglio organizzano la prima spedizione. Obiettivo Cardenete, un
paesino di 1800 abitanti. Deve essere una sorpresa invece, la
popolazione avvertita non si fa cogliere di sorpresa e gli assalitori
devono ritirarsi. Ma lo smacco è grande, quindi, ci vuole ora una
spedizione punitiva. Più numerosi giungono a Cardenete, hanno la
meglio. Ebbri di gioia si danno alla sfrenatezza. Decine di uomini
vengono caricati su gli automezzi e portati alle prigioni di Cuenca.
Tra i prigionieri l’anziano parroco. Si divertono con lui in modo
infame. Pedate, schiaffi e bastonate lo rendono irriconoscibile.
Entra a Cuenca che è un mostro sanguinolento. Finisce egualmente in
prigione.
Cuenca
stessa è rastrellata, ci si mette a scovare con ostinazione e
ferocia quanti si suppone abbiano capacità di opporsi ai senzadio.
Anche
il santuario di Garaballa e la comunità dei Sacerdoti del S. Cuore
non sono sicuri.
Il
superiore, p. Lorenzo Cantò conviene che è meglio disperdersi, che
i ragazzi tornino presso le loro famiglie. Rimarrà lui con un
fratello cooperatore.
Si
raccomandano tutti alle Vergine santissima e si separano.
P.
Giovanni Garcia è accompagnato da un giovane studente, ma dopo un
tratto di strada i due si dividono.
P.
Giovanni indossa una giacca nera larga e usata, un paio di pantaloni
che non sarebbero dispiaciuti a un clown, un panciotto che si poteva
abbottonare a metà.
Nelle
pieghe del suo abbigliamento nasconde la sua croce di professione, il
breviario e un quadernetto di appunti.
Così
acconciato da contadino, si dirige verso Valenza; aspetta che passa
da Garaballa la corriera di linea. Eccola, è piena di gente; il
padre sale e trova posto in un angolo e si raccoglie in preghiera.
Se
qualcuno avesse guardato un pochino solo attentamente quello strano
passeggero, si sarebbe accorto che non può essere un contadino.
La
corriera giunge a Utel. E' il paese più grosso e più importante
della zona. Da Utel passa la ferrovia che congiunge la provincia alla
città.
La
stazione di Utd è l’immagine di una piccola bolgia dantesca.
Schiamazzi, urla, richiami volano da un binario all’altro, da una
banchina all’altra. Finalmente il treno. Già pieno, porta molti
miliziani chiamati a Valenza per fare della città una roccaforte
rossa. Si presume che il generale Franco, venendo dal Marocco,
sarebbe sbarcato alle isole Baleari di fronte a Valenza.
P.
Giovanni sale sul treno e si siede. Non è difficile trovare un posto
perché molti passeggeri amano stare ammucchiati ai finestrini,
salutare con il pugno chiuso le persone che si incontrano lungo i
binari o parlarsi da finestrino a finestrino.
Più
ci si avvicina a Valenza e più cresce la baldanza e si moltiplicano
i segni e i resti delle varie deturpazioni.
Non
sono solo i treni a portare sempre nuovi miliziani a Valenza;
arrivano autocarri da ogni parte e a ogni incontro si ripete la
sarabanda dell’ateismo militante.
Quando
il treno si ferma a Valenza sono le due del pomeriggio. I viaggiatori
escono dalla stazione sotto gli occhi vigili delle guardie
ferroviarie.
P.
Giovanni esce disinvolto. Nessuno gli chiede nulla.
Si
ferma fuori, l’aria è pesante, il caldo afoso.
Si
guarda attorno.
Il
collegio e il tempio di s. Tommaso da Villanova sono stati
saccheggiati e incendiati dalla turba rivoluzionaria. Le fiamme
stanno ancora consumando i due edifici.
P.
Giovanni vede e l’angoscia cresce nel cuore.
Si
domanda che strada conviene prendere per raggiungere la casa degli
amici.
