“La vita dell'uomo è un dramma, e quale dramma!”, diceva don Divo Barsotti. Uno dei segni che questo dramma raggiunge livelli non comuni è quando chi vi è coinvolto preferirebbe morire piuttosto che vivere; è allora quasi inevitabile trovarsi coinvolti in un dialogo simile a quello di Giobbe con i suoi amici. C'è negli amici un sincero e lodevole desiderio di dare un po' di conforto, di suggerire qualche atteggiamento, preghiera, proposito o considerazione nella speranza di vedere uscire quanto prima il loro amico da uno stato di sofferenza estrema. Ecco allora la proposta di recitare una speciale preghiera di abbandono, il suggerimento di non tenere dentro le cose, ma di raccontare il proprio dramma al Signore, di offrire tutto così sarà lui a caricarsi buona parte del peso… di fare una novena a questo o quel santo, di costringere il Signore a rispondere entro una certa data… di abbracciare non la croce, ma il Crocifisso, di non rimanere solo, di non lasciarsi prendere dalla depressione, di andare per un po' di tempo da qualche parte, di curare il giardino, la vigna o le patate… adesso non capisci quanto ti sta succedendo, ma lo capirai in seguito… in realtà questa è un'occasione di crescita, di purificazione, i dolori sono come quelli del parto, poi nascerà qualcosa di nuovo… Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande...
Tutte cose che potrebbero anche essere buone e giuste in certe condizioni, ma non in una condizione estrema. In tutti questi suggerimenti, raccomandazioni e considerazioni, manca clamorosamente il suggerimento del rimedio previsto da Dio stesso, ossia quello di farsi accompagnare da chi ha attraversato una situazione simile. Per questi casi Dio ha previsto un manuale che contiene tutte le istruzioni del caso e in cui sono illustrati gli atteggiamenti da adottare e quelli da evitare, questo manuale ha la sua approvazione, il suo imprimatur, è dunque sicuro al 100%, il manuale di riferimento per coloro che sono duramente provati è l'insuperabile libro di Giobbe. Ma nel libro di Giobbe non mi sembra di trovarne molti dei suggerimenti sopra elencati, anzi, quasi tutti o non reggono alla sconcertante forza degli eventi, o sono superflui, o rischiano di condurre fuori strada, o non consolano un granché, come mai? Perché tutti quei suggerimenti si basano su un presupposto, ossia che il rapporto di fiducia fra Dio e colui che subisce la prova sia mediamente in buona salute, più o meno forte, più o meno profondo, ma comunque vivo perché l'agire di Dio nella propria vita è in qualche modo ragionevole o giustificabile appoggiandosi sulla fede e attingendo alla sapienza spirituale che la Chiesa ha accumulato lungo i secoli. In Giobbe invece il rapporto di fiducia nei confronti di Dio è minato alla base, è agonizzante e si dibatte penosamente fra la vita e la morte, perché l'agire di Dio nella sua vita ha assunto aspetti terribili e incomprensibili; Giobbe può dire come San Paolo di essere provato oltre misura, al di là delle nostre forze, tanto da disperare persino della nostra vita (2 Cor 1, 8). Ma che cos'è che in Giobbe ferisce a morte la sua fiducia in Dio? Che cosa rende la sua vicenda così angosciante? Sono due realtà inconciliabili che si scontrano drammaticamente, ossia la sua giustizia non comune da una parte e la sventura non comune che si abbatte su di lui dall'altra; il castigo che dovrebbe essere riservato ai malvagi si abbatte invece inesorabilmente e crudelmente su di lui che si è sempre impegnato a fondo a praticare la giustizia, la rettitudine, il timore di Dio e ad osservare i decreti del Santo (Gb 6, 10). Il paradosso e il contrasto insostenibile nella vicenda di Giobbe è proprio questo: quanto più grande è stata la sua giustizia, la sua rettitudine e la sua santità, tanto più grandi sono le sventure, i tormenti e i terrori che ora lo affliggono. Questo produce nel suo cuore una lacerazione insostenibile fra la fiducia in Dio che ha sempre avuto, e che vorrebbe continuare ad avere, e l’impossibilità di comprendere, giustificare e sopportare il peso dei dolori che ora si sono abbattuti su di lui.
