Dire
“grazie” è così facile, ma spesso è anche tanto difficile.
Talvolta è forse solo l’abitudine a non renderci del tutto
consapevoli del bisogno che abbiamo l’uno dell’altro: in primo
luogo di Dio, poi anche di molte altre persone che a volte non
conosciamo; come, ad esempio, il contadino che ha munto la mucca,
grazie al quale noi al supermercato possiamo comperare il latte. Non
ce ne rendiamo conto e non sentiamo il bisogno di ringraziare. Quando
poi gli manca qualcosa o le cose non corrispondono a quanto
desiderato, l’uomo si lamenta subito e diventa scontento. In fondo
è una forma di incredulità, perché se fossimo convinti che, nel
Suo amore, Dio si occupa di noi perfino nelle cose più banali, non
ci lamenteremmo subito quando una situazione non corrisponde alle
nostre aspettative o è contraria ai nostri piani. Chi dice grazie,
testimonia l’importanza della gratitudine. Questa è una delle
verità fondamentali dell’umanità: tutta la nostra vita, dalla
nascita alla morte, è un dono; la nostra anima, il nostro corpo, i
nostri talenti, tutto è un dono di Dio, che noi abbiamo ricevuto
senza aver fatto nulla, senza aver presentato alcuna richiesta. I
nostri genitori ci hanno donato il loro affetto e le loro premure,
senza i quali non avremmo potuto sviluppare la nostra personalità.
Se da giovani siamo stati convinti di avere in mano le redini della
nostra vita e di riuscire a realizzarla secondo la nostra volontà,
nella vita spirituale dobbiamo riconoscere che siamo sempre e solo
coloro che ricevono tutto in dono. In tutti i sacramenti, dal
Battesimo all’Eucarestia, riceviamo gratuitamente, e senza alcun
merito da parte nostra, il dono più grande che un uomo possa
ricevere: la presenza in noi del Dio in tre Persone. Come risposta ci
resta solo una profonda gratitudine: “Celebrate il Signore
perché è buono, perché eterna è la Sua misericordia”. (Sal 107)
Una
persona riconoscente è una persona umile
La
sorella di S. Teresina di Lisieux, Céline Martin, era quattro anni
più grande di lei, però nel Carmelo si trovava tra le sue allieve.
Nelle sue annotazioni Céline ci ha trasmesso alcuni consigli
preziosi di colei che sarebbe diventata Dottore della Chiesa: “La
mia cara piccola sorella mi ha detto: ‘Quel che attira la maggior
parte delle grazie da Dio è la gratitudine. Quando Lo ringraziamo
per una grazia, Egli è commosso e si affretta a darcene altre dieci.
Se poi noi Lo ringraziamo di nuovo con la stessa sincerità, quali
moltiplicazioni di grazie incalcolabili! Provalo e vedrai. La mia
gratitudine è senza limiti per tutto ciò che mi dà ed io Glielo
dimostro in mille modi’.” S. Teresina ci insegna come si
possono coniugare gratitudine e umiltà. Quanto più modesta e umile
è un’anima, tanto più diventa grata e robusta nella fede così
che anche le sofferenze possono essere accolte come un dono di Dio
La
gratitudine è un atteggiamento del cuore
Spesso
non siamo nella disposizione di spirito di ringraziare, vorremmo
piuttosto lamentarci e piagnucolare. Nelle situazioni di sofferenza,
che ci rendono ciechi per il bello e il buono che possediamo,
dovremmo aiutarci con la volontà e l’intelletto. Di conseguenza la
gratitudine diventa educazione dei sentimenti, che non ci fa più
dipendere dall’umore momentaneo, ma che, persino nelle situazioni
difficili, ci dà contentezza e gioia Marija Pavlovic Lunetti di
Medjugorje, tra un gruppo vivace di italiani, era rimasta colpita
dalla figura di un sacerdote piccolo e anziano, il cui volto emanava
una gioia profonda e particolare. Dopo la conferenza lo ha avvicinato