La
città è in piena convulsione rivoluzionaria. Le strade sono
barricate e portano i segni di trincee. S’incontra gente armata di
fucile e pistola, qualcuno spara in alto o a qualche finestra,
sospetta, di che?
P.
Giovanni, angosciato alla vista del tempio incendiato, si avvia e
sceglie una strada, quella che gli pare la migliore.
Sempre
andando avanti, cammina e cerca con cura di scansare le strade
battute dai miliziani e dalle miliziane.
Giunge
e sbocca all’angolo della piazza della chiesa dei santi Giovanni
Battista e Giovanni Evangelista. Qui rimane impietrito.
Dopo
aver bruciato la chiesa di s. Tommaso da Villanova’ la banda degli
incendiari si era messa a festeggiare l’impresa con canti, urla e
schiamazzi. Godeva tanto la furia incendiaria a vedere le fiamme
alzarsi, le finestre cadere, i tetti crollare. Bruciavano le
immagini, le cappelle; il cielo diventava nero. Tutto questo, forse,
eccitò lo spirito e la fantasia di chi gridò: “A los santos
Juanes”.
E'
come se fosse stato dato un ordine. Il lugubre corteo si muove al
grido “A los santos Juanes”.
La
chiesa dei santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista è assieme
alla cattedrale l’orgoglio di Valenza artistica. Vi hanno lavorato
autentici geni della pittura e dell’architettura. Custodisce una
biblioteca di cinquantamila documenti della storia di Valenza. Quando
il parroco, don Vincenzo Fontelles percepisce l’arrivo della
bufera, telefona al prefetto della città per avere aiuto, si rivolge
alle Belle Arti, ma tutti si dichiarano impotenti.
L’orda
giunge in piazza, si precipita verso l’ingresso della chiesa,
sfonda il portone ed è l’invasione.
Accatastano
i banchi, riuniscono le sedie, spaccano e frantumano le porte,
asportano libri, documenti, registri e poi fuoco.
In
quel momento giunge p. Giovanni.
Resta
muto, impietrito per un po’ di tempo, poi la sua anima di sacerdote
lo scuote e lo fa fremere.
“Sacrilegio!
Che sacrilegio!”, esclama, senza rendersi conto del luogo e delle
persone che gli sono accanto.
Viene
preso per un destrista o un fascista, nemico della Repubblica
libertaria.
“Sono
un sacerdote”
“E’
un prete, un prete”.
“Al
fuoco! Al fuoco!”.
Viene
sottratto alla folla minacciosa dall’intervento delle guardie
d’assalto, che lo conducono al Commissariato di polizia, comandato
dal capitano di assalto Uribany, ispiratore e guida feroce del
sinistrismo di Valenza e di tutto il male della città.
— "Mi
hanno detto che sei prete. Sei prete?"
— "Sì,
sono sacerdote della Congregazione dei Sacerdoti del S. Cuore. Mi
chiamo Mariano Garcia Mendez; in religione sono Giovanni Maria della
Croce".
— "Che
hai fatto?"
— "Mi
hanno condotto qui perché ho protestato pubblicamente per l’incendio
sacrilego della chiesa magnifica dei Santi Giovanni".
— "E
a te che importa?"
— "A
me? Sono sacerdote ed è mio dovere intervenire. Non si può rimanere
muto davanti a un tale sacrilego scempio".
Alle
prime ore della notte p. Giovanni Garcia è condotto in carcere al
Modello di Valenza, nel quartiere di Mislata.
Come
tutti i carcerati anche p. Garcia deve dichiarare le sue generalità.
— "Sei
sacerdote?"
— "Sono
sacerdote".
— "Sei
di Valenza?"
— "Non
sono di Valenza".
— "Cosa
sei venuto a fare a Valenza?"
— "A
salutare degli amici".