La santità di Giobbe
È bene allora osservare alcuni tratti della grandezza morale di Giobbe, della sua nobiltà d'animo e della sua finezza spirituale. Intanto già all'inizio del libro è presentato come uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male (Gb 1, 1); poi ci viene subito mostrato un esempio della sua rettitudine: i suoi figli a turno banchettavano insieme, allora Giobbe si preoccupava di eventuali peccati che potevano aver commesso durante i banchetti, voleva perciò che si purificassero e offriva olocausti per ognuno di loro. Questo indica con quanto scrupolo vigilava sia sulla rettitudine dei figli, sia sull'onore di Dio che non doveva essere offeso dal peccato. Un esempio poi della sua finezza spirituale lo troviamo al capitolo 31, 1: Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine (CEI74). Questo ci mostra quanto lavorasse su sé stesso per prevenire le tentazioni, per non esporsi ad eventuali occasioni di peccato nei pensieri e nelle azioni. Naturalmente se c'erano questi vertici non potevano mancare gli atti di giustizia e di bontà più comuni, infatti: Soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l'orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo gioia… ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri ed esaminavo la causa dello sconosciuto (Gb 29, 12-16) ... Non ho forse pianto con chi aveva la vita dura e non mi sono afflitto per chi era povero? (Gb 30, 25). Ora, da una condotta del genere, che cosa è lecito aspettarsi da parte di Dio: la benedizione o la maledizione? Certamente la benedizione, infatti, è scritta indelebilmente nelle fibre più profonde dell'uomo una legge di giustizia secondo cui chi opera bene deve trovare il bene e chi opera male deve trovare il male, perché sarebbe assurdo, inconcepibile e insostenibile che il salario delle buone azioni sia la sventura. Questo principio nutriva la speranza di Giobbe, era condiviso dai suoi amici ed era ampiamente proclamato dalla saggezza di Israele: Beato il giusto, perché avrà bene, mangerà il frutto delle sue opere. Guai all’empio, perché avrà male, secondo l’opera delle sue mani sarà ripagato (Is 3, 10-11); Egli riserva ai giusti la sua protezione, è scudo a coloro che agiscono con rettitudine, vegliando sui sentieri della giustizia e custodendo le vie dei suoi amici (Pr 2, 7-8 CEI74); Il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina con rettitudine (Sal 83, 12 CEI74); Elifaz, uno dei suoi amici, ricorda lo stesso principio: Quale innocente è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti?... Chi ara iniquità e semina affanni, li raccoglie (Gb 4, 7-8). Anche Bildad, altro suo amico, connette la purezza e l'integrità della vita con la prosperità: Se tu cercherai Dio e implorerai l'Onnipotente, se puro e integro tu sarai, allora egli veglierà su di te e renderà prospera la dimora della tua giustizia (Gb 8, 5-6). Così, per la sua giustizia, a causa dell’integrità della sua condotta Giobbe pensava: Spirerò nel mio nido e moltiplicherò come sabbia i miei giorni... la mia gloria sarà sempre nuova il mio arco si rinforzerà nella mia mano (Gb 29, 18-19 CEI74).
Un principio di giustizia violato
Ma ecco che improvvisamente, quando meno se lo aspettava, un assortimento impressionante di sventure si abbatte su di lui, e proprio quelle sventure e quei tormenti che lui e la saggezza di Israele ritenevano dovessero essere riservati ai malvagi: Speravo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio (Gb 30, 26); Quale sorte mi assegna Dio di lassù e quale eredità mi riserva l'Onnipotente? Non è forse la rovina riservata all’iniquo e la sventura per chi compie il male? (Gb 31, 2-3). A questo punto il principio secondo cui Dio deve premiare il giusto con la benedizione della prosperità dà origine a due percorsi diversi e inconciliabili: uno è seguito dagli amici di Giobbe e l'altro da Giobbe. Gli amici arriveranno così alla conclusione che, se Giobbe è afflitto dalle sventure è perché ha peccato. Giobbe invece non può accettare questa logica e arriva dire una cosa spaventosa, ossia che se lui è così massacrato non è perché ha peccato, ma perché Dio è ingiusto nei suoi confronti: Sappiate che Dio stesso mi ha fatto un torto e avviluppato nella sua rete (Gb 19, 6 BJ, Vulgata). Queste due posizioni inconciliabili si scontrano in maniera implacabile per ben 35 capitoli, dal capitolo 3 al capitolo 37. L'ampiezza e la drammaticità di questo scontro ci manifestano sia la forza indistruttibile del principio secondo cui il giusto deve essere benedetto da Dio con la prosperità, sia la forza implacabile dei fatti che smentiscono tale principio, sia il fatto che non c'è soluzione umana possibile alla contraddizione che sta distruggendo Giobbe.
