domenica 30 marzo 2014

Dal primo libro di Samuele - 1Sam 16,1.4.6-7.10-13 - Davide è consacrato con l’unzione re d’Israele.


In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.
Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».
Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.
Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

Parola di Dio
Riflessione

Questa lettura mi è sempre piaciuta perché, in qualche modo, da tanta speranza.
Come possiamo notare, l'uomo non è cambiato tanto da allora e continua a vedere l'apparenza. Per fortuna il Signore ha altri occhi e vede invece il nostro povero cuore.
Gesù ribalta come sempre il pensiero degli uomini... “Il primo è chi si fa ultimo” e, per i Suoi magnifici disegni, sceglie sempre chi confida in Lui e che si fa piccolo piccolo.
Come ha fatto con Davide, il Signore usa sempre ognuno di noi per essere Suoi strumenti. Dobbiamo essere felici e onorati quando questo succede... essere dei piccoli pennelli, che Lui usa per dipingere un quadro e fare un'opera d'arte, è qualcosa di meraviglioso.
La cosa che subito colpisce a noi poveri mortali, è l'esteriorità di una persona o di una cosa, facendoci così delle idee errate. Infatti, i nostri occhi notano subito una persona di bell'aspetto e vestita di tutto punto, notano una bella autovettura, una bella villa, un bel dolce tutto colorato e pieno di panna e subito il nostro pensiero segue lo sguardo, cioè è positivo. Diverso è invece il pensiero che abbiamo se vediamo una persona malmessa, maleodorante, una macchina sgangherata e una torta piatta (come le mie...). Ma, come sappiamo bene, l'apparenza inganna (a parte quella delle mie torte... quella rimane la stessa).
Nella lettura di oggi mi sono immaginata la scena nella quale Iesse, tutto orgoglioso, mette in fila i suoi figli, tutti belli e carucci per essere scelti dal Signore, ma nessuno di loro va bene!!! “Ma come...? avrà pensato tra se... cosa non hanno questi bei figli? ...sono perfetti!!!.
Appunto.... dice il Signore... troppo perfetti!
Tutto questo è grandioso... La scelta di Dio infatti, cade sul piccolo in tutti i sensi... Era talmente piccolo che non era stato invitato neanche a questa “sfilata”.... non solo, in quel momento svolgeva un lavoro umile che lo portava lontano dalla società, in solitudine e quindi in qualche modo era discriminato.
Ma per fortuna il nostro Dio ha una vista più potente della nostra e guarda il cuore e non l'aspetto, guarda il cuore e non i meriti, chiamando a Se secondo la Sua misericordia che poi infonde anche in noi.
Chiediamo allora al Signore di guarirci dalla nostra cecità, in modo da poter vedere con i Suoi occhi e non con quelli del mondo.
Pace e bene

La preghiera del pagliaccio



Signore, sono un fallito, però ti amo,
ti amo terribilmente, pazzamente,
che è poi l'unica maniera che ho di amare
perché sono solo un pagliaccio.
Sono tanti anni che sto nelle tue mani,
presto verrà il giorno in cui volerò da Te.
La mia bisaccia è vuota,
i miei fiori appassiti e scoloriti,
solo il mio cuore intatto.
Mi spaventa la mia povertà
però mi consola la tua tenerezza.
Sono davanti a Te come una brocca rotta,
però con la mia stessa creta
puoi farne un'altra come ti piace.
Signore, cosa ti dirò
quando mi chiederai il conto?
Ti dirò che la mia vita umanamente
è stata un fallimento,
che ho volato molto in basso.
Signore,
accetta l'offerta di questa sera!
La mia vita, come un flauto,
è piena di buchi;
ma prendila nelle tue mani divine.
Che la tua musica passi attraverso di me
e sollevi i miei fratelli, gli uomini,
che sia per loro ritmo e melodia,
che accompagni il loro camminare,
allegria semplice
dei loro passi stanchi.

(da un manoscritto spagnolo)

sabato 29 marzo 2014

La storia: Nel paese dei coccoloni



Tema: Accogliere.

«Stai dritto con la schiena. Quante volte te lo de­vo dire?», gli disse il papà. «Muoviti o facciamo notte!», gli disse la mamma. «E piantala di far domande su tutto: sei stres­sante», gli disse la sorella. «Guarda come hai ridotto lo zainetto! Se lo do­vessi pagare tu...», continuò il papà. «Non mi stare sempre intorno», continuò la mamma. «Sei un mentecatto», continuò la sorella. Matteo credeva di essersi abituato alle parole che scandivano le sue giornate. Si svegliava di solito al suono di: «Sbrigati, sei in ritardo, lavati bene, hai messo tutto nello zaino? Ma quanto sei imbrana­to...». Finiva le giornate al suono di: «Hai gli occhi che ti cadono nel piatto: ora te ne vai a dormire e non far storie come tutte le sere! Quanto hai preso di italiano? E spegni subito la luce!». Ma quel giorno tutto prese una cattiva piega. Alessandro, il suo migliore amico, gli aveva but­tato in faccia: «Ma sei diventato scemo?». Che poi significa: «Ti stai comportando come uno scemo». Titti, la maestra, l'aveva definito un «poltronac­cio» e, durante la partita, Walter l'aveva chiamato «schiappa». Così quella sera due grossi lacrimoni gli corsero lungo le guance e finirono nel puré. «Uh, ué la lagna…», fece la sorella. Matteo corse nella sua cameretta e si buttò sul letto. Almeno lì poteva singhiozzare in pace.
Un discreto picchiettare alla finestra attirò la sua attenzione. Corse a vedere e si trovò di fronte una creatura stranissima, ma piacevolissima. Non si ca­piva bene come era fatta, ma tutto in lei era soffice, morbido, luminoso, sorridente e carezzevole. «Chi sei?». La risposta sbocciò come un trillo di campanel­li, dolce come biscotti e Nutella: «Sono un coccolone... E ho visto che hai biso­gno di noi. Dammi la mano e vieni con me». Matteo si mosse come in un sogno. La morbida creatura lo prese per mano e lo fece volare oltre la finestra nel cielo. «Dove mi porti?», chiese Matteo. «Nel paese dei coccoloni». «Dov'è?». «Dietro l'arcobaleno». Dopo un volo leggero attraversarono tutti i co­lori dell'arcobaleno, che hanno un gusto squisito (il verde è alla menta, l'arancione sa di aranciata, l'in­daco è tamarindo e così via), atterrarono in un pae­se fiorito e pieno di allegria. Matteo vide che c'era­no i bambini coccoloni e i genitori coccoloni, i non­ni coccoloni e perfino i maestri coccoloni, natural­mente nelle scuole coccolone. I bambini coccoloni furono i primi a invitarlo a giocare.
Matteo ci si mise d'impegno, anche perché l'at­mosfera era piacevole e amichevole. E decisamente diversa da quella a cui era abituato. Quando qual­cuno sbagliava, c'era sempre qualcun'altro che di­ceva: «Coraggio. La prossima volta andrà meglio», e quando Matteo riuscì a fare gol, perfino il portie­re avversario gli disse: «Bravo!». Matteo, invece di esultare, constatò amaramen­te che probabilmente quello era il primo «bravo» del­la sua vita. Dopo la partita, i suoi nuovi amici coccoloni fe­cero a gara per invitarlo nelle loro case. Matteo ac­cettò l'invito del portiere avversario, quello che gli aveva detto «bravo». Era una famiglia come la sua: mamma, papà, so­rella e fratellino. Solo che questi erano tutti cocco­bui... A tavola, Matteo ebbe il posto d'onore. La mamma coccolona lo baciò e Matteo si sentì venire le lacrime agli occhi, perché era tanto tempo che la sua mamma non lo baciava più e lui non sapeva co­me fare a dirglielo. «Ho anch'io una sorella più grande», disse Matteo. «Allora sai anche tu che cos’è una rottura», dis­se il piccolo coccolone: «Ma è così comoda per i com­piti e per giocare». Tutti risero. Poi tutti fecero il gioco «Racconta la tua gior­nata». Il papà, la mamma, la sorella e il fratellino raccontarono quello che avevano fatto, gli avveni­menti belli e meno belli della loro giornata. Matteo fu colpito soprattutto da una cosa: nella famiglia coc­colona tutti si ascoltavano. Si ascoltavano davvero, non si interrompevano a vicenda, non dicevano: «Smettila un po', mi fai venire il mal di testa». Si ascoltavano semplicemente. Poi tutti gli occhi si puntarono su Matteo. «E la tua giornata com'è stata?», disse papà coc­colone. Matteo raccontò tutto quello che aveva dentro e che fino a quel momento aveva confidato solo al cuscino. Lo ascoltarono comprensivi. Alla fine il papà coccolone gli disse: «Vedi, l'im­portante è volersi bene e... dirselo». Gli diede un sacchetto di polvere rosa. «Quando sarai a casa prova con questa polveri­na. Soffiane un po', qua e là. E polvere coccolo­na...», gli spiegò. In quel momento Matteo si svegliò. «Che razza di sogno ho fatto», pensò. Ma... Spalancò gli occhi e si rizzò a sedere sul letto. Perché il suo pugno stringeva una manciata di polvere rosa. «Ma allora è vero!». Mise la polverina dentro una scatoletta e poi si alzò. «Voglio provare se funziona». Vide sul tavolo di cucina il caffè del papà. Fur­tivamente fece cadere nella tazzina un pizzico di pol­verina. Il papà, come al solito, era di corsa. Bevve il caffè e poi disse soddisfatto: «Buono!». Questo non l'a­veva mai fatto. Anche la mamma se ne accorse. Poi, incredibilmente, prima di uscire il papà fece una ca­rezza affettuosa sulla testa di Matteo: «Passa una bella giornata, ometto! E dacci dentro a scuola per­ché stasera ti sfido a Scarabeo». «Urrà, funziona!», pensò Matteo, felice. «Ne metterò una razione doppia nel caffè della maestra».