— "Non
è vero, - rincalzano gli uomini della milizia che l’hanno sorpreso
in piazza a protestare contro l’incendio della chiesa dei santi
Giovanni Battista ed Evangelista -‘ è un prete dell’
alzamiento".
“L’alzamiento”
era la sollevazione di Franco, che per i carcerati significa
“Riscossa”, per i rossi carcerieri “Ribellione”.
Quando
i miliziani finiscono di raccontare l’episodio dell’incendio, il
capo carceriere ebbe un moto di stizza:
-
"Tu?"
P.
Garcia non risponde.
-
"Fuori!"
Il
corteo si muove, attraversa la galleria n. 4, a passo cadenzato senza
curarsi se la gente dorme o no e raggiunge la cella destinata al
prete. C’è altra gente in questa cella, ma anche un branda vuota e
un saccone. Il carceriere fa luce e indica:
—"Lì."
P.
Giovanni Garcia è il numero 476, quello della sua cella. Al mattino
la notizia è già circolata per il carcere: nella notte è stato
messo in carcere un prete, che ha avuto il coraggio di protestare
contro gli incendiari per il sacrilegio di una chiesa. E’ naturale
il desiderio sorto in tutti di conoscere questo prete, che ha avuto
tanto coraggio, e di incontrarlo.
In
carcere non riceve nessuna divisa. Veste sempre con i pantaloni ampi
da contadino, con giacca nera servita per anni ad altri e finita
sulle sue spalle. Agli occhi dei carcerieri, p. Garcia ha un delitto
in più da scontare: è prete ed è ardito. E un pericolo.
Il
padre sa, ma non rinuncia ad essere prete. I carcerieri hanno ordine
di controllare con ogni scrupolo che non si portino in carcere
calici, ostie e vino, indumenti sacri. Il breviario non lo capiscono
e lo lasciano, il rosario lo prendono come un passatempo per i
carcerati e non lo sequestrano.
Il
prete strano non trova per nulla strano di uscire nel cortile col
breviario in mano e pregare con tale solennità e raccoglimento come
se fosse nella cappella della sua Comunità.
“Ebbi
la sorte di conoscere p. Giovanni Garcia — testimonia p. Tommaso
Vega, redentorista di Santander —fin dal primo giorno del suo
ingresso nel carcere. Pregava con tanta devozione che non potei fare
a meno di chiedergli se potevo recitare il breviario insieme a lui.
Da quel giorno, tutti i giorni eravamo assieme nel cortile. Parte del
breviario lo recitavamo al mattino e parte al pomeriggio. Ci dovevamo
incontrare nei tempi di sollievo perché non abitavamo la stessa
cella. Eravamo soltanto nella stessa galleria quarta “.
Con
uguale ammirazione don Recaredo de Los Rios. salesiano, afferma:
“L’abbiamo
potuto vedere, l’abbiamo potuto osservare ed essere edificati dal
suo fervore religioso. Ci riunivamo alle due del mattino un gran
numero di detenuti per recitare in comune le litanie dei Santi. Nei
giorni di festa, non essendo possibile celebrare la s. Messa, ci
accontentavamo di leggere assieme le diverse parti, saltando
naturalmente la consacrazione.
Verso
sera si recitava il rosario. Ogni sacerdote aveva il suo gruppo di
fedeli. P. Giovanni aveva il proprio. So che i suoi uomini dopo il
rosario facevano assieme a lui una specie di lettura spirituale e poi
tante altre preghiere. Quando notava una certa stanchezza nel gruppo
li lasciava alla loro conversazione e passava ad altri gruppi, dove
sapeva ch‘era attesa la parola del «padre giacchettone» “.
“Padre
Giacchettone” e “padre Gianni” sono i due vezzeggiativi con i
quali è conosciuto ed è chiamato in carcere p. Garcia.
Dal
carcere p. Garcia scrive al suo ex Superiore Generale, p. Lorenzo
Philippe, ora vescovo di Lussemburgo, per auguragli buon onomastico.