Le due fasi della prova di Giobbe
È bene notare come le sventure che si sono abbattute su di lui siano state progressive; ci sono due fasi nella sua vicenda, nella prima sono attaccati e distrutti i beni esterni: buoi, asine, pecore, cammelli, campi... poi i beni di ordine affettivo quando muoiono i suoi sette figli e le sue tre figlie. Dobbiamo però considerare che tutti questi beni Giobbe li aveva ottenuti quando il principio secondo cui Dio benedice il giusto con la prosperità funzionava alla grande e alimentava in lui la fiducia e l'amicizia con Dio; c'è stato dunque un tempo in cui più Giobbe era giusto, più veniva benedetto da Dio con la prosperità: Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra (Gb 1, 10). Ma se questi beni esteriori gli saranno tolti, come si comporterà Giobbe nei confronti di Dio? Gli resterà ancora fedele? Ancora lo benedirà? Dio e Satana, che sono gli attori invisibili di questo dramma, si auspicano un esito diametralmente opposto; ma Giobbe non delude le attese di Dio e afferma: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore; a cui segue l’annotazione: In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto (Gb 1, 21-22). Per il momento la fiducia in Dio di Giobbe resiste nonostante la non piccola tribolazione che si è abbattuta su di lui, Dio rimane ancora suo amico; e noi vediamo quanto grande era la sua fede, il suo abbandono nell'accettare le disposizioni di Dio anche quando queste lo facevano molto soffrire, Dio stesso è fiero di lui e dice a Satana: Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra... tu mi hai spinto contro di lui per rovinarlo, senza ragione (Gb 2, 3). Ancora una volta possiamo chiederci: “Da una condotta del genere, che cosa è lecito aspettarsi da parte di Dio: la benedizione o la maledizione?”. Certamente la benedizione, sembra tuttavia che la benedizione come la intendiamo noi e la benedizione come la intende Dio non siano la stessa cosa. Infatti, dopo questa prima fase di tormenti esterni, invece di essere consolato e rasserenato Giobbe viene raggiunto da una seconda ondata di tormenti e terrori più intimi e profondi. Dice infatti Satana Dio: Tutto quello che possiede, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente (Gb 2, 4-5). E Dio, incredibilmente, invece di opporsi al programma proposto da Satana lo approva! Cosa dobbiamo pensare di un Dio così!?... Mi sembra che la risposta paradossale suggerita dal libro di Giobbe sia la seguente: “Pensate tutto quello che Giobbe ha pensato e detto di me durante la sua prova, perché, contrariamente ai suoi amici, lui ha detto di me cose rette (Gb 42, 7)”. La seconda fase della prova di Giobbe, quella più intima e profonda, ha dunque inizio, Giobbe è colpito nelle ossa e nella carne, ossia nelle strutture vitali del suo essere, nelle fondamenta della sua vita; sono messe a dura prova la sua fiducia in Dio e l'amicizia con lui, una piaga maligna lo tormenta dalla pianta dei piedi alla cima del capo, questo per dire che la sua vita ormai è tutta una piaga, non ha più niente di sano, non ha più un luogo o un tempo per trovare sollievo e riposo. E come reagisce Giobbe quando la sventura che si abbatte nuovamente su di lui assume proporzioni inquietanti, aspetti assurdi e incomprensibili?
La protesta di Giobbe
Ecco le sue parole: Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male? Segue questa volta l’annotazione: In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra (Gb 2, 10). Come per dire che le parole sono una cosa, ma quello che c'è nel cuore è ben altro. In effetti queste parole appaiono come l'estremo tentativo di difendere l'indifendibile, sono parole che appartengono più agli amici di Giobbe che a Giobbe e ci rivelano la lacerazione straziante che dilania il suo cuore, infatti, se a parole c'è il tentativo di difendere la condotta di Dio, i dolori atroci che lo investono non gli consentono più di comprendere il suo agire, ecco perché, proprio lui, con profondo dolore sarà costretto dalla forza degli eventi a dire a Dio ciò che mai avrebbe voluto dirgli, ossia che sta commettendo una palese ingiustizia nei suoi confronti. Allora, come un fiume troppo gonfio di acque rompe gli argini e investe tutti i territori circostanti, così il dolore che riempie il cuore di Giobbe rompe gli argini e una profonda tristezza, un’indicibile amarezza, si riversano su tutti gli aspetti della sua vita dall'inizio fino al momento presente. La sua amarezza e il suo dolore sono talmente grandi che incomincia a maledire con una forza e un’ampiezza impressionanti il giorno stesso della sua nascita: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse «è stato concepito un uomo!». Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce... Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore... al posto del cibo entra il mio gemito, e i miei ruggiti sgorgano come acqua, perché ciò che temo mi accade e quel che mi spaventa mi raggiunge. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo e viene il tormento! (Gb 3, 3-4. 20. 24-26 CEI74).
È bene considerare che queste non sono parole di un non credente, ma sono parole tanto più forti e drammatiche quanto più è credente e amico di Dio colui che le dice. Paradossalmente però, sono anche parole di consolazione per tutti i credenti che si ritrovano a vivere una prova particolarmente severa; sono parole che aiutano ad aderire alla realtà qualunque aspetto la realtà possa assumere; sono parole che Dio autorizza a dire a chi vive una prova simile a quella di Giobbe, perché Lui ha detto di me cose rette (Gb 42, 7).