La riflessione

Noi tutti avremmo bisogno di questa polvere coccolona... ma non ce ne basta un sacchetto!!!
Nella società di oggi ci si comporta così... Siamo sempre concentrati su noi stessi e non notiamo che tanti altri hanno bisogno di non sentirsi invisibili, ma hanno bisogno di tante attenzioni. Con il nostro comportamento, da egoisti supersonici, facciamo soffrire chi ci sta vicino. Non solo siamo prepotenti, ma rispondiamo alle richieste che ci vengono fatte, in maniera sgarbata. Dovremmo cercare di imitare il nostro Gesù, il Suo amore, la Sua pazienza e la Sua tenerezza. Dovremmo cercare di portare dolcezza, calore e amore in mezzo alle persone che il Signore ci ha messo accanto e, una parola di conforto, non guasta mai... Sembra una cosa impossibile, ma non è difficile... basta volerlo.
Chiediamo al buon Dio di darci la Sua luce e la Sua pace. Lui non aspetta altro!!! Il resto viene da se...

venerdì 28 marzo 2014

Dal libro del profeta Osèa - Os 14,2-10 - Non chiameremo più dio nostro l’opera della nostre mani.



Os 14,2-10

 Così dice il Signore:
«Torna, Israele, al Signore, tuo Dio,poiché hai inciampato nella tua iniquità.
Preparate le parole da dire e tornate al Signore; ditegli: “Togli ogni iniquità,
accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode delle nostre labbra.
Assur non ci salverà, non cavalcheremo più su cavalli, né chiameremo più “dio nostro”
l’opera delle nostre mani, perché presso di te l’orfano trova misericordia”.
Io li guarirò dalla loro infedeltà, li amerò profondamente, poiché la mia ira si è allontanata da loro.
Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano,
si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano.
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne,
saranno famosi come il vino del Libano.
Che ho ancora in comune con gli ìdoli, o Èfraim?
Io l’esaudisco e veglio su di lui; io sono come un cipresso sempre verde, il tuo frutto è opera mia.
Chi è saggio comprenda queste cose, chi ha intelligenza le comprenda; poiché rette sono le vie del Signore,
i giusti camminano in esse, mentre i malvagi v’inciampano».

Parola di Dio

Riflessione

Tutti noi siamo degli “orfani” quando ci ostiniamo a non voler riconoscere il male che ci portiamo dentro e a non desiderare un cuore nuovo, senza ipocrisie e ingratitudini.
Nel passato di ognuno di noi c'è sempre una storia di salvezza. Dobbiamo solo fermarci un istante e ricordare tutti i momenti che abbiamo vissuto, sia belli sia brutti. Dio era sempre con noi.
Se ci buttiamo ai piedi di Gesù con un cuore umiliato, Lui si commuoverà come un bravo papà e non ci chiederà di essere indennizzato per tutte le crudeltà che gli abbiamo fatto,(nessuna società di Leasing potrebbe concederci tanto...), anzi... non ricorderà più tutte le nostre cattiverie e non certo perché è smemorato... ma perché il nostro Dio è un Dio pietoso, lento all'ira e grande nell'amore.
“...Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano”...
Che bello!!! Io la vedo come una promessa magnifica, però, se ci penso bene, Lui l'ha anche mantenuta. Le parole “grano” e “vino”, mi fanno venire in mente il banchetto nel quale siamo invitati ogni giorno. Quindi, quando siamo in grazia di Dio e ci accostiamo alla Sua mensa, in qualche modo facciamo rivivere il suo corpo dentro di noi. Questa unione di corpi è una sensazione bellissima.
Allora, chiediamo al buon Dio di continuare a inseguirci, anche quando noi proviamo a scappare da Lui e, se necessario, di metterci alle strette, in modo da farci rimpiangere il Suo amore, perché la cosa più bella è rimanere con Lui.
Anche se, a dire il vero, questa bellezza riusciamo ad assaporarla solo dopo che Lui ci ha messo con le spalle al muro, facendoci capire quanto non valiamo nulla e quanto invece abbiamo bisogno di Lui. E' anche vero che all'inizio questo suo grande amore ci può far barcollare, inciampare, ma non cadere (a parte qualche incidente domestico...), perché Lui è sempre al nostro fianco che ci sostiene. Con me, ad esempio, cadrebbe anche Lui visto che non lo mollo un attimo!!!
Povero il mio Gesù... sequestrato da una donna!!! Ma sono sicura che Lui si sente un “rapito” felice e vorrebbe diventarlo per tutti i Suoi figli.
“Non c’è nessuno come te in cielo, Signore, perché tu sei grande e compi meraviglie: tu solo sei Dio. (Sal 86,8.10)”
Pace e bene