Nella
lettera esplicita i motivi della sua carcerazione:
“Oggi
è il suo onomastico e le porgo cordialmente i miei auguri. Chi
l’avrebbe detto che l’avrei festeggiato nel carcere Modello di
Valenza? Perché, mi trovo qui da quasi tre settimane, per aver detto
alcune frasi di protesta davanti allo spettacolo orrendo di chiese
profanate e incendiate. Dio sia benedetto. Si faccia in tutto e per
tutto la sua santissima volontà. Sono molto contento di soffrire un
po‘ per chi ha tanto sofferto per me, povero peccatore... Avrei
tanto piacere che Vostra Eccellenza potesse far conoscere la mia
situazione a Puente.
Chiedo
la sua paterna benedizione.
Giovanni
Mariano Garcia scj
PS.
Sia tutto per il Cuore Santissimo di Gesù e la sua santa Madre in
spirito di amore e di riparazione... Non so nulla dei nostri".
La
sera del 28 luglio giunge in carcere la notizia di una strage
avvenuta nei sobborghi di Valenza, cento e più cadaveri erano
apparsi in città. P. Gianni riunisce nella penombra i suoi gruppi
per i suffragi ai morti.
Nella
notte disegna nella cella le quattordici croci della via Crucis.
E
un esercizio che ama e che desidera sia praticato anche dagli amici
di cella nelle veglie notturne.
Il
29 sfida miliziani e guardiani che fanno servizio.
Nelle
ore di sollievo p. Garcia si mette in ginocchio in mezzo al cortile e
comincia a pregare a voce alta.
Qualcuno
gli si avvicina:
— "Padre
Gianni, dica le sue preghiere quando siamo in cella. Qui non è
prudente. Lei si compromette e compromette anche noi, Le sentinelle
la stanno a guardare".
— "E’
il momento, risponde il padre, di mettere da parte ogni rispetto
umano. Ora più che mai noi cristiani siamo tenuti a confessare
Cristo, nel quale solo c’è la salvezza".
E
senza più parlare mette le mani sotto le ginocchia in segno di
penitenza.
Gli
amici sacerdoti lo accostano e lo tirano su a forza.
In
quel momento compare un ufficiale ispettore del carcere. Chiama in
cella il signor Giovanni Garcia Mendez.
L’ufficiale
è furibondo per le quattordici croci della via Crucis tracciate a
matita sulle pareti della cella. Tira fuori tutto il suo repertorio
antireligioso e anticlericale per rimproverare al sacerdote il suo
oscurantismo. Secondo l’ufficiale non c’è più bisogno di croci
per guidare il mondo.
Il
padre tace. L’ufficiale perde la pazienza e passa agli insulti.
Grida tanto forte che lo si sente da lontano.
“Ora
1’ ammazza,” temono gli amici.
Non
l’ammazza, ma gli ordina di cancellare quelle croci. Quella sera
non ci sono più, perché una mano amica e devota del padre si
incarica di cancellarle, raschiando la parete col vetro.
Ma,
il giorno dopo le croci ricompaiono e rimangono lì finché dura la
sua prigionia.
Grazie
alla presenza di preti e di preti valenti il carcere è diventato
luogo di preghiere, di purificazione.
La
scena della preghiera in cortile avrà innervosito più di una
guardia, dal momento che qualcuno arde dal desiderio di ficcargli una
pallottola in testa e “farlo cadere come un passerotto”.
Ma
quello che dà più fastidio e innervosisce i carcerieri sono i
gruppi che si formano attorno ai preti e al quel prete.
P.
Gianni Garcia è diventato l’amico di tutti. Si va da lui per
vederlo, ascoltarlo, parlargli, confessarsi.
Una
nuova repressione conduce in carcere don Salvatore Hernandez,
professore del seminario di Valenza.
Don
Salvatore ha con sé ostie consacrate. Naturalmente non si mette a
diffondere il suo segreto. Studia le persone a cui partecipare la sua
grazia.