e gli ha chiesto: “Chiedo scusa per la mia domanda diretta, ma
per favore potrebbe dirmi perché lei è così pieno di gioia? Ha una
ragione particolare?”. - “No, piuttosto è un mio piccolo
segreto. Ma glielo vorrei rivelare, signorina”, ha risposto il
sacerdote sorridendo. “Ho 95 anni. A cinque anni ho dovuto
constatare con dispiacere che la gente si lamentava per i motivi più
banali, e ne sono rimasto scioccato. Ho avuto anche la sensazione che
Gesù fosse triste per questo. Allora ho fatto un patto con Lui e Gli
ho promesso di non lamentarmi per i prossimi 100 anni della mia vita;
al contrario di lodarLo per tutto, per i giorni buoni come anche per
i cattivi, e di onorare sempre il dono della vita. E debbo dire,
signorina, che ho sempre mantenuto la mia promessa Durante gli anni
in cui ho lodato la vita, il maligno non mi ha potuto fare nulla e
così ho evitato tutti i demoni!”. - “Ma se lei ora ha 95 anni,
il patto si concluderà tra poco!”.- “Ci ho pensato recentemente
… e ho detto a Gesù di essere pronto ad una proroga del contratto
per i prossimi 100 anni!”.
Questo
sacerdote, di quasi cento anni, ha dimostrato con la sua vita che la
gratitudine lo ha fatto diventare una persona felice. La gioia della
gratitudine si diffonde, ottiene azioni buone. Se io ho ricevuto
tanto, desidero condividere con gli altri. Ecco perché le persone
riconoscenti sono benvolute. Creano contentezza e una piacevole
serenità, nonostante anche loro abbiano da sopportare qualche
situazione triste. La loro compagnia è gradevole, e questo aumenta
la felicità da entrambe le parti. Chi non è grato, si lamenta
facilmente e critica, fatto che aumenta l’insoddisfazione e rende
più sgradevoli le situazioni. Se però il nostro cuore è pieno di
gratitudine, allora non ci sarà spazio per la gelosia, l’invidia,
la vendetta, lo sfavore, la rabbia, l’avarizia, l’avvilimento o
addirittura la disperazione. Perciò la consapevolezza di ciò che
abbiamo ricevuto e l’esserne grati è il rimedio migliore, quando
ci accorgiamo di possedere alcuni di questi difetti che ci fanno
soffrire. Si può davvero dire: la gratitudine è una chiave per la
felicità. Perciò S. Paolo incoraggia i Tessalonicesi: “In ogni
cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo
Gesù verso di voi”. (1 Ts 5,18)
Ringraziare
per la sofferenza?
Ma
cosa fare se ti colpisce una disgrazia, se per una catastrofe
naturale perdi tutti i tuoi beni o se all’improvviso scopri di
avere una malattia grave? E’ possibile ringraziare anche
considerare la sofferenza un dono. Nel libro edito dai fratelli P.
Thomas e P. Valentin Gögele, in cui sono descritte cento
testimonianze di sacerdoti cattolici, Alves de Oliveira racconta
un’esperienza decisiva che ha segnato tutto il suo sacerdozio:
“Sono stato chiamato in un ospedale per far visita a una donna che
aveva partorito il giorno precedente. Ho eseguito questo compito con
tanto entusiasmo e mi sono preparato a visitare anche altri pazienti.
Mi è venuta incontro una ragazza che mi ha chiesto di andare da sua
madre e di parlare con lei: ‘Il medico ha detto di aver fatto
tutto quello che era nelle sue possibilità...’. Si trattava di
una donna malata di cancro vicina alla morte. Non mi sarei mai
immaginato che quel giorno da quell’incontro avrei tratto un
insegnamento per tutta la mia vita. ‘Chiedo la sua benedizione’,
mi ha detto la signora. Aveva gli occhi incavati, era pallida: la sua
malattia era evidente. Ero convinto che il Signore mi aveva condotto
lì per consolare quell’anima.