La storia: L’antenna ribelle


 
Tema: Vedere
C'era una volta, sui tetti rossi di un grande condominio, un'antenna della televisione che faceva con molta diligenza il suo dovere. Era un'antenna centralizzata e doveva quindi trasmettere le immagini sui televisori di tutti gli alloggi. Erano anni che si trovava lassù e ormai conosceva tutti. Ogni giorno mandava nei televisori del condominio le immagini che catturava nell'aria, quelle immagini che lei sola vedeva e sentiva. Era infatti circondata da un turbinio continuo di colori e suoni invisibili a tutti, ma non a lei. Li ordinava e li trasmetteva agli apparecchi televisivi. La sua giornata cominciava prestissimo. Il commendator Bepoli del secondo piano si svegliava alle sei e voleva vedere un telegiornale. Nico e Mario, i fratellini del terzo piano volevano i cartoni animati alle otto e li guardavano standosene beatamente a letto. Quanto li invidiava la buona antenna! Specialmente d'inverno, quando fischiava un vento gelido e i ghiaccioli l'appesantivano e doveva aggrapparsi con tutte le sue forze alle tegole per rimanere ben dritta e non rovinare le immagini. Poi venivano i telefilm e le telenovele che commuovevano tanto anche lei. «Matrimonio proibito» per le sorelle Bellotti del terzo piano, «Perla Nera» per l'abbondante signora Sirano del piano terra e «Dolore, lacrime e sconquassi» per il ragioniere in pensione Russo, che guardava le telenovele, ma non voleva farlo sapere a nessuno. Poi Beautiful e Karaoke per Lilli, la figlia ventenne dei signori Dolcetti del quinto piano. E così via, per tutto il giorno e buona parte della notte: partite, film, documentari, videoclip, varietà, e perfino «tribune politiche» (le più pericolose, perché rischiava sempre di addormentarsi). La più bella trasmissione della vita Ogni volta che c'era un televisore acceso, l'antenna entrava in un appartamento e non si limitava a mandare le immagini richieste, ma approfittava degli occhi elettronici del televisore per dare una sbirciatina all'interno. Molti lasciavano il televisore acceso mentre facevano altro e la nostra antenna imparò a conoscere le persone del suo palazzo, anche oltre i gusti televisivi di ciascuno. Così si accorse che c'erano tante cose che non andavano. «E se non ci penso io», si disse «non troveranno mai un rimedio. Non se ne accorgono neppure, questo è il vero guaio!». Prese la sua decisione. Raccolse tutte le forze, si concentrò fino a cigolare come una banderuola arrugginita, e realizzò la più bella trasmissione della sua vita. Invece di prendere le immagini all'esterno, cominciò a prenderle in un appartamento e a trasmetterle in un altro. Con un suo progetto. Cominciò dalle sorelle Bellotti. Invece della telenovela preferita videro improvvisamente sullo schermo del loro televisore una vecchietta, che fissava una fotografia, con infinita tristezza. «Sarà una nuova telenovela», disse la sorella maggiore. «Ma quella è la vecchietta del quarto piano!», esclamò la minore. «E’ una diva della tv?». «Ma no, quella è proprio la sua casa. Guarda le finestre». Si misero a guardare con attenzione. La vecchietta aveva gli occhi pieni di lacrime. Si asciugò gli occhi con un angolo del grembiule. Mangiò qualche cucchiaiata di minestrina, controvoglia, sempre guardando la fotografia appoggiata alla bottiglia dell'acqua. «Io non l'ho mai neanche salutata», disse la maggiore delle sorelle Bellotti. «Deve essere tremendamente sola», fece eco la minore. «Perché non la invitiamo a prendere il caffè?», disse la maggiore. «E due biscotti», aggiunse la minore. «Andiamoci subito», disse la maggiore. Le due sorelle si alzarono e per la prima volta in tanti anni dimenticarono la loro telenovela. In quattro si litiga meglio. Nico e Mario si stavano dedicando al loro sport preferito che consisteva nel litigare per tutto. Il televisore trasmetteva un documentario sugli animali, che improvvisamente si interruppe. «Guarda», disse Nico. «C'è una nuova pubblicità». Erano apparsi due ragazzini che giocavano nella loro stanza. «Ma... ma...», balbettò Mario. «Quelli sono i figli del portinaio!». «E quello è il gioco rotto che abbiamo buttato nella spazzatura ieri». «E quelli sono i miei giornalini vecchi». Nico e Mario rimasero in silenzio. «Giocano con quello che noi buttiamo via...», disse Nico. «Chiamiamoli a giocare con noi!», replicò Mario. «In quattro si litiga meglio che in due», concluse Nico. «Mamma, saremo in quattro a merenda», gridarono insieme e uscirono. La graziosa Lilli si pettinava e sospirava per Fiorello, il divo della tv che le faceva battere il cuore. Insieme a Ridge di Beautiful. Com'erano scintillanti loro, altro che quei brufolosi ragazzi del gruppo parrocchiale. Così noiosi. Meglio zitella che sposare uno di quelli. Ma ecco che la sua trasmissione preferita si interruppe e sui teleschermo apparve una stanzetta semplice ma ordinata. Con qualche cosa di familiare. Chino sul tavolo, un ragazzo con i capelli cespugliosi studiava su un grosso libro di giurisprudenza. Si intuiva chiaramente che cascava dal sonno, ma stringeva i pugni e leggeva e rileggeva. «Oh cielo!», fece Lilli. «Quello è il ragazzo del quinto piano, che fa il fattorino ai Grandi Magazzini... Di giorno... Mi saluta tutte le volte che lo incrocio sulle scale... e io non l'ho mai degnato di uno sguardo... Ma quanto sono stupida... Mamma», gridò all'improvviso «posso invitare un amico per il pranzo di Natale?». In tutti gli appartamenti del condominio succedeva la stessa cosa. Persone che vivevano nella stessa casa, che si incrociavano tante volte al giorno su scale, pianerottoli e ascensori, che magari vivevano nello stesso appartamento, improvvisamente «si vedevano» per la prima volta. E in alto sul tetto, l'antenna spossata, ma felice, gongolava, preparandosi a fare di nuovo il suo dovere e trasmettere la puntata di «Sentieri».

Riflessione 

Viviamo in una società dove si pensa unicamente a se stessi. Sempre presi dal lavoro e sempre indaffaranti a cercare di guadagnare più soldi possibile.
Ci lamentiamo spesso dell'indifferenza degli altri....ma noi, cosa facciamo?
Quante volte usciamo da casa e non ci accorgiamo delle persone che ci passano accanto? A volte basta un semplice sorriso o un "ciao" detto con il cuore. Ma non c'è bisogno di uscire fuori, basta guardare anche dentro casa, in famiglia o al lavoro... trascorriamo con tanti, diverse ore del giorno ma alla fine è come se non esistessero. Facciamo soffrire tante persone con questo nostro modo di comportarci. Allora... se non vogliamo essere anche noi visti come un bel soprammobile, sforziamoci ad andare oltre il nostro naso. Come possiamo dire di amare Dio se non vediamo la Sua immagine nel volto degli altri?

giovedì 27 marzo 2014

La storia: Una luce alla finestra



Tema: Aspettare

La strana epidemia si abbatté sulla città all'improvviso. Iniziava come un raffreddore: i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri. E tremendamente sospettosi gli uni degli altri. Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri. «Ciò che conta, nella vita, sono i soldi. Con i soldi si fa tutto», sostenevano. Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura. I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini. In certi alloggi la porta d'ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka. Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini. I bambini rispondevano solo più: «Quanto mi dai?». Non solo per asciugare i piatti
o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare. E i bambini di prima elementare imparavano a scrivere sul conto in banca. Il farmacista provò a distribuire ai malati libri che parlavano di generosità e bontà. Ma quelli scuotevano il capo e correvano a vendere i libri sulle bancharelle. Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinquecento lire. Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione. La vita in città divenne insopportabile. Quasi tutti viaggiavano armati e i più ricchi si pagavano le guardie del corpo. I malati avevano lo sguardo torvo ed erano infelici. E soprattutto rendevano infelici tutti quelli che vivevano con loro. Si sentivano solo più parlare di soldi, cambi, tassi di interesse e azioni che andavano su o giù. Nessuno voleva più pagare le tasse. Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un po' eremita (…), per chiedere una medicina o almeno un consiglio. L'eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: «Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio. E’ dovuta ad un virus che si chiama "sgrinfiacchiappa" ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra e al posto del cervello si forma un pallottoliere. Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta. Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato. Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente. Perché l'acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta. E logico, no? Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell'impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla». «Noi aspetteremo. Tutti», giurarono il sindaco e i consiglieri. «Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città». «...e vuota le casse comunali», aggiunse l'assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus «sgrinfiacchiappa». Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando: «Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica». Si presentarono in duemila. Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano. Tutti, meno uno. Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone. Si chiamava Giosuè. Il sindaco e i consiglieri spiegarono a Giosuè quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la Montagna-Che-Canta. «La cercherò», disse tranquillamente Giosuè. «Noi ti aspetteremo», promise la gente. «Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo». Giosuè mise un po' di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma e il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò: «Anch'io ti aspetterò». Salutò tutti e partì.Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell'orizzonte. «Una volta là, mi basterà cercare la Montagna-Che-Canta. Non deve essere difficile», pensava. Ma si illudeva. Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all'orizzonte. Ma Giosuè non si fermava. Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia. Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi. Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo. Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce. Era il segno della speranza: aspettavano l'acqua della generosità portata da Giosuè. Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero. Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare. La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo: «Non ce l'ha fatta. Non tornerà più». Ogni notte, c'era qualche luce in meno alle finestre. Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne. Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili. Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli. Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la Montagna-Che-Canta. Qualche picco, grazie al vento, fischiava. Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava. Ma nessuna cantava. In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione. Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse: «La Montagna-Che-Canta? Certo che so dov'è. Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti. Ma è un accidenti di montagna! Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione». «Chi è?». «Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna». «Pazienza, ma io devo salire lassù», disse Giosuè. Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò: «Buona fortuna!». La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po' stonato. Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi. Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia. Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri. Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato. Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò. Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire. Pesante com'era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare. Non riusciva neanche a farlo vacillare. Dopo un po' il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare. Quando Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell'acqua della generosità, la montagna intonò l'Alleluia di Händel a quattro voci. Il ritorno di Giosuè fu molto più rapido. Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto: la gente della città sarebbe tornata felice come prima. Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua. Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada. Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città. Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri. Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza. La città era completamente avvolta dal buio. Non c'erano luci sui davanzali delle finestre. Nessuno lo aveva aspettato.«E’ stato tutto inutile... Se nessuno mi ha aspettato, l'acqua non farà effetto... Tutta la mia fatica è stata inutile». Si avviò mestamente. Aveva voglia di buttar via l'acqua che gli era costata tanto. Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò. C'era una luce, laggiù! Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case.«Qualcuno mi ha aspettato!». Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa. Riconobbe la finestra e la casa. In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato. Bussò forte e chiamò: «Mariarosa!». I due giovani si abbracciarono. «Io ti ho sempre aspettato», disse Mariarosa, semplicemente.