Gli amici di Giobbe
Elifaz, Bildad e Sofar sono gli amici che vengono a trovare Giobbe avendo udito delle sue sventure, vengono a trovare un uomo sconvolto dal dolore e a loro volta ne rimarranno sconvolti; il primo sconvolgimento che subiscono è nel constatare l'ampiezza e la gravità dei tormenti che affliggono il loro amico; in un primo tempo non sanno cosa dire e cosa pensare, allora stanno sette giorni e sette notti presso di lui senza osare rivolgergli la parola - e forse questa solidarietà silenziosa è il massimo conforto che potevano offrirgli - se avessero perseverato in questa solidarietà, l'ira di Dio non si sarebbe accesa contro di loro per punire la loro stoltezza nell'aver detto di lui cose non rette (Gb 42, 8). Ma c'è nell'uomo un’insopprimibile esigenza di trovare una ragione per tutto ciò che accade, anche per gli accadimenti più misteriosi e di difficile comprensione.
L’inizio di una disputa infuocata
Il primo che osa dire qualcosa è Elifaz, uno che ha studiato a fondo i casi della vita (Gb 4, 27), uno che ha anche avuto esperienze mistiche in cui gli è stato dato di conoscere sia la purezza e la giustizia di Dio, sia i difetti e la poca affidabilità dei suoi servi più intimi, quindi, secondo lui, Giobbe dovrebbe accettare la correzione dell'Onnipotente perché lui ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana (Gb 5, 17), poi riavrà la prosperità e la serenità fino alla fine dei suoi giorni (Gb 5, 24-26). E all'inizio del discorso si permette anche di fare dell'ironia quando in sostanza gli dice: Come, tu sei stato maestro di molti e ora che queste cose accadono a te ne sei sconvolto? (Gb 4, 3-5). Ribadisce poi il principio che gli innocenti e gli uomini retti non sono castigati, ma sono i furbi e gli orgogliosi ad essere presi di mira da Dio (Gb 5, 12-14). Giobbe però sente che c'è qualcosa che non torna in questo discorso, sono cose che sarebbe capace di dire anche lui se le parti fossero invertite e nella tribolazione si trovassero i suoi amici, ma ciò che lui sta vivendo non gli permette più di utilizzare questi criteri per comprendere la realtà.
Ci sono due cose che Giobbe tenterà inutilmente di far comprendere ai suoi amici, e sono: il peso eccezionale, sproporzionato, intollerabile dei dolori che lo affliggono e il fatto che lui non si ritiene meritevole di ciò che gli accade, perché non ha fatto niente che giustifichi un simile trattamento da parte di Dio; questo è il tema con innumerevoli variazioni che lui espone senza sosta, e lo espone senza sosta perché è ciò che lo angustia e non gli consente di trovare riposo. Infatti, la sua risposta a Elifaz è: Se ben si pesasse la mia angoscia e sulla bilancia si ponesse la mia sventura, certo sarebbe più pesante della sabbia del mare (Gb 6, 2-3). Ora, essendo Giobbe credente, sa anche che ogni vicenda umana non è estranea al governo di Dio, quindi, se Dio non è intervenuto in sua difesa vuol dire che in qualche modo permette ciò che gli sta capitando, vuol dire che il suo atteggiamento nei suoi confronti è cambiato e da amico si è trasformato in nemico, allora angosciato gli chiede: Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico? (Gb 13, 24); non sa spiegarsi perché: Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera suo nemico (Gb 19, 11); Eliu, un giovane che non resiste al desiderio di dire la sua sulla vicenda, sintetizza così i discorsi di Giobbe: Puro io sono, senza peccato, io sono pulito, non ho colpa; ma lui contro di me trova pretesti e mi considera suo nemico (Gb 33, 9-10).
C'è forse un dolore più grande di quello provocato da un amico che si cambia in nemico!? E se l'amico che si cambia in nemico è Dio, quanto grande e insopportabile sarà il dolore! Infatti, le immagini che Giobbe utilizza per manifestare il suo dolore e le descrizioni di ciò che vive sono degne di chi ha un nemico particolarmente accanito o di chi ha un torturatore incredibilmente raffinato. Le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte, sicché il mio spirito ne beve il veleno e i terrori di Dio mi si schierano contro! (Gb 6, 4); Tu come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me... contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre nuove mi stanno addosso (Gb 10, 16-17); Me ne stavo tranquillo ed egli mi ha scosso, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge le reni senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero (Gb 16, 12-14). Sei diventato crudele con me, la tua mano potente si accanisce contro di me (Gb 30, 21 BJ).
