La
parola «avarizia» ha assunto in italiano il significato di
«tirchieria», ma nel contesto dei sette vizi capitali mantiene il
suo significato originario, equivalente al latino avaritia, che
significa «avidità», e più precisamente «avidità di denaro»
(in greco filargyría). Questa, dice san Paolo, «è la radice di
tutti i mali» (1 Tm 6, 10). L'avarizia dunque è la brama di
possedere e accumulare denaro.
Il
denaro, al pari di qualunque altro oggetto di scambio, è in sé
utile come strumento per procurarsi cibo, vestiario e ciò che serve
per vivere. Ma di fatto l'uso del denaro è ormai degenerato al punto
di considerarlo principalmente il modo per soddisfare i propri
desideri e capricci. Ne consegue che, quanto più l’uomo è schiavo
dell’attaccamento e del desiderio, tanto più ha bisogno di denaro
e ne diventa dipendente. Quanto più, ad esempio, sono presenti le
passioni della gola e della lussuria, sunto più cresce quella
dell’avarizia, poiché il denaro promette (illusoriamente) di
soddisfare le altre due, passioni. «Ognuno [dei sette vizi] infatti
— dice san Gregorio – è tanto intimamente collegato agli altri,
che davvero l’uno è prodotto dall’altro» (Commento morale a
Giobbe, XXXI, 45, 89). D'altro canto, l’abitudine ad accumulare
denaro, nata dalla brama di acquistare beni materiali e di appagare i
propri desideri e piaceri, finisce con il diventare un vizio a sé
stante, per cui anche chi è ricchissimo continua a correre dietro ai
soldi (cf. Qo 5, 9), ormai semplicemente per abitudine radicata, per
ripetizione meccanica, per assuefazione. È divenuta una malattia.
Quante
persone, pur ricche, se impedite di lavorare e guadagnare soldi,
sentono dentro un vuoto, un’angoscia, un’inquietudine, una vera e
propria crisi di astinenza! Il vizio infatti, come abbiamo visto,
crea dipendenza. Come tutte le droghe, anche l’avarizia, se ha
messo radici nel cuore, dà una sensazione di piacere quando viene
appagata (chi non prova piacere nel ricevere denaro?). A questo
piacere, provocato dall’assuefazione, se ne aggiunge un altro:
vedere realizzate o realizzabili – grazie al denaro – le brame
legate alle diverse passioni (potrò comprarmi una macchina, così da
soddisfare la mia invidia e la mia superbia di fronte a chi mi
rinfacciava le mie umili origini e condizioni economiche; potrò
soddisfare la mia lussuria conquistando il favore di chi mi piace,
con vestiti, viaggi, cene, ecc.). Per non parlare poi del piacere di
sentirsi, in virtù del denaro, sicuri e autonomi.
Ma
a bilanciare queste seduzioni, basterebbe guardare quali e quanti
dispiaceri reca con sé la sete di denaro: litigi in famiglia, figli
trascurati, preoccupazioni e ansie, gran parte della propria vita
passata a fare studi, corsi, concorsi, trasferimenti, a lavorare
parecchie ore ogni giorno unicamente per guadagnare soldi...!
