Vivere
la nostra giornata con Cristo. Ci siamo svegliati, lavati, vestiti,
siamo andati a lavorare, ci siamo riposati, abbiamo mangiato, siamo
andati a passeggio con Lui. Ora dobbiamo considerare quelli che sono
i gesti abituali, comuni, attraverso i quali noi entriamo in rapporto
con gli altri o esprimiamo la nostra intima vita. Si parla, si fa
silenzio, si dà la mano per salutare, si dà uno scapaccione a un
ragazzo; si prende un bambino in collo, si alza il capo, si sta in
piedi, ci si mette a sedere, ci si inginocchia... Tutto questo
avviene ogni giorno. Come fare tutto questo con Cristo? Come compiere
questi atti in Lui? Prima di tutto è importante considerare la
parola. Di fatto, gli altri atteggiamenti non sono propri soltanto
dell’uomo, ma il parlare è l’atto umano per eccellenza. Cantare
no: canta anche l’usignolo; né mettersi a sedere, perché ci si
mette anche la scimmia; né stare in piedi o dare la mano, perché ci
sono degli animali addomesticati che danno la zampa. Parla anche il
pappagallo, potreste dirmi. Non è vero: emette dei suoni, non parla,
perché parlare vuol dire esprimere un contenuto di vita interiore;
ora, il parlare del pappagallo non vuol dir nulla, non implicando il
pensiero, non è l’espressione di una vita interiore,
d’intelligenza e di volontà. La parola è propria dell’uomo: per
questo l’atto umano per eccellenza è la parola.
E
una cosa già estremamente importante notare come un atto che l’uomo
compie può essere compiuto su diversi piani. Se un innamorato per la
prima volta dice alla sua donna che l’ama, questa parola è carica
di ben altra intenzionalità e intensità di vita delle parole comuni
che si possono dire al primo venuto camminando per strada.
Una
parola può esser detta su piani diversi: si può dirla con
superficialità, senza che il nostro essere sia minimamente
impegnato; si può dirla, e il nostro essere è impegnato, ma non a
rivelarsi, perché ci si può impegnare anche a nasconderci, a non
dire affatto quello che noi siamo, quella che è la nostra vita
interiore. Magari non diciamo una bugia, ma si mena il can per l'aia,
come si suol dire: parole che dicono e non dicono, che ci mantengono
pienamente liberi nei confronti degli altri che ascoltano.
Si
può parlare in tal modo che veramente siamo impegnati, ma impegnati
limitatamente; si va da un malato, lo si conforta, ma intanto si
pensa: «Che farà per ora mio figlio a casa?». Si può essere
dinanzi al malato, fargli tutte le nostre piccole esortazioni, dirgli
due parole buone, e intanto si pensa: «E l’ufficio?... E la
scuola?...».
La
nostra vita è lontana da quello che diciamo. Non viviamo
intensamente, totalmente quello che diciamo. Un innamorato – per
riprendere il primo esempio – quando dice la prima volta alla sua
donna che l’ama, non pensa all’ufficio o a quello che l'aspetta a
casa: è tutto lì; quella parola lo rivela tutto, lo dona tutto, lo
impegna totalmente.
Come
dobbiamo parlare? La parola, dicevo già prima, è l’atto umano per
eccellenza. Dio stesso per rivelarsi ha voluto usare la parola
dell'uomo. E cosa significa per Dio rivelarsi? Significa comunicare
Sé stesso, perché Egli è pura intelligenza; comunicare il suo
Spirito, farsi conoscere dall’uomo. Farsi conoscere voleva dire
farsi possedere. Così la Sacra Scrittura esprime il possesso nei
termini di una conoscenza: Adamo «conobbe» Eva (Gen 4,1).
Ugualmente farsi conoscere volle dire per Dio lasciarsi possedere
dall'uomo. Se Dio si fa conoscere, vuol farsi possedere.
Come
si fa a conoscerlo? Egli parla. È vero che Dio si rivela attraverso
la creazione, ma la conoscenza di Dio attraverso la creazione non è
intima, profonda, non è personale.