Giobbe vorrebbe con la forza della volontà trovare un momento di sollievo o dimenticare un po' la sua angoscia, ma non gli è concesso. Quando dico: «il mio giaciglio mi darà sollievo, il mio letto allevierà il mio lamento», tu allora mi spaventi con sogni e con fantasmi mi atterrisci (Gb 7, 13-14); Se mi corico dico: «Quando mi alzerò?» la notte si fa lunga e sono stanco di girarmi fino all'alba, se dico: «Voglio dimenticare il mio gemito, cambiare il mio volto e rasserenarmi», mi spavento per tutti i miei dolori (Gb 9, 27); Se parlo, non si placa il mio dolore; se taccio, che cosa lo allontana da me? (Gb 16, 6).
Povero Giobbe! È solo, sofferente nel corpo e nello spirito, ha tutti contro: la moglie, i fratelli, i conoscenti, gli amici, gli eventi, Dio stesso! Inoltre, nello stato in cui si trova non riesce a vedere una via d'uscita e amaramente si chiede: Dov’è dunque la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà? (Gb 17, 15). L’amara risposta è che, se potesse sperare qualcosa, solo il regno dei morti gli darebbe sollievo: Non c’è che la tomba per me (Gb 17, 1), ma anche questa gli è negata. Certo che non è né comodo né facile stare accanto a uno come Giobbe; lui stesso se ne rende conto e dice ai suoi amici: Vedete una cosa che vi fa paura e vi spaventate (Gb 6, 21).
La stessa cosa accadrà agli amici di Gesù durante la Passione: vedranno una cosa che farà loro paura, si spaventeranno, fuggiranno e lasceranno solo il loro Amico. Se gli amici di Gesù per difendersi dalla paura fuggono, gli amici di Giobbe non fuggono, ma lo accusano di empietà, perché se Giobbe sarà trovato colpevole di un qualunque peccato, allora diventerà in qualche modo comprensibile la sventura che così dolorosamente lo affligge. E hanno buon gioco nel dichiarare Giobbe empio proprio appoggiandosi sul fatto che lui, ostinatamente, si dichiara giusto davanti a Dio, ma se è giusto Giobbe allora è ingiusto Dio a trattarlo così, ed è proprio quello che Giobbe implicitamente ed esplicitamente afferma: Sappiate che Dio stesso mi ha fatto un torto e avviluppato nella sua rete (Gb 19, 6 BJ, Vulgata). Ecco allora che parte l'accusa di Elifaz: Tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio... la tua bocca ti condanna e le tue labbra attestano contro di te (Gb 15, 4-5). Giobbe non si lascia certo intimidire da una simile accusa, è ben altro ciò che lo sconvolge, e ribatte: Questo mi sarà pegno di vittoria, perché un empio non si presenterebbe davanti a lui (Gb 13, 16 CEI74).
I presentimenti di Giobbe
È strano e impressionante questo fatto: Giobbe ha tutto e tutti contro, la sua speranza è distrutta eppure sente che alla fine sarà lui il vincitore! È trattato da Dio come se fosse il più colpevole e spregevole dei peccatori eppure è convinto che alla fine sarà dichiarato innocente (Gb 13, 18). Evidentemente non può essere che Dio stesso a dare questi presentimenti a Giobbe, a suggerirgli la convinzione che qualcuno in cielo è dalla sua parte e lo difenderà: Ecco, fin d'ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù (Gb 16, 19) e questo difensore saprà interpretare in modo autentico i suoi pensieri e difendere la sua causa presso Dio (Gb 16, 20-21 BJ). Questa convinzione è talmente forte da volere che le sue parole si incidano sulla roccia: c'è un Redentore che da ultimo si manifesterà e Giobbe vedrà il suo Dio, ma non più come uno straniero o un nemico (Gb 19, 24-27 CEI74). Questi sono presentimenti, intuizioni o ispirazioni che lo raggiungono nel corso della lotta come bagliori nella notte, come una ventata di sollievo in mezzo ai tormenti, ma per il momento il cielo rimane chiuso. Lui vorrebbe entrare al cospetto di Dio per esporgli la sua causa, per sentire cosa ha da dire sulla sua vicenda, ma Se vado a oriente, egli non c'è, se vado occidente non lo sento. A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo (Gb 23, 8-9), Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta (Gb 30, 20). Così Giobbe, nel momento di maggior bisogno, sperimenta anche l'amarezza della preghiera non accolta; la sua preghiera si infrange contro un muro di bronzo, sembra inutile, inefficace. E il silenzio di Dio prelude ad uno stato di desolazione ancora più profondo, quello in cui si ha paura di Dio.