Riflessione

L'acqua della sorgente che guarisce il nostro cuore diventato di pietra funziona solo se è veramente attesa. Chi non si aspetta niente, generalmente non riceve un bel niente. Se io desidero dal buon Dio la mia salvezza, prima o poi l'avrò. L'unica cosa è non avere fretta, sperare sempre, non avere paura di affrontare le avversità anche quando il mondo ti volta le spalle, perseverare anche quando agli occhi di tutti, quello che tu fai sembra strano o impossibile. La speranza non è altro che la luce che illumina il nostro cammino verso il cielo. Ma molto spesso quello che noi attendiamo con ansia non è certo Gesù o il suo messaggio, ne tanto meno un cuore nuovo. I nostri desideri sono sempre gli stessi... vogliamo le cose subito e ci rompiamo il collo per ottenerle. Se solo mettessimo un pochetto di questa grinta, che usiamo per desiderare cose frivole, per attendere Gesù o meglio ancora per andargli incontro, forse la nostra vita prenderebbe un'altra piega e diventerebbe sempre più bella.

martedì 25 marzo 2014

Signore, non ci capisco più niente...


Signore mio Dio,
non ho nessuna idea di dove io stia andando.

Non vedo il cammino davanti a me.
Non posso sapere di sicuro dove andrà a finire.
E neppure conosco veramente me stesso,
e il fatto che io pensi che sto seguendo la tua volontà
non significa che io lo stia veramente facendo.

Ma credo che il desiderio di farti piacere davvero ti piaccia.
E spero di avere questo desiderio in ogni mia azione.
Spero di non fare mai nulla al di fuori di questo desiderio.
E so che, se agirò così, tu mi guiderai per il giusto cammino,
anche se posso non saperne nulla.

Per questo avrò fiducia in te sempre,
anche se potrà sembrarmi di essermi perso
e di trovarmi nell'ombra della morte.
Non avrò timore, perché tu sei sempre con me,
e non mi lascerai mai solo di fronte ai miei pericoli.

( THOMAS MERTON )

Maria Vergine: Icona della fede obbediente




«Chaîre kecharitomene, ho Kyrios meta sou», «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28). Sono queste le parole - riportate dall’evangelista Luca – con cui l’arcangelo Gabriele si rivolge a Maria. A prima vista il termine chaîre, “rallegrati”, sembra un normale saluto, usuale nell’ambito greco, ma questa parola, se letta sullo sfondo della tradizione biblica, acquista un significato molto più profondo. Questo stesso termine è presente quattro volte nella versione greca dell’Antico Testamento e sempre come annuncio di gioia per la venuta del Messia (cfr Sof 3,14; Gl 2,21; Zc 9,9; Lam 4,21). Il saluto dell’angelo a Maria è quindi un invito alla gioia, ad una gioia profonda, annuncia la fine della tristezza che c’è nel mondo di fronte al limite della vita, alla sofferenza, alla morte, alla cattiveria, al buio del male che sembra oscurare la luce della bontà divina. E’ un saluto che segna l’inizio del Vangelo, della Buona Novella.
Ma perché Maria viene invitata a rallegrarsi in questo modo? La risposta si trova nella seconda parte del saluto: “il Signore è con te”. Anche qui per comprendere bene il senso dell’espressione dobbiamo rivolgerci all’Antico Testamento. Nel Libro di Sofonia troviamo questa espressione «Rallégrati, figlia di Sion,… Re d’Israele è il Signore in mezzo a te… Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente» (3,14-17). In queste parole c’è una duplice promessa fatta ad Israele, alla figlia di Sion: Dio verrà come salvatore e prenderà dimora proprio in mezzo al suo popolo, nel grembo della figlia di Sion. Nel dialogo tra l’angelo e Maria si realizza esattamente questa promessa: Maria è identificata con il popolo sposato da Dio, è veramente la Figlia di Sion in persona; in lei si compie l’attesa della venuta definitiva di Dio, in lei prende dimora il Dio vivente.
Nel saluto dell’angelo, Maria viene chiamata “piena di grazia”; in greco il termine “grazia”, charis, ha la stessa radice linguistica della parola “gioia”. Anche in questa espressione si chiarisce ulteriormente la sorgente del rallegrarsi di Maria: la gioia proviene dalla grazia, proviene cioè dalla comunione con Dio, dall’avere una connessione così vitale con Lui, dall’essere dimora dello Spirito Santo, totalmente plasmata dall’azione di Dio. Maria è la creatura che in modo unico ha spalancato la porta al suo Creatore, si è messa nelle sue mani, senza limiti. Ella vive interamente della e nella relazione con il Signore; è in atteggiamento di ascolto, attenta a cogliere i segni di Dio nel cammino del suo popolo; è inserita in una storia di fede e di speranza nelle promesse di Dio, che costituisce il tessuto della sua esistenza. E si sottomette liberamente alla parola ricevuta, alla volontà divina nell’obbedienza della fede.
L’Evangelista Luca narra la vicenda di Maria attraverso un fine parallelismo con la vicenda di Abramo. Come il grande Patriarca è il padre dei credenti, che ha risposto alla chiamata di Dio ad uscire dalla terra in cui viveva, dalle sue sicurezze, per iniziare il cammino verso una terra sconosciuta e posseduta solo nella promessa divina, così Maria si affida con piena fiducia alla parola che le annuncia il messaggero di Dio e diventa modello e madre di tutti i credenti.
Vorrei sottolineare un altro aspetto importante: l’apertura dell’anima a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio colui che - come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come profeticamente dirà il vecchio Simeone a Maria, al momento in cui Gesù viene presentato al Tempio (cfr Lc 2,35). Il cammino di fede di Abramo comprende il momento di gioia per il dono del figlio Isacco, ma anche il momento dell’oscurità, quando deve salire sul monte Moria per compiere un gesto paradossale: Dio gli chiede di sacrificare il figlio che gli ha appena donato. Sul monte l’angelo gli ordina: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito» (Gen 22,12); la piena fiducia di Abramo nel Dio fedele alle promesse non viene meno anche quando la sua parola è misteriosa ed è difficile, quasi impossibile,  da accogliere. Così è per Maria, la sua fede vive la gioia dell’Annunciazione, ma passa anche attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione.
Non è diverso anche per il cammino di fede di ognuno di noi: incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche passaggi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia - come Abramo e come Maria - tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.
Vorrei soffermarmi ancora su un aspetto che emerge nei racconti sull’Infanzia di Gesù narrati da san Luca. Maria e Giuseppe portano il figlio a Gerusalemme, al Tempio, per presentarlo e consacrarlo al Signore come prescrive la legge di Mosé: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» (cfr Lc 2,22-24). Questo gesto della Santa Famiglia acquista un senso ancora più profondo se lo leggiamo alla luce della scienza evangelica di Gesù dodicenne che, dopo tre giorni di ricerca, viene ritrovato nel Tempio a discutere tra i maestri. Alle parole piene di preoccupazione di Maria e Giuseppe: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», corrisponde la misteriosa risposta di Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose del Padre mio?» (Lc 2,48-49). Cioè nella proprietà del Padre, nella casa del Padre, come lo è un figlio. Maria deve rinnovare la fede profonda con cui ha detto «sì» nell’Annunciazione; deve accettare che la precedenza l’abbia il Padre vero e proprio di Gesù; deve saper lasciare libero quel Figlio che ha generato perché segua la sua missione. E il «sì» di Maria alla volontà di Dio, nell’obbedienza della fede, si ripete lungo tutta la sua vita, fino al momento più difficile, quello della Croce.
Davanti a tutto ciò, possiamo chiederci: come ha potuto vivere Maria questo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione di Dio? C’è un atteggiamento di fondo che Maria assume di fronte a ciò che avviene nella sua vita. Nell’Annunciazione Ella rimane turbata ascoltando le parole dell’angelo - è il timore che l’uomo prova quando viene toccato dalla vicinanza di Dio –, ma non è l’atteggiamento di chi ha paura davanti a ciò che Dio può chiedere. Maria riflette, si interroga sul significato di tale saluto (cfr Lc 1,29). Il termine greco usato nel Vangelo per definire questo “riflettere”, “dielogizeto”, richiama la radice della parola “dialogo”. Questo significa che Maria entra in intimo dialogo con la Parola di Dio che le è stata annunciata, non la considera superficialmente, ma si sofferma, la lascia penetrare nella sua mente e nel suo cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da lei, il senso dell’annuncio. Un altro cenno all’atteggiamento interiore di Maria di fronte all’azione di Dio lo troviamo, sempre nel Vangelo di san Luca, al momento della nascita di Gesù, dopo l’adorazione dei pastori. Si afferma che Maria «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19); in greco il termine è symballon, potremmo dire che Ella “teneva insieme”, “poneva insieme” nel suo cuore tutti gli avvenimenti che le stavano accadendo; collocava ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto all’interno del tutto e lo confrontava, lo conservava, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio. Maria non si ferma ad una prima comprensione superficiale di ciò che avviene nella sua vita, ma sa guardare in profondità, si lascia interpellare dagli eventi, li elabora, li discerne, e acquisita quella comprensione che solo la fede può garantire. E’ l’umiltà profonda della fede obbediente di Maria, che accoglie in sé anche ciò che non comprende dell’agire di Dio, lasciando che sia Dio ad aprirle la mente e il cuore. «Beata colei che ha creduto nell’adempimento della parola del Signore» (Lc 1,45), esclama la parente Elisabetta. E’ proprio per la sua fede che tutte le generazioni la chiameranno beata.