«L’insonnia per le ricchezze logora il corpo e l’affanno per
esse distoglie dal sonno» (Sir 31, 1). «Non creiamoci così tanti
mali e sofferenze a motivo del denaro!», esclamava san Giovanni
Crisostomo (Sugli Atti degli apostoli, XLIX, 4), «Quanti uomini
ricchi, sposati con donne abbienti, pur avendo accresciuto il
patrimonio, hanno distrutto l’affetto e la concordia litigando
quotidianamente perfino a tavola? Quanti uomini poveri, invece,
sposati con donne ancor più povere, godono la pace e sanno guardare
questo sole con grande gioia!» (9) «L’avido lavora
duramente, mentre chi vive in povertà si dedica alla preghiera e
alla lettura» (10). Anche su un piano puramente materiale,
dunque, se l’avarizia dà e promette molti piaceri, ne impedisce
però molti altri, non fosse altro per la quantità enorme di tempo
che porta via, Dunque «è una trappola» (Sir 31, 7). Eppure noi,
vuoi per torpore mentale, vuoi per acritico assorbimento di ciò che
ci trasmette la televisione e la mentalità consumistica, vuoi per la
mancanza di tempo per rifletterci, continuiamo instancabilmente –
anche se ne sentiamo il peso e la fatica – a lavorare per
accumulare denaro, credendo che esso ci farà più felici, e intanto
«la furia dell’avidità aumenta in proporzione con l’accrescersi
del denaro» (11) e ci sprofonda in un’insoddisfazione
sempre più grande. «Dall’avarizia, poi, derivano tradimenti,
frodi, inganni, spergiuri, agitazione, violenza e l’indurirsi del
cuore contro i sentimenti di misericordia» (12) , poiché
«chi segue il denaro, per esso peccherà» (Sir 31, 5). L'avarizia
consolida in noi la forza del desiderio, che è l’abitudine ad
essere insoddisfatti per ciò che si ha e bramosi di ciò che non si
ha, ed è quindi la radice di ogni infelicità. L’avarizia, infine,
nella misura in cui rende disponibile più denaro, rende anche più
realizzabile ogni genere di vizio. È necessario coltivare in sé una
solida capacità di introspezione per far fronte ai raggiri mentali e
ai «pretesti più che ragionevoli» con cui il demone dell’avarizia
cerca di insinuarsi in noi (13) : egli «pone come pretesto la
precauzione per le malattie, la previsione per la vecchiaia e per i
tempi di penuria» (14).
San
Gregorio dice che l'avidità, al pari di ogni altro vizio, è come un
esperto e prudente generale: spiega i suoi motivi con ragionamenti
convincenti, ma poi, una volta che la città gli ha aperto le porte,
al suo seguito entra l'intero esercito, che invade, incendia e
devasta la città, e ne prende possesso (Commento morale a Giobbe,
XXXI, 45, 90). «Ci sono delle cose necessarie – ricorda il
Crisostomo —, senza le quali non è possibile vivere, come i
prodotti della terra [...], il ricoprirsi con vestiti, un tetto,
delle pareti, delle scarpe, Queste sono le cose necessarie; tutto il
resto è superfluo» (La vanagloria e l'educazione dei figli, XIII),
Accumulare per il futuro è illudersi di non morire («Stolto! Questa
notte stessa ti sarà richiesta la tua vita; e quello che hai
accumulato di chi sarà?», Lc 12, 20); è segno di quel «continuo
terrore di ritrovarsi nella povertà, provocato dalla mancanza di
fede in Dio» (15).
Chi
ha soldi, infatti, ripone la propria speranza in essi (cf. Gb 31,
24): se ha bisogno di qualcosa, si rivolge ai suoi soldi e non a Dio.
«Per questo - diceva Lattanzio – i poveri e i diseredati hanno più
facilmente fede in Dio che i ricchi» (Istituzioni divine, VII, 1),
per i quali «l'oro e la prospettiva del guadagno tengono il posto di
Dio» (16).
Gesù
diceva: «Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che
mangerete; né per il vostro corpo, di quello che indosserete» (Lc
12, 22). Se manca una tale disposizione di fede in Dio, manca il
fondamento stesso di una vita cristiana. Inoltre i soldi, oltre che
far perdere fiducia in Dio, «ci vincolano alle preoccupazioni che
essi producono, e facilmente ci inducono a lamentarci di Dio; il
nostro continuo desiderare ci riempie di agitazione e ci fa muovere
nella cecità di una vita peccaminosa, impedendoci la conoscenza di
noi stessi» (17). Perciò «è meglio desiderare di meno che
avere di più» (18). Coltivata giorno per giorno nel cuore
del singolo, l’avidità cresce come albero rigoglioso che stende la
sua ombra sull’intera società: da essa derivano in gran parte la
disonestà e l’ingiustizia nel mondo politico, le drammatiche
disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri, le guerre, i disumani
sfruttamenti e gli inganni delle coscienze operati dalle grandi
compagnie commerciali. Quasi tutti i nostri bisogni, infatti, sono
indotti, plasmati dall’abitudine o dall’avidità, oppure creati
ad arte dal sistema capitalistico-consumista che, come possiamo
spiegare con le parole di Tertulliano, fa di tutto allo scopo di
«eccitare la bramosia di possedere», «bramosia che a sua volta
accarezza l'animo ispirandogli desideri vani»; «la concupiscenza
poi infiamma i prezzi dei prodotti per infuocare se stessa
ulteriormente; infatti, la brama tanto più aumenta quanto più dà
valore a ciò che desidera» (Gli ornamenti delle donne, I, 9, 1-3).