La paura di Dio
Se c'è stato un tempo in cui come il salmista poteva dire: Nell'ora della paura io in te confido (Sal 55, 4), ora invece è proprio il pensiero di Dio che gli mette paura: Se egli sceglie, chi lo farà cambiare? Ciò che egli vuole lo fa. Compie certo il mio destino e di simili piani ne ha molti. Per questo davanti a lui sono atterrito, ci penso e ho paura di lui (Gb 23, 13-15 CEI74). E ancora: Allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui (Gb 9, 34-35). Questi pensieri invadono la mente di Giobbe e in certi momenti assumono proporzioni da incubo, è vero che c'è stato un tempo in cui Dio ha benedetto lui, la sua casa, le sue attività, le sue relazioni, ma non era quello che aveva veramente in mente, Dio aveva un pensiero nascosto, nella sua mente c'era il proposito di condurlo allo stato attuale, stato in cui l'unica prospettiva di sollievo è la morte: Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito. Eppure, questo nascondevi nel cuore, so che questo era nei tuoi disegni! (Gb 10, 12-13). Pensiero angosciante quello di sospettare Dio di essere sleale, sensazione terribile quella di chi si è sempre comportato in modo corretto ma è indotto a pensare che Dio non lo sia altrettanto, come il salmista Giobbe potrebbe dire a Dio: Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma tu, mio compagno, mio intimo amico, legato a me da una dolce confidenza! Camminavamo concordi verso la casa di Dio (Sal 54, 13-15). Ma altri pensieri ancora vengono a turbargli la mente e a sconvolgergli il cuore; questi sorgono quando si mette a considerare qual è la sorte che Dio riserva ai malvagi, ai loro figli e alle loro attività: Se io ci penso, rimango turbato e la mia carne è presa da un brivido. Perché i malvagi continuano a vivere e invecchiando diventano più forti e più ricchi? La loro prole prospera insieme con loro... le loro case sono tranquille e senza timori... il loro toro monta senza mai fallire (Gb 21, 6-10). E la prosperità dei malvagi fa tanto più male se confrontata con la sventura che si è abbattuta su di lui, giusto e retto in tutte le sue vie; lui che, se messo alla prova, come oro puro ne esce (Gb 23, 10).
Come può essere giusto un uomo davanti a Dio?
L'inflessibile e costante rivendicazione della propria giustizia da parte di Giobbe è qualcosa di piuttosto misterioso e impressionante, è qualcosa dietro cui si nasconde un segreto la cui esistenza è perlopiù ignorata, solo una speciale luce dall'alto può condurci alla sua scoperta. Infatti, come non dare ragione a Bildad quando si chiede: Come può essere giusto un uomo davanti a Dio e come può essere puro un nato di donna? Ecco, la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi: tanto meno l'uomo, che è un verme, l'essere umano, che è una larva (Gb 25, 4-6); o a Isaia che afferma: Siamo diventati tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia (Is 64, 5).
Questa sembra essere la visione più spassionatamente lucida e incontestabile dell'uomo davanti a Dio; Giobbe stesso la sperimenta e si contraddice clamorosamente: So bene che non mi dichiarerà innocente. Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti... Allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui (Gb 9, 29-35). Bildad non gli dice dunque nulla di nuovo, anzi, Giobbe è molto più esperto di lui su questo punto, perché vive dolorosamente nelle sue ossa e nella sua carne la lacerazione terribile fra l'aspirazione al bene e l'incapacità di attuarlo. Come San Paolo potrebbe dire: Io so infatti che in me cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (Rm 7, 18-24).
Giobbe fa saltare i nervi ai suoi amici
Eppure, nonostante tutto, Giobbe sente che l'ago della bilancia indica che lui è giusto. Ma fintanto che una sapienza più alta non viene in nostro soccorso siamo prigionieri della seguente contraddizione: se Giobbe è giusto, allora è ingiusto Dio a trattarlo in quel modo, quindi, necessariamente, per difendere Dio dall'accusa di ingiustizia bisogna dichiarare ingiusto Giobbe. Ecco perché ai suoi amici saltano i nervi ogni volta che lui insiste nel rivendicare la sua giustizia: si sentono offesi, lo accusano di sproloquiare, di dire parole vane, di rispondere con ragioni campate in aria. La pretesa giustizia di Giobbe è per loro talmente inaccettabile che ad un certo punto Elifaz perde la pazienza e ingiustamente lo accusa delle più grandi malvagità: È forse per la tua pietà che [Dio] ti punisce e ti convoca in giudizio? O non piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue iniquità senza limite? Senza motivo infatti hai angariato i tuoi fratelli e delle vesti hai spogliato gli ignudi. Non hai dato da bere all’assetato e all’affamato hai rifiutato il pane... (Gb 22, 4-7).
Questo ci fa vedere quanto duro e accanito è lo scontro, quanto inconciliabili sono le posizioni; ma ci fa anche vedere la stoltezza degli amici di Giobbe che si ostinano nel loro giudizio; è la stoltezza di chi pretende ad ogni costo di adeguare la realtà alla propria comprensione e non ha l'intelligenza, la docilità e l'umiltà per capire che è la propria comprensione che deve adeguarsi alla realtà. La realtà che manda in frantumi la sapienza dei sapienti, anche la sapienza religiosa più raffinata e profonda è caratterizzata da questi tre aspetti: Giobbe è giusto, Giobbe è ingiustamente afflitto e torturato, Dio è giusto, Dio è buono. Ma chi può sciogliere questi enigmi? Chi può pacificare o ridare la vita a chi agonizza crocifisso da eventi dolorosi e incomprensibili?