Benedetto XVI 19 dicembre 2012

domenica 23 marzo 2014

Essere amati da Dio


O figli miei, quanto Dio è buono! Quale amore ha avuto e ha tuttora per noi! Lo capiremo bene soltanto in paradiso!
E' per noi che il buon Dio ha prodotto il sole che ci illumina, l'aria che respiriamo, il fuoco che ci riscalda, l'acqua che beviamo, il frumento che ci nutre, i vestiti che ci coprono.
Siamo come piccoli bambini, non sappiamo camminare nella via del cielo, titubiamo, cadiamo, se la mano del buon Dio non è sempre li per sostenerci.
Dio non ci perde di vista così come una madre non perde di vista il suo bambino che incomincia a muovere il piede.
Si ama una cosa in proporzione del prezzo che ci è costata: giudicate da qui l'amore che Nostro Signore ha per la nostra anima che gli è costata tutto il suo sangue! Per questo, Egli è affamato di comunicazioni e di relazioni con essa.
Il buon Dio ci ha creati e messi al mondo perché ci ama; Egli vuole salvarci perché ci ama...
Il suo amore è di ogni momento e di una uguale intensità.
Il buon Dio è tanto sollecito a concederci il perdono quando lo chiediamo a lui, quanto una madre è pronta a ritirare il suo figlio dal fuoco.
Non è il peccatore che ritorna a Dio per chiedergli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore 'e che lo fa ritornare a Lui.
Nostro Signore è sulla terra come una madre che porta il suo bambino in braccio. Questo bambino è cattivo, dà calci a sua madre, la morde, la graffia, ma la madre non ci fa neanche caso; ella sa che se lo molla, cadrà, non potrà camminare da solo. Ecco come è Nostro Signore; egli sopporta tutti i nostri maltrattamenti, sopporta tutte le nostre arroganze, ci perdona tutte le nostre sciocchezze, ha pietà di noi malgrado noi...
La misericordia di Dio è come un torrente straripato; trascina i cuori al suo passaggio.
Dio è così buono che, nonostante gli oltraggi che gli facciamo, ci porta in paradiso quasi nostro malgrado. E' come una madre che porta in braccio il suo bambino al passaggio di un precipizio. E' interamente occupata ad evitare il pericolo, mentre il suo bambino non smette di graffiarla e di maltrattarla.
Ogni volta che m'inquieto della Provvidenza, il buon Dio mi punisce delle mie inquietudini mandandomi soccorsi inattesi.
E' soprattutto la fiducia che Dio ci chiede. Quando Egli è incaricato di tutti i nostri interessi, ne va della sua giustizia e della sua bontà nell'aiutarci e nel soccorrerci.
Le nostre riserve asciugano la corrente delle sue misericordie... e le nostre diffidenze fermano i suoi favori.
Sarete ricchi nella misura in cui conterete soltanto sulla Provvidenza.
«Chiedete e riceverete ». Soltanto Dio può fare simili promesse e mantenerle.
Curato D’Ars -  SCRITTI SCELTI

PREGHIERA A GESÙ NEL TABERNACOLO - Teresa di Gesù Bambino



O Dio nascosto nella prigione del tabernacolo! con gioia vengo accanto a voi ogni sera per ringraziarvi dei favori che mi avete concessi e per implorare perdono delle mancanze commesse durante il giorno dileguatosi come un sogno.
Gesù, come sarei felice se fossi stata interamente fedele! Ma haimè, spesso la sera sono triste perchè sento che avrei potuto corrispondere meglio alle vostre grazie. Se fossi stata più unita a voi, più caritatevole con le consorelle, più umile e più mortificata, avrei meno pena a intrattenermi con voi nell'orazione. Tuttavia, o mio Dio, ben lungi dallo scoraggiarmi alla vista delle mie miserie, vengo a voi con fiducia, ricordando che “non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma i malati”. Vi supplico perciò di guarirmi, di perdonarmi, ed io, Signore, mi ricorderò che l'anima alla quale voi avete maggiormente rimesso, deve altresì amarvi più delle altre. Vi offro tutti i battiti del cuore come altrettanti atti di amore e di riparazione e li unisco ai vostri meriti infiniti. Vi scongiuro, Sposo mio divino, di essere voi stesso il riparatore della mia anima, di agire in me senza tener conto delle mie resistenze, in una parola, non voglio più avere altra volontà che la vostra, e domani, con il soccorso della vostra grazia, ricomincerò una vita nuova, ogni istante della quale sarà un atto d'amore e di rinuncia.
Dopo essere venuta così ogni sera ai piedi del vostro altare, arriverò infine all'ultima sera della mia vita; allora comincerà per me il giorno senza tramonto dell'eternità, in cui mi riposerò sul vostro Cuore divino dalle lotte dell'esilio! Così sia!

IMITAZIONE DI DIO




«Siate imitatori di Dio», ordina l'Apostolo a tutti i cristiani nella persona degli Efesini (V, l) S. Tommaso c'insegna a imitare l'immutabilità di Dio con la costanza nelle avversità e nelle prosperità; la sua imperturbabilità, col non lasciarci scuotere da nessuna prova; ecc. (p. 3a q. art. 6).
 