Dopo
la confessione e durante l’unzione degli infermi tante lacrime le
hanno rigato il volto. Ero commosso all’idea che in quel momento le
mie mani erano le mani di Gesù, che portavano consolazione ad un
essere umano vicino alla morte. Prima di uscire dalla stanza per
chiamare i parenti, ho detto dolcemente: ‘Oggi le ha fatto
visita Gesù, ringrazi Lui e non sia triste!’. – ‘Mi
considero una malata molto felice’, mi ha risposto. Non mi
aspettavo queste parole e forse ho reagito in modo piuttosto turbato.
Quando se ne è accorta, la signora ha aggiunto: ‘Prima di
ammalarmi non ero mai stata così felice. Nel mio matrimonio ho
sofferto per 37 anni. Sono stati anni dominati dall’infedeltà e
dall’alcolismo di mio marito, che non riusciva a togliersi questi
due vizi. Ho pregato molto e ho chiesto al Signore di liberarlo e di
cambiare la sua vita. Poi, quando mi è stata diagnosticata la mia
malattia, ho notato che mio marito ne era rimasto profondamente
colpito e che qualcosa nel suo intimo cominciava a cambiare. Qualche
giorno fa mi ha chiesto perdono per tutte le sofferenze che mi ha
procurato, ma molto prima io avevo compreso che la mia malattia aveva
curato la sua. Il mio matrimonio così si è salvato! Inoltre, mia
figlia, la ragazza che l’ha chiamata, soffriva di una grave forma
di depressione… Più volte ha tentato di togliersi la vita.
Quante volte ho pianto con il rosario in mano e ho chiesto a Dio un
miracolo per mia figlia! Quel miracolo è accaduto davvero. Dopo che
in clinica ho iniziato le cure contro il cancro, mia figlia è
guarita completamente... Quando mi sentivo scoraggiata, è stata lei
a cercare di distrarmi con delle storie allegre e a dimostrarmi
quanto mi ama’.
Il
racconto della donna mi ha molto commosso. Continuando mi ha detto
ancora: ‘Deve sapere che mio figlio più grande, sposato da 15
anni, era vicino a divorziare. Aveva avuto una crisi di fede e voleva
lasciare la Chiesa cattolica, ma sua moglie non era d’accordo. Ero
disperata per questa situazione e mi sono sentita avvilita, perché,
nonostante le sofferenze causate da mio marito, non avevo mai preso
in considerazione il divorzio... Spesso ho pregato in silenzio per
loro. Ciò che non hanno detto le mie labbra, ha proclamato poi la
mia malattia. Da tre mesi, ora è tutto di nuovo a posto. Vengono
tutti i giorni a trovarmi e recitiamo insieme il rosario. Mio
figlio ha ritrovato la fede e rispetta la Chiesa. La malattia del
cancro ha salvato la mia famiglia. Ora posso morire in pace grazie
alla benedizione che Dio mi ha dato attraverso i sacramenti e grazie
alla gioia che provo, perché la mia famiglia è stata salvata
attraverso la mia sofferenza’.”
Non
tutti i sofferenti hanno la grazia, come questa donna brasiliana, di
vedere i frutti del loro sacrificio. S. Elisabetta Canori Mora
(1774-1825), per esempio, ha pregato e sofferto tutta la vita per la
conversione del marito, ma solo dopo che è morta egli ha cambiato la
sua vita di leggerezza ed infedeltà ed è diventato un cristiano
profondamente fedele. E’ morto santamente come sacerdote e monaco.
Una sofferenza non è mai persa, se accettata con amore e unita alla
Passione di Cristo. Con questa certezza, anche nel dolore, possiamo
dire grazie a Dio per ciò che Egli ne fa scaturire.
