Il nostro cuore deve essere ancorato alla
speranza...... altro non è che il “ filo dall'alto”....Perché,
dov'è il tuo tesoro, là sarà
anche il tuo cuore.(Mt.6,21)
In un radioso mattino di settembre un
piccolo ragno
giallo decise di costruire la sua tela. Girovagò a
lungo ai
margini del bosco, salì su un alto albero, poi si calò
giù
attaccandosi al suo filo lucente e si posò su una siepe
spinosa. Lì cominciò a costruire la sua tela lasciando
che il
filo, lungo il quale era disceso, reggesse il lembo
superiore di
tutto l’impianto. Era un’opera bella e
grande che si slanciava verso l’alto,
e quasi scompariva
nell’azzurro del cielo. Passavano i giorni e il
ragnetto
diventava grande. Quando le mosche scarseggiavano si
vedeva costretto ad ampliare la tela; e questo gli era
possibile
proprio grazie a quel filo che scendeva dall’alto, del quale non si
riusciva a vedere la fine. Una
mattina il nostro amico, vuoi per il
freddo della notte,
vuoi soprattutto per la fame arretrata, si
svegliò di pessimo umore e così, di punto in bianco, decise di fare
un
giro d’ispezione sulla tela:
controllò ogni angolo, tirò
ogni filo, rimise tutto in ordine,
finché notò nella parte superiore della rete un filo teso verso
l’alto di cui non
ricordava la funzione e nemmeno l’esistenza.
Di tutti
gli altri fili conosceva l’importanza, i punti di snodo,
i
ramoscelli dove erano stati fissati; ma quel filo inesplicabile
non andava da nessuna parte. Il ragno cercò di
osservare da ogni
angolatura, si rizzò sulle zampette,
guardò con tutti i suoi
occhi... ma non riuscì a capire
dove andasse a finire. «A cosa serve
questo stupido filo...» disse il ragno, «via i fili inutili!». Un
colpo di mandibole e... patatrac!, tutto gli rovinò addosso. Aveva
dimenticato che, un lontano mattino di settembre, lui
stesso era
sceso giù da quel filo, e da lì aveva iniziato a
tessere la sua
tela. Ora, invece, si trovava a giacere sulle foglie della siepe
spinosa, imprigionato nella sua
stessa rete divenuta ormai un
piccolo, umido cencio.
Era bastato un solo istante per distruggere
una magnifica opera e soltanto perché non era riuscito a capire
l’importanza di quel “filo dall’alto”.
(Da una novella di Johannes Jørgensen)
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La speranza (CCC) n°1817
: La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il
regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la
nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle
nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello Spirito Santo. «
Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza,
perché è fedele colui che ha promesso » (Eb 10,23). Lo
Spirito è stato « effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo
di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua
grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna »
(Tt 3,6-7).
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Dalla
Lettera Enciclica “ SPE
SALVI “ di
Benedetto XVI
“…...Giungere
a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza.
Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci
siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene
dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.
L'esempio
di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a
capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente
questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da
Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non
sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove
anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e
venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava
si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e
lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di
ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu
comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto
Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia.
Qui, dopo « padroni » così terribili di cui fino a quel momento
era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un « padrone »
totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva
imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù
Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la
disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la
consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste
un « paron » al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i
signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva
a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche
lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal «
Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi
stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era
attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il
destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio
Padre ». Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola
speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io
sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa
da questo Amore. E così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza
di questa speranza lei era « redenta », non si sentiva più
schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva
quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza
Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. Così, quando si
volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a
farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu
battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle
mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò
i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora –
accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del
chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di
sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante
l'incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere,
doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di
persone. La speranza, che era nata per lei e l'aveva « redenta »,
non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti,
raggiungere tutti.”
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“…..L'uomo
ha, nel succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più
grandi – diverse nei diversi periodi della sua vita. A volte può
sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non
abbia bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere la
speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa
posizione nella professione, dell'uno o dell'altro successo
determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze
si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il
tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che
vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di
infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai
raggiungere. “
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“…..Ancora:
noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi –
che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande
speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa
grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che
può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere.”
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