«Siate imitatori di Dio», ordina l'Apostolo a tutti i cristiani nella persona degli Efesini (V, l). Sublime dignità, sommo onore è quello d'imitare Dio! E se non è possibile all'uomo imitare Dio nella sua magnificenza e in altre simili perfezioni, sta in nostro potere, dice S. Gerolamo (Comment.), il tenergli dietro, almeno da lontano, nella sua umiltà, nella sua mansuetudine, nella sua carità.
   S. Tommaso c'insegna a imitare l'immutabilità di Dio con la costanza nelle avversità e nelle prosperità; la sua imperturbabilità, col non lasciarci scuotere da nessuna prova; la veracità, la sincerità, la pazienza, la clemenza, ecc. (p. 3a q. art. 6).
   «Tutto ciò che ha vita, ama il suo simile», dice il Savio (Eccli. XIII, 19). Ora come la creatura ama ciò che le somiglia, così Dio creatore ama la creatura fatta a sua immagine. Volete voi dunque piacere a Dio? Cercate, per quanto potete, d'imitare i suoi attributi divini, quali la sapienza, la bontà, la giustizia, la purezza, l'integrità, la santità. Vi sta a cuore di piacere a Cristo? Procurate di ricopiarne in voi l'umiltà, la pazienza, la dolcezza, lo spirito di carità e di mortificazione...
  «Gli idolatri adoravano dèi colpevoli di mille delitti, che non si potevano onorare senza profanazione, perché non si potevano imitare senza vergogna», scrive Bossuet. Ma ecco la regola del Cristianesimo che dobbiamo scolpirci nella memoria. È dovere del cristiano imitare tutto ciò che onora; o come dice S. Agostino, tutto ciò che forma l'oggetto del nostro culto, dev'essere il modello della nostra vita. Il Salmista, sfogato il suo zelo contro gli idoli muti e insensibili, conchiude augurando che diventino simili a loro quelli che li servono e che in essi confidano (Psalm. CXIII, 8). Con ciò voleva dire che l'uomo deve conformarsi a quello che adora e che perciò gli adoratori degli idoli meritano di diventare sordi e muti come questi. Ma noi, adoratori di un Dio vivo, dobbiamo vivere come lui, di vera vita. È nostro dovere essere santi, perché santo è il Dio che serviamo (Levit. XI, 44). Bisogna che siamo misericordiosi, perché misericordioso è il Padre nostro celeste (Luc. VI, 36), e che perdoniamo ai nemici, com'egli a noi perdona (MATTH. VI, 14). Egli fa sorgere il sole tanto sui buoni  quanto sui cattivi (MATTH, V. 45), e noi dobbiamo abbracciare nella nostra carità così gli amici come i nemici. Conviene che noi siamo spirituali, e che adoriamo in ispirito, perché Dio è spirito (IOANN. IV, 24). Finalmente Gesù Cristo ci comanda che siamo perfetti, perché perfetto è Colui che adoriamo (Sur la dévotion à la Sainte Vierge).
   «Noi siamo veramente trasformati in Dio, osserva anche S. Bernardo, quando ci conformiamo a Lui»  (Serm. in Cantic.).
   Più ci allontaniamo dal mondo, e più ci avviciniamo a Dio; quanto meno rassomigliamo al mondo, più rassomigliamo a Dio; più poco imitiamo il mondo e più imitiamo Dio... Dobbiamo camminare come camminò Gesù Cristo; e che cosa significa ciò? «Non altro a mio parere, risponde S. Prospero, se non questo, che disprezziamo le prosperità ch'egli ha disprezzato, che non temiamo le avversità ch'egli ha incontrato, che speriamo quello che ha promesso, che facciamo del bene anche agli ingrati, che non rendiamo male per male, che preghiamo per i nostri nemici, che sentiamo pietà dei traviati, che calmiamo gli avversari, che sopportiamo con cuore magnanimo gli uomini finti od orgogliosi, che siamo morti alla carne per non vivere se non di Gesù Cristo. Infatti come chi è morto non sparla di nessuno, non disprezza, non adula, non invidia, non odia nessuno e non cerca di rapire né la roba, né la fama, né l'onestà altrui; così quelli che crocifiggono la propria carne con le sue concupiscenze e con i suoi vizi, non possono né peccare, né allontanarsi da Dio; ma lo imitano e gli divengono simili»
(De Vita contempl. lib. II, cap. 31).
Sac Cornelio A Lapide

sabato 22 marzo 2014

Mi nascosi - Rabindranath Tagore


Spesso dimentico il suo nome,
non lo tengo nel cuore e nella mente.
È assente dalle mie preghiere,
eppure il suo immenso amore per me
sa ancora attendere il mio amore.

Mi nascosi dietro
il continuo lavoro del giorno,
mi persi tra i sogni della notte,
eppure la sua mano inseguitrice
s'apriva davanti ai miei occhi
ad ogni mio respiro.

Riconobbi così che
lui sapeva la mia strada,
che era padrone lui
d'ogni luogo e d'ogni tempo.

Ora ho un solo desiderio:
donargli tutto quello che ho,
pagargli tutto il mio tributo d'amore,
per aver diritto di prendermi un posto
nel suo regno.

  Rabindranath Tagore

mercoledì 19 marzo 2014

Abbandono in Dio - Tratto da " La Providencia de Dios " di Padre Angel Peña O.A.R.



Se crediamo che Dio è amore e che ci ama con tutto il suo infinito amore, la conclusione è che possiamo abbandonarci tranquillamente nelle sue mani, sapendo che lui pensa a noi e ci guida e vuole il meglio per noi. Abbandonarsi è fidarsi di Dio. è accettare la sua volontà in ogni istante, e non ribellarsi ai suoi progetti su di noi. è lasciarsi portare senza domandarsi dove, né perché. è consegnargli la vita. Qualcosa come firmargli un assegno in bianco. Abbandonarsi vuol dire stare in permanente ascolto e aperti alla sua volontà ogni istante. è rimanere totalmente nei suoi progetti. è abbandonarsi al suo amore come una gocciolina nel mare. è credere fiduciosamente alla sua provvidenza amorosa. Per questo ti chiedo: sei disposto ad accettare una malattia o qualsiasi altra disgrazia umana senza ribellarti contro di lui? Allora, perché hai paura di abbandonarti? Non ti fidi? Non sei disposto ad accettare la sofferenza? Vuoi solamente ricevere beni e gioie? Lascia che lui pensi quello che è più conveniente per te. Lascialo fare e confida in lui. Puoi essere sicuro che sarà la migliore decisione della tua vita, perché Dio ha bisogno di avere le mani libere per fare della tua vita un’opera d’arte spirituale. Lui ti dice: “Io non ti lascerò né abbandonerò mai” (Gs 1, 5 ; Eb. 13, 5 ). Puoi star sicuro che lui mai ti farà sbagliare, né ti ingannerà. Perciò, accetta i suoi progetti su di te. Consegnagli la responsabilità della tua vita. Vale la pena di abbandonarsi nelle braccia di un Dio così buono e misericordioso. Se fai così, vedrai meraviglie nella tua vita.
Ricordati di Abramo. Dio gli disse: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gen. 12, 1). E Abramo lasciò tutte le sue sicurezze umane e si lanciò in un’avventura sconosciuta, solamente confidando in Dio. E Dio lo benedisse, dandogli una discendenza numerosa. Benedì anche Mosè che accettò di andare a parlare con il faraone, nonostante la sua balbuzie (Es. 4); e benedì Noè che eseguì tutto come Dio gli aveva ordinato (Gen. 6, 22). E Dio salvò lui e la sua famiglia. Abbandonati nelle sue braccia come la figlia di quel chirurgo che aveva paura di farsi operare, ma avendo fiducia in suo padre si lasciò operare. Vale la pena abbandonarsi senza condizioni. E nei momenti difficili, quando tutto sembra oscuro e non senti la mano di Dio nella tua vita, quando sembra che si sia dimenticato di te, di’ a te stesso: “Mio Padre, Dio, mi ama e ha cura di me. Lui conosce tutto quello che mi succede e conosce i miei bisogni. Confido in lui, e so che sta già prendendo i mezzi necessari per aiutarmi e risolvere i miei problemi”.