Don
Hernandez non è nella galleria di p. Garcia. Non riescono a
incontrarsi subito; vengono a contatto a mezzo di comuni amici.
P.
Garcia è felicissimo di avere con sé il Signore e don Hernandez
felicissimo nel darlo a una persona che tutti stimano e di cui tutti
si fidano.
La
presenza di Gesù in carcere induce padre Gianni a fermarsi più a
lungo in cella, aumentano le sue adorazioni, fa l’Ora santa insieme
ai suoi compagni di cella.
Una
mattina don Hernandez gli consegna un frammento dell’Ostia
consacrata. Quella diviene una giornata eccezionale.
I
compagni di cella lo vedono assorto in un raccoglimento da cui nulla
può distoglierlo. Rumori, vocii, richiami, nulla.
La
cella 476 quel giorno è trasformata in cappella. I compagni entrano
ed escono silenziosi, con molto rispetto. Preferiscono avvicendarsi
nelle mansioni del padre e lasciarlo lì in preghiera e adorazione, a
tu per tu con Dio.
Egli,
p. Gianni prega anche per loro.
Per
quanto ridotte a frammenti le ostie portate da don Hernandez non
possono durare più di un certo numero di giorni.
Servendosi
delle opportune autorizzazioni concesse dal S. Padre per la
circostanza, don Hernandez fa sì che si riesca a celebrare la S.
Messa in carcere.
Antonio
Meseguer, idraulico, detenuto a cui è affidato l’approvvigionamento
dell’acqua, riferisce a p. Giacchettone:
— "Questa
notte sono stati chiamati una quarantina di detenuti. Si dice che
quei disgraziati li abbiano portati a Paterno e li abbiano fucilati
in località El Picadero”.
— "Non
sono disgraziati, sono fortunati. Possiamo essere più che convinti
che questa sarà anche la nostra fine. Tutti corriamo la stessa
sorte. Ben pochi sono i sacerdoti che si salveranno. Io sono già
pronto a fare la volontà di Dio. Sono sacerdote e anche religioso.
Per noi non ci sarà pietà, siamo condannati al martirio".
Antonio
si ritira, pensieroso lascia la cella 476. Vi ritorna più tardi e
chiede di confessarsi.
Era
ancora l’alba quando si presentano i membri del comitato
rivoluzionario.
Il
capatazzo ha in mano un foglio di carta. Legge e grida un nome. Dalla
cella risponde una voce. Dal drappello si staccano alcuni, spalancano
la porta e gridano sarcastici: “In libertà”. Tra i chiamati non
c’è p. Garcia.
Ma
quella mattina egli non scende in cortile. Rimane in cella e prega;
prega per sé e per quelli che sono stati chiamati.
Passa
il mezzogiorno, il pomeriggio... Si fa sera.
P.
Gianni è ancora assorto in preghiera, quando nella galleria n° 4
risuonano nuovi passi pesanti.
— "Giovanni
Garcia Mendez!"
Nel
silenzio quella voce e quel nome rimbombano. Si è
tra
le nove e le dieci
— "Giovanni
Garcia Mendez!"
La
voce questa volta è più forte e irata.
P.
Gianni è assorto in preghiera; i compagni di cella non osano
richiamare l’attenzione del padre.
In
galleria si parlotta. “E’ nella cella 476”.
Si
contano le celle. “E’ qui”.
Viene
spalancata la porta e sulla soglia viene ancora una volta gridato:
“Giovanni
Garcia Mendez”.
— "Sono
io".
— "Andiamo".
P.
Gianni saluta gli amici.
La
voce tonante del miliziano ha messo all’erta tutti i detenuti della
galleria n° 4.
Essi
sono alle finestre per vedere il corteo e per salutare il padre per
l’ultima volta.
Il
gruppo di p. Garcia è composto da dieci persone: due sacerdoti e
otto laici. I sacerdoti sono p. Giovanni e don Vincenzo Martin
Palanca. Si conoscono solo quattro nomi dei laici: Emanuele
Cordellat, Francesco Roquier Lopez, Gesuino Villereol Muñoz, Luigi
Lozano Lopez.