Potete
pensare nostro Signore che va per la strada e dice al
primo
venuto: «Guarda, oggi piove»? Pensate che Egli
parli
così? No, ogni sua parola impegna tutto l’essere suo. E veramente
l’espressione della sua intima vita, la rivelazione del suo
pensiero segreto, il dono ineffabile che Egli fa di tutto Sé stesso
a coloro che Lo ascoltano.
Che
fatica parlare, se veramente parliamo! Noi generalmente non parliamo:
chiacchieriamo. Il nostro parlare è un chiacchierare dalla mattina
alla sera, non è veramente parlare. Non siamo totalmente impegnati,
anzi spesso parliamo per non impegnarci, viviamo in superficie. Per
questo nella vita religiosa è tanto raccomandato il silenzio: non
perché il silenzio è più grande della parola. Al contrario: la
parola è più grande del silenzio. L'atto del Padre è la
generazione del Verbo, è il dire la Parola. Tutta la vita del Padre
è la generazione del Verbo: la generazione del Verbo consuma tutta
l’eternità, tutta la vita di Dio. Parlare è molto più che stare
in silenzio. Perché, allora, nella vita religiosa si apprezza più
il silenzio della parola? Perché in generale, come dicevo, non si
parla: si chiacchiera. Perché per noi la parola è un modo di
sfuggire all'impegno, invece che la realizzazione di un impegno
totale.
Quando
tu parli a una persona, ricordati che devi comunicare te stesso. Per
fare un esempio: quando tu parli, ti doni come una madre quando
veglia al capezzale del figlio? Quando si parla, non si parla mai
fino in fondo. Le nostre parole ci nascondono, non dicono nulla. Se
tu parli devi comunicare la tua intima vita.
Parlare
è una cosa grande. Non abbiamo ancora imparato. Abbiamo imparato a
parlare quando avevamo pochi mesi, siamo già avanti negli anni e
forse... non abbiamo mai parlato! Oppure sì, ma pochissime volte;
nell’occasione d'una morte: allora veramente dal più intimo della
nostra anima è uscita una parola di conforto per una sorella, per un
fratello, per un'amico che soffriva; oppure in un atto d’amore che
veramente esprimeva il dono di tutto l’essere nostro e di tutta la
nostra vita a colui che amavamo: forse una creatura, forse Dio
stesso.
Abbiamo
parlato altre volte? Sì, forse; ma in generale le nostre parole
invece di comunicare noi stessi ci nascondono agli altri, invece
d’impegnarci ci pongono su un piano di superficialità, di
dissipazione interiore. Non possiamo donarci, perché non ci
possediamo. Le nostre parole sono molto spesso l’espressione di una
vita in cui l’uomo non ha neppure realizzato sé stesso. Non
possiamo donarci perché non ci siamo ascoltati: le nostre parole non
sorgono dal profondo, sono soltanto sulle labbra; non derivano dal
cuore, né tanto meno dall’intimo della nostra anima.
Bisogna
che la nostra parola sia veramente parola, ci esprima, sia
rivelazione del più intimo segreto dell’essere nostro. Anche fra i
libri (i libri non sono parola dell’uomo?) quali sono quelli che
veramente ci parlano? Non parliamo di libri religiosi. Solo Dio parla
bene di Dio, diceva Pascal. La parola umana, dev'essere carica non
solo d’intelligenza, ma di sentimento, deve esprimere tutto
l'essere umano. La parola vera dell’uomo è la poesia. Quanti sono
i poeti nel mondo? E questi, quante volte sono stati veramente poeti?
Sono miliardi di miliardi ormai gli uomini che sono vissuti quaggiù
sulla terra, e i poeti si contano ancora sulle dita delle due mani.
Vogliamo essere generosi? Ammettiamo che siano cinquanta. Ma questi
cinquanta quante volte veramente sono stati poeti? Pochissime volte.
Altre volte la loro parola era soltanto finzione retorica, esercizio
tecnico...