Un aspetto della vicenda è che Dio sembra condurre Giobbe e i suoi amici in un vicolo cieco, come se li costringesse in un angolo da cui non possano evadere; questo non perché non voglia liberarli, ma per togliere loro l'illusione di potersi liberare da soli, per costringerli a fare appello a una sapienza più alta di quella che si rivela incapace di sciogliere gli enigmi contenuti nella vicenda su cui discutono. E Giobbe farà appello a questa sapienza più alta e otterrà da Dio la risposta, perché solo Lui può illuminare le tenebre più fitte e sciogliere gli enigmi più angoscianti, strappare l'uomo dal potere della morte e ridargli la vita, mentre i suoi amici, che pretendevano indicargli una via d'uscita con le loro inadeguate considerazioni, saranno rimproverati da Dio per la loro stoltezza, Giobbe dovrà pregare per loro e così Dio non li punirà come avrebbero meritato (Gb 42, 7-8).
La memoria difensiva di Giobbe
Ecco allora che Giobbe, giunto allo stremo delle forze e della pazienza, parla per l'ultima volta e consegna a Dio, ai suoi amici e a noi, una lunga memoria difensiva che si estende dal capitolo 26 al capitolo 31. In essa ribadisce con una forza impressionante la sua innocenza: Per la vita di Dio, che mi ha privato del mio diritto, per l’Onnipotente che mi ha amareggiato l’animo - ammirabile il suo coraggio nel dire la verità così come un uomo può comprendere la verità! - Finché ci sarà in me un soffio di vita, e l'alito di Dio nelle mie narici, mai le mie labbra diranno falsità e mai la mia lingua mormorerà la menzogna! Lontano da me darvi ragione; fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità. Mi terrò saldo nella mia giustizia senza cedere, la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni... (Gb 27, 2-6). Rievoca poi la prosperità dei tempi antichi quando le cose gli andavano bene e l'Onnipotente era con lui (Gb 29, 5); elenca le opere buone da lui compiute, opere che lo autorizzavano a sperare una sorte ben diversa, invece ora si trova a vivere una desolazione senza nome, una desolazione che ha un’impressionante somiglianza con quella di Gesù durante la Passione: Ora, invece, io sono la loro canzone [degli uomini stolti e malvagi], sono diventato la loro favola!... Né si trattengono dallo sputarmi in faccia!... Essi di fronte a me hanno rotto ogni freno. A destra insorge la plebaglia per far inciampare i miei piedi... cospirano per la mia rovina e nessuno si oppone a loro... I terrori si sono volti contro di me, si è dileguata come vento la mia dignità... Mi ha gettato nel fango: sono diventato come polvere e cenere (Gb 30, 9-19). Qui siamo di fronte a un fatto sorprendente, vale a dire: proprio i dolori e le torture che Giobbe subisce sono uno dei segni più sicuri della sua giustizia davanti a Dio! Giobbe non lo sa ancora e non può saperlo, perché una cosa così enorme può essere chiarificata a lui e a noi solo da Dio quando personalmente ci rivolge la parola. Al termine della memoria difensiva Giobbe diligentemente pone la sua firma: Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! (Gb 31, 35).
Il giovane Eliu vuole dire la sua
Se le parole di Giobbe e quelle dei suoi amici sono terminate non sono però cessati i suoi dolori, infatti, se parlo non si placa il mio dolore, se taccio, che cosa lo allontana da me? (Gb 16, 6). Il suo dolore avrà termine solo quando Dio vorrà, solo quando Dio gli parlerà, quindi, paradossalmente, se il suo dolore rimane è un segno di speranza, perché significa che nessuna risorsa umana riesce a toglierlo, nessuna considerazione spirituale, per quanto profonda, riesce a pacificarlo, deve intervenire Dio stesso. E Dio interverrà. Però nel frattempo Giobbe deve sopportare ancora qualche ulteriore flagello, infatti, sta per abbattersi su di lui lo sdegno veemente di Eliu. Eliu è un giovane pieno di zelo per il Signore che ha assistito con attenzione all’infuocata disputa, ma quando gli amici di Giobbe tacciono rimane deluso: perché non avevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole (Gb 32, 3); aveva aspettato a parlare per rispetto dell'anzianità dei contendenti, ma ora vuole anche lui dire la sua sulla vicenda, ha una quantità di pensieri compressi nel cuore che vogliono uscire, ritiene di avere una sapienza che gli altri non hanno, allora dice a Giobbe: Ascoltami, sta in silenzio e io ti insegnerò la Sapienza (Gb 33, 33). Ma anche se dichiara di voler rispondere con altri argomenti, in realtà il presupposto su cui si fondano tutti i suoi discorsi è sempre lo stesso: Giobbe non può essere dichiarato innocente! Se Giobbe afferma la sua innocenza lui risponde: Ecco, in questo non hai ragione (Gb 33, 12).