Nessuno
ha raccolto i nomi degli altri quattro. Ma meritano anch’essi la
nostra ammirazione e la nostra venerazione.
P.
Garcia anima e sollecita i compagni a essere saldi e forti nella
fede, a ricordarsi di Gesù...
Sono
lì, ammucchiati nell’androne, tra guardie truci, insultanti. Sono
lazzi che volano. Per tre ore i condannati alla “libertà”
rimangono sospesi tra la vita e la morte.
Ogni
tanto un carceriere scompare e ritorna con un “No, non ancora”.
Si
è assentato per vedere se fosse arrivato il camion della morte.
Ricominciano
le imprecazioni, specie contro i commilitoni miliziani che non
giungono con sollecitudine. E poi quel mormorio di preghiere e di
parole incoraggianti ad affrontare con dignità la morte per amore di
Gesù dà loro fastidio.
Per
i laici, quelle parole che i sacerdoti dicono sono vere, giuste.
Nella disgrazia si ritengono fortunati di essere compagni di p.
Gianni, ma non possono fare a meno di pensare alle loro famiglie e
qualche lacrima spunta sul loro viso.
P.
Garcia vede il turbamento negli altri, scorge le lacrime e si
avvicina agli amici e stringe la mano dell’uno e dell’altro.
La
stretta di mano è più eloquente di ogni discorso.
Gli
uomini si abbandonano sulle sue spalle, le loro braccia stringono
l’amico sacerdote.
Quelle
manifestazioni di solidarietà e di affetto innervosiscono i già
nervosi miliziani carichi di fucili.
— "Prete,
muoio dalla voglia di ficcarti una pallottola in fronte. Qui. E fa
cenno con il dito".
— "Dieci
al cuore".
Il
padre non risponde.
Uno
del suo gruppo gli si avvicina ed esclama:
— "Anche
lei, padre?"
— "Anch’io
figliolo".
E’
don Vincenzo. I due si donano reciprocamente l’assoluzione e
invitano i compagni a riceverla anch'essi.
Il
tempo passa..., ecco, il rumore del camion che arriva.
— "Preparatevi
al trasloco". L’autocarro si pianta di fronte all’entrata e
caccia all’interno due potenti fari accesi.
— "Trasferimento!"
grida l’uomo di guardia.
I
nuovi venuti, i militi della morte, legano “i martiri” tra di
loro, la destra dell’uno con la sinistra dell’altro. Questi, così
legati, devono salire sull’automezzo. Non è impresa facile.
Salgono a forza di spinte.
L’automezzo
si muove. Si spara verso le finestre per intimidire, non si vogliono
testimoni. Ma questi ci sono e ci saranno. Malgrado gli spari
intimidatori, occhi coraggiosi vedono. Non sanno chi sono, ma sanno
bene che sono dei condannati a morte per Cristo.
Sul
camion, tra i sollazzi dei carcerieri e l’ansimare assordante del
motore, p. Garcia supera se stesso. Lo zelo che lo divora, l’amore
di Dio, l’ora della morte vicina gli suggeriscono parole e
preghiere che lo trasformano in vera guida spirituale. Il viaggio non
è tranquillo. P. Giovanni riceve più di un calcio dai miliziani e
più di una pestata di fucile sul petto e sulla schiena: è vietato
incoraggiare, sostenere i propri compagni di viaggio.
Dietro
il camion l’autovettura dei comandanti.
Il
suono del clacson disturba e sveglia gli abitanti di Beniparrel,
Albel, Alfafar, Catarroja, Nuyanasa; si prosegue, si va ancora più
avanti si arriva ad Albufera, la si attraversa ed ecco Silla, paesino
sconosciuto, piuttosto remoto rispetto a Valenza. Ma è proprio Silla
la meta.