Prendete
il Leopardi, uno dei pochi veri poeti italiani: quand’è veramente
poeta? Nelle Rimembranze, in A Silvia, forse Il sabato del villaggio,
forse – almeno in parte – La quiete dopo la tempesta, L'infinito,
alcuni versi della Vita solitaria e alcuni versi della Sera del dì
di festa... E il resto? Esercizio poetico, non vera e profonda poesia
che riveli l’intimo essere e lo doni; esercizio retorico,
attraverso il quale egli, sì, dice qualcosa, perché rimane poeta,
ma la parola, invece di essere pura trasparenza, è impedimento e
opacità. E questo è vero non solo per Leopardi, ma anche per Dante,
per il Petrarca; e sono grandissimi poeti. Qualche volta il poeta
arriva, se non a dire se stesso, pure a far intravedere se stesso, a
far capire qualcosa... Ma quante poche volte il lettore entra in una
vera comunione con un’anima attraverso la lettura di un’opera
letteraria! Perché nemmeno chi scrive si è espresso, ha donato la
sua intima vita: prima di tutto perché non l’aveva – perché,
certo, per essere poeti bisogna essere anche grandi uomini —,
secondariamente perché la parola gli è mancata. -----
Questo
è vero anche sul piano religioso. Quanti sono i libri religiosi
veramente grandi nella letteratura cristiana? Ogni anno si pubblicano
centinaia e centinaia di libri: quanti libri rimangono soltanto carta
stampata? Si contano sulle dita delle mani i grandi libri che sono
testimonianza viva di un'esperienza interiore, che può arricchire e
alimentare le generazioni. Si fanno sempre i medesimi nomi: Origene e
Agostino, Ignazio di Antiochia e Gregorio di Nissa, Dionigi il
mistico e Gregorio Magno, Bernardo e Bonaventura, Ruysbroeck e
Caterina, Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, Newman e Rosmini,
Francesco di Sales e Teresa del Bambino Gesù, Alfonso... Sì, anche
altri, ma non troppi. Potevano essere santi, ma non hanno avuto il
dono della parola. Non è attraverso i loro scritti che essi ci hanno
parlato, ma piuttosto attraverso la vita. La loro parola non è stata
trasparente, non ci ha comunicato la loro intima vita. Chi legge più,
oggi, le prediche di san Leonardo da Porto Maurizio? Certamente era
un gran santo, ma la parola è rimasta, anche per lui, un esercizio
di eloquenza, almeno * parte; e siccome fu esercizio di eloquenza,
ora non vive più, nessuno l'ascolta. Egli viveva altrove da quello
che diceva. Eppure era santo. Figuriamoci gli altri! -
Noi
dobbiamo parlare; ogni giorno parliamo. Come parliamo? Non ci
illudiamo: non riusciremo mai veramente a parlare. Il bambino, per
cominciare a balbettare qualche parola ha bisogno di giorni e giorni
di fatica, e tutti gli sono h d'intorno a suggerirgli «Babbo...
mamma...». Noi, dopo decine di anni, dobbiamo ancora imparare a
balbettare, a dire una parola che veramente ci riveli, che sia il
dono di noi stessi a colui che ci ascolta. In ogni parola dobbiamo
donarci e donarci totalmente. Ogni parola ci impegna, ci deve
impegnare fino in fondo. Invece le nostre parole sono superficiali e
non donano nulla; se dicono qualcosa, dicono il dispetto di essere
disturbati, dicono la nostra volontà di sottrarci all'impegno
chiacchierando... per non dir nulla.
Proprio
per questo le nostre parole devono essere poche per essere davvero
efficaci. Se quando pregate sentite il bisogno di non chiacchierare
troppo – la nostra preghiera, via via che diviene reale, che
diviene viva, ha bisogno di liberarsi dalle tante parole, si riduce
all'essenziale: è un'invocazione, una sola parola, e in quella
l'anima si fissa, perché esprime tutta la vita –, perché mai, se
questo avviene con Dio, non dovrebbe avvenire fra gli uomini? Quando
si parla molto, segno è che si dice ben poco Chi veramente parla non
potrebbe mai moltiplicare le sue parole. Bisogna che la nostra parola
salga dal fondo, esprima veramente l'intima vita. Forse non
riusciremo mai.
C'è
riuscito nostro Signore: la sua parola rimane eterna. Qualunque
parola Egli abbia detto, rimane. Le nostre parole, invece, sono già
dimenticate da noi stessi il giorno dopo.