La Chiesa


Donando a noi Cristo Gesù, rendendolo vivo e presente in mezzo a noi, rigenerandolo continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini, la Chiesa dà all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che senza di essi il mondo non sarebbe più concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in mezzo all'umanità, la può trovare soltanto nella Chiesa, mai contro di essa. 
(Benedetto XVI)

GLI INSEGNAMENTI DI NAZARET - Papa Paolo VI



Nazaret è la scuola in cui si comincia a comprendere la vita di Gesù: la scuola del Vangelo. Qui si impara a guardare, ad ascoltare, a meditare e penetrare il significato così profondo e misterioso di questa semplicissima, umilissima e stupenda manifestazione del Figlio di Dio.
Forse si impara anche, insensibilmente, ad imitare. Qui si impara il metodo che ci permetterà di comprendere chi è Cristo. Qui si scopre la necessità di osservare la cornice entro cui si è svolto il suo soggiorno tra noi: luoghi, tempi, abitudini, linguaggio, pratiche religiose, tutta ciò di cui Gesù si è servito per manifestarsi al mondo. Qui, tutto parla, tutto ha un senso... A questa scuola, si comprende la necessità di avere una disciplina spirituale se si vuol seguire l'insegnamento del Vangelo e diventare discepolo di Cristo. Oh, come varremmo ritornare bambino e metterci a questa scuola, umile e sublime, di Nazaret! Come vorremmo, accanto a Maria, ricominciare ad acquistare la vera scienza della vita e la sapienza superiore delle verità divine!
Ma noi siamo qui soltanto di passaggio. Dobbiamo rinunziare al desiderio di continuare qui l'educazione alla intelligenza del Vangelo, educazione che non è mai interamente compiuta. Tuttavia non partiremo senza aver raccolto in fretta, quasi furtivamente, qualche breve insegnamento di Nazaret.
In prima luogo una lezione di silenzio: rinasca in noi la stima del silenzio, questa meravigliosa e indispensabile condizione della spirito, in noi che siamo assaliti da tanti clamori, strepiti e grida nella nostra vita moderna rumorosa e troppo presa dai richiami sensibili. O silenzio di Nazaret, insegnaci il raccoglimento, l'interiorità, la disposizione ad ascoltare le buone ispirazioni e le parole dei veri maestri! Insegnaci la necessità e il valore della formazione, dello studio, della meditazione, della vita personale e interiore, della preghiera che Dio solo vede nel segreto!
Una lezione di vita familiare: Nazaret c"insegni cos'è la famiglia, la sua comunione d'amore, la sua austera e semplice bellezza, il suo carattere sacro e inviolabile. Impariamo da Nazaret quanto sia dolce e insostituibile la formazione che vi si riceve; impariamo qual'è il suo ruolo primordiale sul piano sociale.
Una lezione di 'lavoro: o Nazaret, casa del Figlio del falegname, proprio qui noi vorremmo comprendere e rendere onore alla legge severa e redentrice della fatica umana; qui riconfermare la coscienza della nobiltà del lavoro; qui ricordare che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma ,che la sua libertà e nobiltà, oltre che dal valore economico, gli vengono dai valori che lo finalizzano. Infine, come vorremmo poter salutare qui tutti i lavoratori del mondo intero e mostrare loro il grande Modello, il loro Fratello divino, il Profeta di ogni loro giusta causa, il Cristo nostro Signore.


* Allocution à Nazareth del 5 gennaio 1964

martedì 18 marzo 2014

Dal libro del profeta Isaìa - Is 1,10.16-20 - Imparate a fare il bene, cercate la giustizia.




Ascoltate la parola del Signore,
capi di Sòdoma;
prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio,
popolo di Gomorra!
«Lavatevi, purificatevi,
allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni.
Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene,
cercate la giustizia,
soccorrete l’oppresso,
rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova».
«Su, venite e discutiamo
– dice il Signore.
Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto,
diventeranno bianchi come neve.
Se fossero rossi come porpora,
diventeranno come lana.
Se sarete docili e ascolterete,
mangerete i frutti della terra.
Ma se vi ostinate e vi ribellate,
sarete divorati dalla spada,
perché la bocca del Signore ha parlato».

Parola di Dio

Riflessione personale

Che meraviglioso invito ci fa oggi il Signore!: ”Su, venite e discutiamo”... E' come un esortazione di un bravo papà che vede il figliolo perso nella nebbia e lo consiglia di rientrare a casa, qualsiasi cosa abbia fatto... insomma con Lui se ne può parlare, perché tutto si risolverà. Dobbiamo crederGli... ci ha dato la Sua parola. Molte volte invece ci ribelliamo perché non vogliamo ammettere la nostra miseria, il nostro orgoglio molto spesso è più forte. Per non parlare poi di quando ci comportiamo da “Giovanni Battista”... vogliamo che Dio castighi le persone che secondo noi si comportano male... magari lo fanno anche, ma non è questo il problema... Il disastro sarebbe se veramente il Signore accogliesse la nostra richiesta... mi sa che tanti di noi faremmo la stessa brutta fine!!! Nessuno è immune da peccati e se vogliamo diventare "candidi come la neve", dobbiamo metterci a tavola con Lui e discuterne.
Dobbiamo provare a fare con Lui un nuovo patto. Dovremmo impegnarci e promettergli di eliminare dal nostro cuore tutte quelle zavorre che rendono pesante il cammino verso di Lui e verso i nostri fratelli. E' vero... il Signore ci ha dato gli occhi per vedere e le orecchie per ascoltare... ma non dobbiamo usarli solo per osservare i peccati e le mancanze degli altri... Fermiamoci invece solo un momento, bastano solo pochi istanti... e vedremo tante, ma tante cose che non vanno in noi e che dovremmo eliminare o smussare... se ci va bene!!!
Non siamo migliori di nessuno... non solo... dobbiamo vedere il prossimo sempre migliore di noi. Le nostre debolezze sono così megagalattiche che non ci rimane altra scelta che affidarci a Dio e alla Sua bontà, perché con il Suo perdono diventeremo lindi... Allora, perché non approfittare di questo Suo invito e della Sua promessa?.... E come ha detto magnificamente Benedetto XVI il 5 Ottobre 2008: "Quando Dio parla, sollecita sempre una risposta; la sua azione di salvezza richiede l'umana cooperazione; il suo amore attende corrispondenza".
Pace e bene

lunedì 17 marzo 2014

GIUSTIZIA


CHE COSA S'INTENDE PER GIUSTIZIA
Per giustizia s'intende, 1° una virtù speciale che consiste pel rendere a ciascuno quel che è dovuto...; 2° la riunione di tutte le virtù, il che conduce alla perfezione. In questo senso l'uomo giusto è perfetto.

DIO È LA GIUSTIZIA PER ESSENZA

In verità, dice S. Pietro, Dio non è punto accettatore di persone (Act. X, 34). S. Paolo ripete la medesima cosa (Rom. II, 11); il Signore dice di sua propria bocca nell'Apocalisse: «Io sono Colui che scruta le reni e i cuori; e renderò a ciascuno secondo le sue opere» (Apoc. II, 23).
«Signore, esclama il Savio; tutto voi avete disposto in peso, numero e misura; ed essendo la giustizia per essenza, tutto giustamente regolate» (
Sap. XI, 21) - (Id. XII, 15). «I giudizi del Signore sono pesati a giusta bilancia» (Prov. XVI, 11); e non vi è nessuno che possa, o vivo o morto, sottrarsi alla mano dell'Onnipotente (II MACH. VI, 26); ed anche le genti che non lo cercano, avranno da sottostare all'impero della sua giustizia vendicatrice
(
Eccli. XXXIX, 28). «Né mai, come nota S. Agostino, Iddio permette l'onta della colpa, senza che faccia risaltare l’onore della giustizia (Enchirid.)».
«Voi dite che la via del Signore non è retta. Udite, o figli d'Israele: È forse la mia via che non è giusta, o non piuttosto le vostre vie sono storte? Ah disgraziati! sappiate che per questo io giudicherò ciascuno secondo le opere sue» (EZECH. XVIII, 29-30). Quel che diceva Dio ad Israele, lo dice pure a tutta l'umanità.
Il cibo che al palato sano è piacevole, riesce penoso alla gola ferita; offende l'occhio debole o infermo quella luce che rallegra e conforta la pupilla sana e vigorosa; così pure è in uggia ai malvagi la giustizia di Dio, che loro tornerebbe graditissima se fossero buoni.