Il
senso cristiano della sofferenza viene da Gesù che, come Uomo-Dio,
ha portato tutte le sofferenze con amore inaudito, trasformandole in
dono prezioso e in una forza che salva. Il Papa emerito Benedetto
XVI, il 23 giugno 2011, ha scritto di questo segreto:
“Tutto
parte, si potrebbe dire, dal Cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena,
alla vigilia della sua Passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così
facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della
morte alla quale andava incontro. Il fatto che il Sacramento
dell’altare abbia assunto il nome di ‘Eucaristia’ –
‘rendimento di grazie’ - esprime proprio questo”
Qualcosa
di simile alla donna brasiliana malata di cancro, che nelle sue
richieste è stata esaudita più che con un miracolo di guarigione,
deve essere accaduto ad un pellegrino, che ad Altötting (luogo di
pellegrinaggio in Baviera) ha offerto alla Madonna una stele di
ringraziamento con sopra scritto: “Ti ringrazio, Santa Maria,
perché per 18 anni non hai esaudito le mie richieste, ma con tante
prove e delusioni mi hai insegnato a pregare”.
San
Felice da Cantalice
Pochi
santi hanno vissuto l’ideale francescano della semplicità
riconoscente in modo così entusiasmante come il frate cappuccino
Felice da Cantalice (1515-1587). Per il suo cordiale “Deo gratias”
come risposta a tutto quel che riceveva da frate mendicante durante
la questua nella città di Roma, il popolo gli diede il nome di
“Fratello Deo Gratias”. Fu proclamato santo nel 1712, primo del
suo ordine.
Felice
Porro nacque nel 1515 in una semplice famiglia di contadini di
montagna, nel villaggio di Cantalice. Non imparò mai a leggere e a
scrivere. Fin da bambino pregava davanti alle croci, da lui stesso
erette, mentre sorvegliava al pascolo le pecore e le capre del padre.
Il giovane gaio e amato da tutti iniziò presto a lavorare e
trascorse diciotto anni felici come pastore, poi come lavoratore
agricolo, vivendo in una grande unione con Dio. Un giorno, mentre
aravano un campo, due giovani buoi si incattivirono, gettarono a
terra Felice e lo investirono con l’aratro. Il giovane rimase
miracolosamente illeso e subito si gettò in ginocchio gridando:
“Misericordia, misericordia!”, ringraziando per la vita che gli
era stata donata di nuovo e che da quel momento in poi desiderava
offrire completamente a Dio. Subito si dimise dal suo datore di
lavoro e chiese l’ammissione nell’Ordine dei Padri Cappuccini,
appena fondato. A 28 anni Felice venne accolto nel vicino noviziato
di Cittaducale; dopo pochi giorni ricevette l’abito marrone dei
frati di San Francesco. Poco tempo dopo il maestro dei novizi
constatò: “Noto che Fra Felice prega ininterrottamente”.
Egli era un modello di zelo e di virtù e fin dagli inizi prese la
vita monastica come una “via Crucis”, la via più breve e sicura
verso la perfezione, la via sulla quale voleva con gioia seguire il
suo Maestro. Per il giovane analfabeta la Croce divenne come un testo
scolastico tanto da arrivare a dire: “Chi non comprende questo
libro, non sa cosa sono i libri”. La meditazione della
sofferenza di Cristo e di tutto il bene ricevuto dal Signore fu una
fonte continua e un segreto profondo della sua gratitudine e della
sua gioia. Volentieri spiegò: “Io studio sei lettere: cinque
rosse e una bianca. Le rosse sono le piaghe del Salvatore, la bianca
è Maria”, che egli amava candidamente. Nel 1545, a trent’anni,
Felice pronunciò i voti religiosi. Due anni dopo i suoi superiori lo
mandarono a Roma.
Lì,
nel grande monastero di S. Bonaventura, divenne aiutante dell’anziano
frate mendicante Angelo. Alla morte di Angelo, fu affidato a Felice
il difficile, quotidiano e umiliante compito di elemosinare da solo
sulle strade della città eterna quanto necessario per il
sostentamento dei suoi numerosi confratelli. Un compito esigente che
era fondamentale per il mantenimento del monastero e avrebbe dovuto
risvegliare lo spirito di carità nel popolo! Così ogni mattina,
giorno dopo giorno, fratello Felice si metteva in cammino, con il
sole ardente o con la gelida pioggia invernale, per le strade e i
vicoli della città: scalzo e “armato” di una brocca e una
bisaccia dove raccogliere vino, olio, pane e verdura per il
monastero. Anche se convinto che “tutte le cose ci possono
elevare a Dio, se le vediamo con occhio umile”, sulle strade di
Roma il frate cappuccino camminava con lo sguardo abbassato e
recitando il rosario, per restare interiormente unito al Signore.