Certo,
non possiamo parlare come parlava Gesù! Non solo perché non
possiamo dare Dio attraverso la nostra parola, ma perché non
possiamo dare nemmeno noi stessi, per la ragione che nessuno di noi
si possiede così da potersi pienamente donare. È impossibile per
noi vivere sempre un tale impegno. In pochi anni morremmo, se
vivessimo una vita così impegnata, così tesa. Non possiamo in ogni
nostra parola donarci totalmente. Ma che almeno le nostre parole non
siano vane. Dobbiamo rispondere, dice Gesù nel Vangelo, di ogni
parola inutile ricordiamocene! Parola inutile è quella che non
c'impegna, che non dice nulla, che non porta con sé nessun contenuto
d'affetto, di volontà, d'intenzionalità: si dice per dire, si parla
per parlare... Si tradisce la nostra vocazione di cristiani, anzi, la
nostra natura umana nella sua dignità. Non si può parlare per
parlare.
Accennavo
prima all'insistenza, in tutte le Regole di vita religiosa, sulla
necessità di conservare il silenzio. Non è vero che il silenzio sia
maggiore della parola: la vita di Dio si esprime tutta nella Parola,
in una Parola sola; Egli la dice per tutta l'eternità ed è tutta
l’eternità: la generazione del Verbo. Non è vero che il silenzio
sia d'oro e la parola d'argento: è la parola che è d'oro e il
silenzio d’argento.
Le
nostre parole non sono nemmeno di stagno! Dobbiamo cercare che la
nostra parola dica qualcosa, dica noi stessi, non sia mai una parola
che ci nasconde, onde cerchiamo di evadere, di sfuggire all’impegno,
di sfuggire alla esigenza di donarci a colui che ci ascolta.
Dobbiamo
andare oltre: non si tratta soltanto di questo. La parola, per noi,
non deve esprimere solamente noi stessi, ma Cristo. «Si quis
loquitur, quasi sermones Dei», «Se alcuno parla, sia come con
parole di Dio». -
Gesù
è uomo, ma attraverso la sua parola rivela Dio stesso.
E' una
rivelazione di Dio quella che Gesù compie attraverso il suo umano
linguaggio: la sua parola rimane una parola umana, ma attraverso di
essa Egli dice Dio, comunica Dio. Così il cristiano. Non basta che
tu doni te stesso: doni sempre ben poco fintanto che doni solo te
stesso. Devi dare Dio.
Ricordiamoci
tuttavia che non si può dare Dio se non diamo noi stessi. - -
Questa
è una cosa importante. Non pretendiamo di poter dare Dio
chiacchierando a vanvera di nostro Signore, delle Cose belle e delle
cose buone. Fintanto che non siamo realmente impegnati a fondo, non
doniamo né Dio né noi stessi.
La
parola che dona Dio deve salire da un abisso ancora più fondo della
parola che dona l’essere tuo. Dio è intimo a noi più di noi
stessi, Egli abita nel più profondo del nostro
spirito.
Lo dice la teologia:
nel centro dell’anima Dio abita, nel Più profondo dell’essere,
nella radice stessa dell’essere. Come fai a dare a Dio se non
raggiungi questa radice, se la tua parola
non
sorge da
questa profondità donde promana anche l’essere tuo
di creatura?
La parola che dona Dio è quella che sorge dall'abisso più fondo.
Intorno ai santi sorgono i santi. Un santo basta a comunicare
la vita soprannaturale attraverso la parola a coloro che gli stanno
vicino. San Francesco: sono decine i beati che sorgono vicino a lui:
Egidio, Bernardo, Bonaventura, Antonio..
sorgono
come
polloni da un unico tronco! Così sant'Ignazio: intorno a lui San
Francesco Saverio, san Pietro Canisio... Così san Giovanni Bosco:
intorno a lui don Rua, don Beltrami, Czartorivschki... Perché non
facciamo dei santi? Perché la nostra parola non dona Dio. Bisogna
che impariamo a parlare. Non si tratta di fare dei discorsi: se ne
fanno anche troppi, ma di parlare il linguaggio più semplice, più
essenziale, e attraverso ogni parola alle anime dare Dio. È la sua
parola che ha creato la Chiesa e ha dato al mondo la santità.