Ma perché è così difficile dare ragione a Giobbe? Perché non si crede alla sua innocenza? Perché bisognerebbe ammettere l’inammissibile, perché non si possono giustificare gli scandali, perché non si possono approvare le mostruosità; lo scandalo e la mostruosità a cui sono confrontati gli amici di Giobbe è il fatto che qualcuno soffra dolori e torture atroci pur non avendoli meritati, pur essendo innocente, questo non può rientrare nella comprensione comune della realtà. Ma il non voler riconoscere l'innocenza di Giobbe comporta lo scandalo ancora più grande di dichiarare colpevole un innocente.
Verso la conclusione della vicenda
A questo punto la vicenda giunge a un limite oltre il quale non è possibile andare, ognuna delle parti potrebbe ribadire all'infinito la propria posizione senza riuscire a trovare una soluzione soddisfacente. Qui dobbiamo osservare la differenza fondamentale di atteggiamento fra Giobbe e i suoi amici: Giobbe è costretto dagli eventi, dai dolori che lo affliggono, a non potersi accontentare di nessuna risposta umana, si dispone allora ad attendere una risposta da Dio stesso: L’Onnipotente mi risponda! (Gb 31, 35). I suoi amici invece avevano la presunzione e la stoltezza di pensare che le loro povere considerazioni fossero una risposta adeguata e sufficiente ai problemi sollevati dagli eventi che avevano coinvolto Giobbe, non capivano che certi eventi sono carichi di un mistero che supera le capacità umane di comprensione, sono come un libro chiuso da sette sigilli che solo Cristo è in grado di aprire e leggere senza incertezze di giudizio, perché solo lui è la luce che può sciogliere ogni contraddizione e l'amore che può far risorgere da ogni agonia. Giobbe, i suoi amici e i discepoli di Gesù sono stati condotti a confrontarsi con un mistero di una intensità e di un peso tali da ridurre in frantumi tutti gli schemi mentali, tutte le sapienze spirituali, tutte le forze e il coraggio su cui gli uomini migliori normalmente fondano la loro esistenza. Giobbe, i suoi amici e i discepoli non sapevano di avere una conoscenza di Dio solo per sentito dire; ora questa esigeva di passare a una conoscenza più profonda: la conoscenza della visione. Ma questa ha un prezzo, l'uomo deve accettare una disfatta assoluta, un accecamento totale, la rinuncia a tutte le sue sicurezze, a tutti i suoi riferimenti, a tutte le sue forze…
Per dissipare eventuali equivoci o maldestri tentativi di appoggiarsi ancora su ragionamenti o considerazioni spirituali, ecco un pensiero molto utile del cardinale Giacomo Biffi: “So che la risposta deve stare nel Figlio di Dio Crocifisso, e che in questo (che è il più incomprensibile dei possibili eventi) tutto l'enigma del soffrire umano si comprende. Ma si comprende oggettivamente, in sé stesso, sul piano dell'essere, io, soggettivamente, non lo comprendo e, illuminato da una luce così alta, resto all'oscuro… Se solo nel Figlio di Dio Crocifisso l’uomo si salva dall’insignificanza, come mai di fatto non lo conoscono, come mai non si riesce a farlo conoscere? E come mai, in questo oscuro oceano di pene, si debba sperimentare l’inefficacia, e quindi l’inutilità della preghiera che chiede sollievo?” (Lettere a una carmelitana scalza pag. 172). E meno ancora comprende “l’enigma del soffrire umano” chi, come Giobbe, è toccato nelle ossa e nella carne. Il mistero della Croce, il mistero del Giusto ingiustamente torturato, il mistero dell'Amore che non è amato, il mistero dell'Amore tradito, è un mistero che acceca l'intelligenza, fa sanguinare il cuore e, fra gemiti inesprimibili, dispone a sperare e ad accogliere l'evento della risurrezione. Quando le potenze dei cieli saranno sconvolte... alzate il capo perché la vostra liberazione è vicina (Lc 21, 26. 28)(*). Signore pietà!... Cristo pietà!... Signore pietà!...
(*) Sono state utilizzate le seguenti traduzioni bibliche: CEI74, testo CEI del 1974; BJ, testo La Bible de Jérusalem in francese; Vulgata, testo latino; ove non specificato, testo CEI del 2008.
Nessun commento:
Posta un commento