Dopo non molto tempo, conosceva ogni angolo della città. Bussava
instancabilmente alle porte dei palazzi come a quelle delle
abitazioni povere, sempre gioioso e contento di tutto ciò che
riceveva. Anche agli scherni e alle varie ingiurie da parte dei
romani, pieni di temperamento e certamente non delicati nelle loro
espressioni, sorrideva e rispondeva con un sincero: “Deo gratias!”.
In tutto, non solo nelle elemosine della gente, ma anche e
soprattutto nelle umiliazioni, Fra Felice vedeva un dono di Dio che
serviva a lui e ad altri per la santificazione. Non passava davanti
ai poveri senza dar loro una buona parola e senza donare parte di
quello che aveva appena ricevuto. Con letizia e voce chiara, in mezzo
alla gente, Fra “Deo gratias” cantava piccole canzoni, che egli
stesso metteva in rima, sull’amore verso Gesù e Maria oppure
recitava versi della liturgia o della Sacra Scrittura che gli
venivano fedelmente dal cuore grazie alla sua eccellente memoria. Se
qualche volta aveva difficoltà a passare tra la folla, esclamava:
“Fate posto, cara gente! Un po’ di posto per l’asino del
convento dei Cappuccini!”. Ma se gli capitava di venire a
conoscenza di situazioni peccaminose, trovava parole chiare di
ammonimento, preso dalla compassione e dalla preoccupazione per la
miseria morale della gente: “Abbiate misericordia con la vostra
anima!”. Il frate cappuccino aveva uno spirito incantevole e
un’anima candida. Oltre ai poveri e agli ammalati, i suoi
prediletti erano i bambini della città. Amava radunarli e far loro
ripetere il suo “Deo gratias!”, quasi a farsi aiutare nel suo
continuo ringraziamento a Dio per tutte le benedizioni ricevute. Una
particolare amicizia e affinità spirituale lo legò a Filippo Neri,
l’apostolo di Roma e fondatore dei Padri Oratoriani. Quando si
incontravano per strada ridevano e si abbracciavano, erano un cuore e
un’anima sola! Tornato al monastero con i suoi “tesori”
raccolti, Fra Felice si accontentava di alcune croste di pane e un
po’ di vino. Se il fratello cuoco gli offriva qualcosa del pranzo,
accettava con gratitudine, ma non era mai lui a chiedere qualcosa per
se stesso. Di notte, mentre i suoi confratelli dormivano, dopo aver
riposato appena un paio d’ore su dure tavole, andava da solo in
Chiesa e in una intensa preghiera presentava a Dio tutti i desideri
dei suoi benefattori e della gente di Roma. In piedi, con le braccia
aperte, passava ore ed ore in preghiera di intercessione e profonda
adorazione davanti al Santissimo, spesso con le lacrime agli occhi;
alcuni confratelli lo osservarono di nascosto e lo videro anche in
estasi. Nel corso dei 40 anni, durante i quali Fra Felice compì il
suo servizio con umiltà esemplare, i romani lo conobbero ed amarono
a tal punto che non si poteva immaginare Roma senza di lui. Sempre
più spesso si sentì parlare di guarigioni e parole profetiche del
frate cappuccino, poi verificatesi, come la vittoria della flotta
cristiana a Lepanto nel 1571. Così la fama della sua santità si
diffuse tra il popolo. Durante i suoi ultimi sette anni di vita, il
cappuccino soffrì di forti coliche, che egli definiva: “Le
rose, sono fiori”. Era felice che queste lo unissero a Gesù in
croce. Ad un medico che gli chiedeva perché non pregasse per la sua
guarigione, Fra Felice rispose: “Che cosa dice? Anche se sapessi
che il Signore mi esaudirebbe, non Glielo chiederei. Se Lui permette
i dolori, perché non dovrei sopportarli con amore?”. E
meravigliando il medico, il frate intonò un canto di ringraziamento.