Che
noi possiamo comunicarla a chiunque ci ascolta! Perché questo
avvenga, la nostra parola sorga dalle più intime radici dell'essere,
non sia il dono solo di noi stessi ma di Colui che ci crea. Bisogna
parlare anche del silenzio. Non si può parlare soltanto. Non si può
parlare se prima non ci si ascolta. Di che cosa parlare se non
sappiamo che dire? Non ci possediamo: come possiamo donarci?
Bisogna
saper ascoltare per imparare a parlare. Soltanto uno che sa pregare
può anche parlare. Come dovremmo esser fedeli a questa regola! Non
parlare senza prima esserci ascoltati e aver ascoltato Dio. Per
parlar bene bisogna saper fare silenzio; la parola che diciamo è una
parola che dobbiamo aver ascoltato. La nostra parola per esser vera,
efficace, deve ripetere quella di Dio. Se attraverso la nostra parola
dobbiamo comunicare Dio stesso, dobbiamo prima imparare nel silenzio
ad accoglierlo, ad ascoltarlo.
C'è
modo e modo di far silenzio. Far silenzio può anche voler dire non
voler parlare. È scritto: «Et siluit a facie eius ommis terra»,
«Tutta la terra tacque davanti a lui», e si parla di Alessandro il
Macedone. Tutta la terra rimase come esterrefatta, sgomenta di fronte
a questa potenza d'invasione che fu la sua vita. È il terrore che fa
i silenzio. Noi possiamo incutere soggezione e timore. La nostra
presenza non deve paralizzare nessuno.
Con
nostro Signore parlavano tutti: dovevano esser gli Apostoli a
cacciare via la gente! Bambini, donne, importuni, non Lo lasciavano
in pace. Ed era Gesù! Ognuno poteva accostarsi a Lui e parlargli, ed
Egli parlava con tutti. Noi invece spesso preferiamo parlare con chi
ci capisce, e non riusciamo a parlare allo spazzino che troviamo per
strada: ci troveremmo forse a disagio, non sapremmo che linguaggio
usare con lui. È segno che non amiamo.
Non
è questo il silenzio. Il silenzio che mi è chiesto è quello di
saper ascoltare. Non è rifiuto di parlare. Non si deve tacere per
rifiuto di comunicare noi stessi. Si parla volentieri con le persone
perbene, con quelli che ci piacciono o non ci chiedono nulla; con gli
altri... lo stretto necessario per non mancare alla carità. Altro è
non mancare alla carità, altro è vivere veramente la carità verso
tutti. E tu devi donarti a ciascuno, devi perciò sapere comunicare a
ciascuno te stesso, attraverso la parola. ---
Perché
questo avvenga s'impone fare silenzio: un silenzio, prima di tutto,
onde io ascolto me stesso. Dobbiamo vivere una vita interiore. Non
abbiamo nulla da dare se non viviamo questa vita interiore. Silenzio
onde ascoltiamo il Signore. E silenzio, finalmente, che è un saper
ascoltare gli altri, accoglierli. Non puoi parlare se non ascolti.
Che cosa puoi dire se non sai quello di cui gli altri hanno bisogno?
È come
dare il pane a uno che
ha già mangiato e ha bisogno invece di bere. Tu gli dici delle
parole che egli non riceve, non accoglie, perché non sono un
nutrimento per lui. Bisogna saper ascoltare
gli altri per poter parlare. È vero che la tua parola è sempre il
dono di ma deve essere un dono che risponde anche alle esigenze, al
bisogno, al momento, all’opportunità. Bisogna che tu sappia capire
gli altri, accoglierli, ascoltare la loro parola non sempre espressa,
una parola che sorge dall'atteggiamento loro;
dal loro bisogno, dalla loro natura, dall’occasione stessa dell
'Incontro.