Giunto
a Silla il camion attraversa un ponte e si inoltra in un campo, è in
leggero pendio.
Qualche
finestra si apre, ma deve subito chiudersi perché i miliziani
sparano contro. Non vogliono testimoni, ma questi ci sono.
Il
camion si ferma, si fanno avanti i capi e ordinano di scendere.
I
prigionieri sono ancora legati e così devono scendere. Chi ha
difficoltà viene spintonato
Scesi
o buttati a terra il gruppo dei condannati si ricompatta, p. Giovanni
recita la preghiera Anima Christi, i compagni lo invitano a
continuare, egli offre a Dio la sua vita in spirito di amore e di
immolazione.
— "Avanti!"
Il
plotone non va lontano. Si sale un po’, c’è un fossato.
I
prigionieri vengono schierati in fila lungo il fossato; si piazza
anche il plotone di esecuzione, qualche spintone per occupare il
posto di fronte ai preti, e a quel prete che fa da capo.
Il
comandante dei miliziani urla e si impone con la forza, il plotone è
pronto.
Un
ordine: "Fuoco!"
Una
risposta: "Viva Cristo Re".
È
l’alba del 24 agosto 1936.
I
corpi dei martiri cadono nel fossato, il sangue si sparge e santifica
quella terra. Viene il colpo di grazia.
Bisogna
ripartire. Ma il capitano si ferma, ha ancora la pistola in pugno,
osserva ... uno è ancora vivo e continua a pregare. E’ p. Garcia.
— "Ancora!"
E
spara ancora.
Eseguita
la carneficina i miliziani abbandonano i corpi.
Ma,
ombre furtive, piene di paura e veloci raccolgono i corpi e danno
loro sepoltura nel cimitero in una fossa comune tutti e dieci
insieme, uno accanto all’altro o uno sull’altro, così come
capita. Si copre la fossa e sopra nessun segno.
Ma
coloro che non vogliono testimoni, sono proprio loro a raccontare
quanto hanno compiuto.
Raccontano
o si vantano di aver ucciso il prete, il “prete giacchettone” e i
suoi compagni, lì a Silla, nei pressi di un ponte, su di un piccolo
balzo, lungo un fossato, dove si trovano quattro alberi d’ulivo.
Indicazioni
preziose che p. Lorenzo Cantò, confratello di p. Giovanni raccoglie
e conserva.
P.
Lorenzo è in carcere anche lui al Modello, chiede notizie del suo
confratello, ma egli non è più.
Gli
raccontano della sua prigionia, del suo eroismo e della sua
testimonianza di fede.
Sono
ancora lì, in carcere, Antonio il fontaniere, e gli racconta della
sua confessione; don Hernandez, quello della messa in carcere, piange
e confida:
“Il
nostro padre Giacchettone è stato per tutti un angelo consolatore,
un suscitatore di speranza nel tetro grigiore del carcere. L’ho
visto scendere con altri nove al pianterreno del carcere la notte del
23 agosto e poi non l’ho più visto. Un ufficiale mi ha detto che
fu condotto al paese di Silla e lì su un declivio subì il martirio
che non temeva e desiderava”.
Don
Tommaso Vega, salesiano, e don Edoardo Muñoz che ricorda la notte
del 23 agosto e l’alternarsi con lui nella recita del breviario;
“lo
conservo ancora perché p. Gianni lo diceva al mattino e io la sera.
Ecco è ancora nelle mie mani. Lo prenda, padre, è del suo
confratello, lo conservi come ricordo della sua vita santa “.
Don
Edoardo sarà martirizzato la notte del 5 dicembre.
P.
Lorenzo, invece, esce dal carcere nel marzo seguente.
Sono
ancora lì quei quattro ulivi striminziti. Li trova p. Lorenzo,
quando si reca a Silla. Solo qui può sapere qualcosa di più e dove
poter trovare il corpo del suo confratello.