Quando ebbe 72 anni fu ben visibile in lui il peso dell’età,
perciò cercarono di persuaderlo a rinunciare al suo servizio. Egli
però rifiutò: “Il soldato deve morire sotto le armi e l’asino
sotto la sella”. Ad alcuni dei suoi amici aveva preannunciato la
sua morte ormai vicina. Quando il medico fu costretto ad ammettere
che non aveva più alcuna possibilità di aiutarlo, il santo esclamò:
“Deo gratias! Deo gratias!”. Il giorno prima di morire Fra Felice
entrò improvvisamente in estasi ed esclamò: “Oh! E’ venuta la
Madonna, accompagnata da angeli”. Il giorno dopo era il lunedì di
Pentecoste, il 18 maggio del 1587: dopo aver ricevuto il sacramento
dell’unzione degli infermi, il cappuccino esclamò per tre volte e
sempre più forte: “Deo gratias!” e poi chiuse pacificamente gli
occhi come se volesse dormire. Appena si sparse la voce della morte
del santo frate, il popolo corse in massa al monastero. I cappuccini
giustamente preoccupati avevano bloccato l’ingresso, ma la gente
mise scale alle mura per poter entrare nel cortile. I confratelli
infine dovettero aprire la porta per lasciar entrare un cardinale e
non riuscirono più a contenere la folla. Assistettero inermi al
saccheggio della cella del confratello deceduto: paglia e fieno, su
cui egli aveva dormito, sandali logorati, tavole, cenci e anche
polvere dal pavimento trovarono degli interessati... Il martedì di
Pentecoste, nella chiesa del monastero dove la salma era composta
nella bara, il popolo arrivò munito di forbici e coltelli e tagliò
non solo i peli della barba e i capelli.
Il
Cardinale francescano Felice Peretti, che era in rapporti di amicizia
con Fra Felice, sapeva dei suoi doni di profezia. Un giorno,
scherzando, gli chiese se sarebbe diventato Papa. Fra Felice rispose:
“Voi ora scherzate, ma sarà così”. E raccomandò: “Si sforzi
di diventare un buon Papa e di guidare la Chiesa in modo esemplare!”.
Diventato Papa con il nome di Sisto V, dopo la morte del frate
cappuccino, si recò sulla sua tomba ed espresse la sua intenzione di
dichiararlo presto beato e di deporre personalmente in qualità di
testimone oculare, dopo che aveva già sentito di 18 miracoli
avvenuti per intercessione del suo amico. Contemporaneamente a San
Felice da Cantalice vissero a Roma altri grandi santi, che stimarono
il povero frate laico come saggio consigliere: Ignazio di Loyola,
Francesco Borgia, Papa Pio V, Luigi Gonzaga, Camillo de Lellis,
Stanislao Kostka, Filippo Neri e anche i Cardinali Roberto Bellarmino
e Carlo Borromeo. Quest’ultimo, una volta, chiese a S. Filippo Neri
un parere su una regola monastica da lui redatta. Filippo, senza
neppure dare un’occhiata allo scritto, portò il Cardinale da
Felice da Cantalice, spiegandogli che non conosceva un recensore
migliore. Il cappuccino si scusò: “Ma padre Filippo sa che io non
so neanche leggere”. - “Fa niente”, rispose Filippo Neri, “te
la fai leggere e quando torniamo ci dici la tua opinione”. Felice
propose due correzioni che S. Carlo Borromeo fece alle sue regole.
Fonte
principale: P. Edilbert Lindner OFMCap., Die Heiligen des
Kapuzinerordens, Verlag der bayerischen Kapuziner, Altötting
Tratto
da “Trionfo del Cuore” LA GRATITUDINE CHIAVE DELLA FELICITÀ PDF
- Famiglia di Maria Luglio - Agosto 2014 N° 26
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