BEATO CHI DESIDERA E PRATICA LA GIUSTIZIA

Disse Gesù Cristo: «Beati quelli i quali hanno fame e sete della giustizia, perché ne saranno saziati» (MATTH. V, 6); avere fame della giustizia vuol dire desiderare le cose celesti e divine, mantenere inviolato l'altrui diritto... Per mezzo di questa fame e di questa sete, si acquista la santità, si arriva alla perfezione...
«Se tu segui la giustizia, tu la raggiungerai, dice il Signore, e te ne vestirai come di un manto di gloria; ed essa ti proteggerà in eterno, e nel giorno della manifestazione troverai in essa un appoggio» (Eccli. XXVII, 9). «Beati quelli che osservano l'equità e che praticano in ogni tempo la giustizia!» (Psalm. CV, 3).

BISOGNA AMARE LA GIUSTIZIA

«Amate la giustizia, voi che giudicate la terra», dice il Savio (Sap. I, 1); e ricordatevi che il vero zelo prende per corazza la giustizia, per elmo l’infallibile giudizio e prende l'equità come scudo impenetrabile (Id. V, 19-20).
Tobia ammoniva suo figlio di non fare agli altri quello che non avrebbe voluto fatto a sé (TOB. IV, 16). La Sacra Scrittura fa osservare che Davide, re d'Israele, rendeva giustizia a tutto il popolo (II Reg. VIII, 15). S. Paolo avvisa i cristiani di Tessalonica che non soverchino o ingannino i loro fratelli nei contratti, perché Dio è vendicatore di tutti i torti (I Thess. IV, 6).
Sapete come Dio vendica molte volte le ingiustizie fatte al prossimo? «Disponendo, risponde il Savio, che l'ingiusto, il frodatore, il calunniatore, il barettiere, siano presi al loro medesimo laccio e patiscano danno per ragione dei loro propri fatti» (Sap. XI, 21); essendo sentenza irrevocabile di Dio che ciascuno abbia tormento da quello in cui pecca (Ib. 17).
S. Bernardo dice: «Se l'uomo non fa il bene che deve, patisce il castigo del male che ha voluto. E così, per un'ammirabile disposizione della Provvidenza, ne segue che se noi abbandoniamo la giustizia, essa non ci abbandona, mentre trae vendetta di tutte le prevaricazioni, di cui ci siamo resi colpevoli (
Serm. in Cant.)».
Non abbisognano molti discorsi, né molte leggi, dice il Crisostomo; sia la vostra volontà legge a voi medesimi. Volete voi che gli altri vi facciano del bene? fatene voi agli altri. Volete ottenere misericordia? concedetela al prossimo. Vi piace essere lodati? lodate. Vi piace essere amati? amate. Siate giudici e legislatori a voi medesimi. Quello che a voi dispiace, non fatelo agli altri. Vi dispiacciono gli affronti? non vi permettete d'insultare il prossimo. Voi non soffrite di essere ingannato? Non ingannate gli altri.

Padre Cornelio A Lapide


domenica 16 marzo 2014

" LA LUCE CHE ILLUMINA OGNI UOMO " Pietro il Venerabile




Pietro il Venerabile (1092-1156) fece professione all'Abbazia di Cluny nel 1109. Sua madre lo aveva offerto al Signore sin dalla fanciullezza: essa stessa si fece poi monaca a Marcigny e tre dei fratelli di Pietro furono abati benedettini. Nel 1122 egli divenne abate di Cluny e tale rimase fino alla morte. Nel contrasto fra Cluny e Citeaux, Pietro mantenne un atteggiamento dolce e pacifico di fronte alla veemenza di san Bernardo, con cui del resto fu sempre legato da reciproca stima. Fu lui ad istituire per primo a Cluny la festa della Trasfigurazione, di cui intuiva l'importanza per la teologia monastica. E' anche molto significativo il fatto che quest'uomo di Chiesa fece tradurre in latino il Corano, aprendo così in qualche modo la via agli incontri fra le diverse religioni.

Il suo volto risplendeva come il sole (Mt. 17, 2). Perché meravigliarci che il suo volto sia diventato come il sole, dal momento che lui stesso è il sole? Perché meravigliarci che il volto del Sole sia diventato come il sole? Era il Sole, ma nascosto dietro una nube: la nube si allontana, ed ecco che per un momento risplende. Che cos'è questa nube che si allontana? Non la carne, ma la debolezza della carne che per un momento scompare. E' la nube di cui parla il profeta: Ecco che il Signore monterà sopra una nube leggera (Is. 19, 1). La nube è la carne che vela la divinità; ed è leggera, perché non porta nessun peccato. E' la nube che nasconde la chiarezza divina; leggera, perché viene assunta nello splendore eterno. E' la nube di cui si parla nel Cantico: Mi sono riposata all'ombra di colui che desideravo, (Cant. 2, 3); leggera, perché è la carne dell'Agnello che toglie i peccati del mondo. Quando questi vengono tolti, il mondo è sollevato nelle altezze dei cieli, non più oppresso dal peso dei peccati. Il Sole velato dalla nube della carne non è quello che sorge sopra i buoni e i cattivi (cfr. Mt. 5, 45), ma è il Sole di giustizia (Mal. 4, 2) che sorge soltanto su coloro che temono Dio. Coperta, è vero, da questa nube di carne, oggi risplende la luce che illumina ogni uomo; oggi essa glorifica la carne stessa e nella sua persona la mostra deificata agli apostoli, rivelandola così al mondo per mezzo loro.
Anche tu, città beata, godrai in eterno della contemplazione di questo sole, quando scenderai dal cielo, preparata da Dio come una sposa ornata per il suo sposo (cfr. Apoc. 21, 2). Per te questo sole non conoscerà più tramonto: sempre uguale a se stesso, rischiarerà un eterno mattino. Nessuna nube più lo offusca: in uno splendore ininterrotto ti rallegrerà di una luce continua. Questo sole non abbaglia più i tuoi occhi, ma, dandoti la capacità di guardarlo, ti dà la gioia del suo splendore divino; non conosce nessuna eclissi, perché nessuna pena può frapporsi fra te e la sua luce. Infatti non ci sarà più né morte, né pianto, né grida, né dolore che possano oscurare lo splendore che Dio ti darà: secondo la parola che Giovanni ha udito venire dal cielo, le cose di prima se ne sono andate (Apoc. 21, 4). E' questo il sole di cui parla il profeta: Non sarà più il sole la tua luce nel giorno, né t'illuminerà più lo splendore della luna. Il Signore sarà per te eterna luce e il tuo Dio il tuo splendore (Is. 60, 19). Questa è per te la luce eterna che risplende sul volto del Signore. Tu puoi udire la voce del Signore, e la Scrittura ti dice che il suo volto è luminoso come il sole. Sappiamo che dal volto si riconoscono le persone; ora, il conoscere lui diventa per chi lo conosce un'illuminazione che lo trasforma a sua volta in fulgore. Qui infatti tu credi, là conoscerai il suo s,tesso volto. Qui tu comprendi con l'intelligenza, là avverrà ,come se te ne impadronissi. Qui vedi come per mezzo di uno specchio, in maniera confusa, allora invece vedrai faccia a faccia (cfr. 1 Coro 13, 12). Riconoscendolo veramente come egli è, sarai perennemente abbagliato dall'eterno splendore di questo sole, rischiarato dalla gioia, illuminato in misura indicibile. Allora, quando il volto del Signore splenderà così su di te, si adempirà il desiderio espresso dal profeta: Faccia splendere su di noi il suo volto (Sal. 66, 2).

Sermo Primus de Transfiguratione Domini