A
Silla non conosce nessuno, ma la bufera è passata. Ora può
tranquillamente chiedere notizie. Concordano con quelle raccolte in
carcere. Sul declivio chiamato Coma una notte ci sono stati degli
spari e dei morti.
P.
Lorenzo segue le indicazioni, giunge al ponte, sale per il campo,
ecco i quattro olivi.
E’
il luogo del martirio. Ma i corpi? Dopo una sosta per pregare, si
reca dal sindaco.
Questi
conferma il luogo del martirio, dice che i morti sono sepolti nel
cimitero e che lui stesso ha assistito alla loro sepoltura.
Afferma
ancora che gli stessi miliziani che li avevano uccisi fecero da
becchini; questi di uno in particolare affermavano che era prete.
P.
Lorenzo descrive p. Garcia: le sue fattezze, il vestito povero che
avrebbe potuto indossare.
Il
sindaco conferma e indica la fossa scavata tre anni prima.
Non
c’è nessun segno su di essa.
E’
desiderio di tutti ricuperare la salma di p. Giovanni Garcia. Si
muovono p. Goebels, superiore di Puente la Reina, p. Lorenzo e p.
Agostino Sanchez.
Sono
con loro le autorità di Silla e anche i parenti delle altre vittime.
Delicatezza
e prudenza per una maggiore sicurezza nel riconoscimento delle salme.
Nessuno
sa a quale profondità sono sepolte; si inizia a scavare; non si va
molto oltre un metro quando si incontra la prima.
L’uomo
che scava si ferma, poggia la pala in un angolo e rimuove la terra
con le mani.
P.
Goebels ha un sussulto:
— "E’
lui, è p. Giovanni".
— "Padre,
come può dirlo?"
— "E’
lui, è lui, è il p. Giovanni. Aveva un terribile male di denti e lo
costrinsi a fare una piccola protesi, un ponticello d’oro alla
mandibola inferiore sinistra, il ponte è lì al suo posto. Non è
stato toccato, non si è mosso".
Non
è un’informazione sicura. Ad altri potrebbe essere successo la
stessa cosa.
P.
Goebels, un po’ contrariato deve ammetterlo; ma lui è sicuro,
quello è p. Garcia gettato nella fossa per ultimo.
Lo
scavatore procede. Ecco i vestiti, sono abbastanza ben conservati. In
una tasca dei pantaloni un taccuino: sono segnati gli indirizzi di
persone amiche e di Benefattori.
Il
taccuino è traversato da una pallottola di fucile, segno che più di
uno aveva mirato su di lui.
La
calligrafia del padre è ancora leggibile.
P.
Goebels continua a ripetere.
— "E’
lui, è lui".
Si
libera finalmente il suo famoso “giacchettone”; la camicia non è
ricuperabile, ma sotto la camicia, ancora appesa al collo la croce
della sua professione, quella crocetta nuda con un cuore d’argento,
campeggiante nelle piccole traverse e lo scapolare del S. Cuore.
La
salma viene portata a Puente la Reina.
“Se
non è orgoglio, se non è presunzione, se a te piace. Dio dell’anima
mia, se è conforme al tuo beneplacito e alla tua gloria, concedimi
almeno dieci anni di vita per lavorare con vivo interesse e zelo per
la tua gloria alla salvezza delle anime “.
Così
aveva pregato e scritto il 16 gennaio 1926.
All’alba
del 24 agosto 1936 il S. Cuore accoglie la sua vita.
11
marzo 2001 all’alba del nuovo millennio
la
Chiesa lo riconosce e proclama Beato, perché martire di Cristo.
Tratto
da "L'Araldo" n.2/2001. A cura di P. Leonardo Cusmai, scj
"Tutto
per te, Cuore Sacratissimo di Gesù"
Beato
p. Giovanni Mariano Garcia Mendez, scj, martire.
P.
Tanzella, Padre Garcia,
ED-Roma
Sempreverdi, 1995.
Dal
sito http://www.casasantamaria.it/
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