Più
ancora, dobbiamo insistere. Non si tratta soltanto di parlare agli
altri, si tratta di parlare a Dio. Anche con Dio, quante chiacchiere
a vanvera! In generale, le nostre parole non dicono nulla, anche
quando ci rivolgiamo a nostro Signore.
Pensavo
stamani mentre dicevo le Lodi: che cosa dicevo realmente a Gesù?
Tutte parole! Gli dicevo qualcosa, ma non quello che le parole
dicevano. E allora le mie parole che cos’erano? Una finzione,
perché se dicevo qualcosa non lo dicevo attraverso quelle parole;
pronunciavo quelle parole e quelle parole non dicevano nulla.
Parlare
a Dio vuol dire dare a Dio noi stessi. In ogni parola che diciamo
offriamo a Dio l’anima nostra e l’apriamo ad accogliere il suo
dono. Sia questa la nostra preghiera e dica realmente qualcosa, anzi
dica tutto quello che siamo! In ogni parola deve essere tutto
l’essere nostro che si rivela e si comunica al Signore, perché
altrimenti non è la nostra parola.
Vedete
Dio? In una parola Egli comunica tutto. Tutto quello che il Padre è,
tutto Egli esprime, tutto Egli comunica al Verbo. Unica Parola che
riempie l’eternità. Che la tua parola detta a Dio esprima
totalmente te stesso, dica tutto l'essere tuo, sia il dono di tutta
la tua intima vita al Signore, nell'umiltà, nell'amore; sia il dono
di tutto te stesso a Dio nel sentimento della tua miseria,
nell'implorazione della sua misericordia, nella lode divina, nella
gioia di essere amato. Sia una parola che ti esprima totalmente, e
non una parola vuota.
Anche
nella nostra vita religiosa: quanto più veramente ci doniamo, tanto
meno parliamo. È come nel parlare con gli altri il parlar molto vuol
dire non dar nulla, vivere alla superficie, non rivelare cosa alcuna.
Quanto
più veramente la parola è efficace, tanto più è essenziale. Così
con Dio. Se veramente noi crediamo nel Signore, non possiamo
moltiplicare le nostre parole. E un consiglio che ci dà Gesù:
«Quando preghi non moltiplicare le parole» (Mt 6,7). Severamente si
prega non si dicono molte parole, una parola basta a rivelare quello
che siamo, a donare a Dio l’essere nostro. Così la preghiera,
nella misura che diviene vera, si fa anche essenziale, si riassume in
una invocazione sola, in un gemito solo, in una sola implorazione o
in una sola parola di lode. Finalmente si esprime in una parola che è
puro silenzio, perché allora veramente ti doni, quando tutto Lo
accogli: non puoi donarti a Dio che nell'accoglierlo in te.
La
parola più alta dell’uomo nel rivolgersi a Dio rimarrà sempre il
silenzio. Dio dice la Parola, praticamente preghi di una preghiera
perfetta quando accogli la Parola nell’intimo tuo e divieni il
luogo nel quale Dio genera il Verbo. Egli è generato in te quando
vivi la preghiera perfetta. La preghiera perfetta è il puro silenzio
dell'anima nella quale il Padre stesso dice la Parola ineffabile.
Questo
vuol dire parlare e fare silenzio. Ogni giorno si parla, ogni giorno
si fa anche silenzio. Dobbiamo far silenzio e parlare, in modo che la
parola sorga dal più profondo dell’essere, sia il dono di tutto
l’essere all’altro e soprattutto a Dio. E il nostro silenzio sia
un accogliere, sia il silenzio dell’attenzione, della riverenza,
dell’amore.
Il
tuo silenzio accolga gli altri e accolga Dio: sia attenzione a Dio, a
tutti i fratelli, a te stesso, perché tu in ogni istante veramente
ti possegga per poterti anche donare.
Silenzio
e parola sono insieme congiunti: si può vivere il nostro parlare
solo se si vive il nostro silenzio; non si può vivere il nostro
silenzio che in ordine alla nostra parola, perché il silenzio da
solo sarebbe puro egoismo, la morte, il chiudersi in sé. Ma è
morire il parlare senza fare silenzio, perché allora non doni più
nulla e non vivi nemmeno più: ti disperdi, ti svuoti.
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