In
quanto fonte di tanti mali e peccati, uno stile di vita che alimenti
l’avidità di denaro, il consumismo, il culto del lavoro e del
benessere materiale, è dunque tanto immorale e contrario alla fede
cristiana quanto il libertinismo, l’adulterio e l'aborto. «Nessuno
può servire due padroni [...]; non potete servire sia Dio che
Mammona», cioè il denaro (Mt 6, 24; cf. anche Mt 19, 23).
Come
combattere il vizio della filargyría? La tradizione ascetica
cristiana consiglia anche in questo caso di cominciare con atti di
rinuncia concreta, per tagliare innanzi tutto le conseguenze negative
che l'avarizia provoca in noi e negli altri, nonché per liberarci
dalla morsa di dipendenza in cui ci tiene e dallo stordimento mentale
in cui il continuo nostro assecondarla ci immerge:
–
Imporsi
categoricamente di non lavorare di domenica, abituandosi così a
“perdere” volutamente soldi.
—
Attenersi
a una rigorosa e puntigliosa onestà in qualunque transazione di
denaro o commercio, scartando ogni bugia o imbroglio, per quanto
piccoli, che mirino a farci guadagnare di più. – Imporsi una cifra
fissa mensile da dare in elemosina (indipendentemente dalla simpatia
o gratitudine di chi la riceve). – Coltivare interessi e piaceri
(leggere la Bibbia, dedicare tempo alla famiglia o ai malati e ai
vecchi, ecc.) in modo che il lavoro che produce denaro cessi di
essere per noi un bisogno senza il quale ci sentiamo vuoti e
annoiati. – Sforzarsi di eliminare tutto ciò che, nella propria
casa e nel proprio stile di vita, è superfluo e contrario alla
vocazione cristiana alla povertà.
Questi
consigli sono indubbiamente utili, è però vero che è estremamente
difficile applicarli fino a quando il nostro animo è ancora
interiormente attaccato al denaro. E «non servirà a nulla privarsi
del denaro, se sussisterà in noi la brama di possederne» (19).
Pertanto bisogna lavorare alle radici, a “tappare i buchi”
attraverso i quali entra l’acqua dell’avarizia: sottrarsi al
martellamento dei mass media (è infatti illusorio e ingenuo credere
di essere abbastanza forti da non rischiare di essere influenzati da
questi sistemi sofisticatissimi); riscoprire l’importanza della
preghiera intima, del dialogo con Cristo, per ritrovare anche il
coraggio di fidarsi di Lui, che non ci abbandonerà, come non
abbandona i gigli del campo né gli uccelli del cielo.
In
ultima analisi, l’avarizia non si può vincere finché non si vince
la dipendenza dai costosi piaceri e dalle dispendiose abitudini e
comodità che caratterizzano la nostra vita: dall'alimentazione agli
svaghi, alle vacanze, ai vestiti superflui, alle automobili. Finché
non saremo capaci di rinunciare a tutti questi bisogni, il denaro che
– unico – li può soddisfare, ci terrà inevitabilmente in suo
potere.
Anche
chi crede di essere al sicuro da questo vizio, come ad esempio un
monaco, deve in realtà fare grande attenzione, poiché — lo
ripetiamo ancora — il vizio è un atteggiamento interiore. Il
monaco non possiede nulla di suo e non guadagna soldi propri, come
potrà dunque essere dominato dall’avidità di denaro? Lo sarà, se
della sua mancanza di soldi e beni propri si dispiace e si lamenta, o
se è attaccato a quei pochi oggetti di sua proprietà e ne è
geloso, o se è avido di leggere e di accumulare nozioni, o di
possedere libri, immaginette, rosari, o se – in qualità di abate –
accumula denaro attraverso vari commerci per dotare il monastero di
comodità e tecnologie superflue o per eseguire restauri tanto
costosi quanto spiritualmente inutili.
Ricordiamoci
che i piaceri che i vizi ci promettono non sono che miraggi e
trappole, mentre ciò che Dio ci propone, anche se in apparenza
sembra duro e molesto, è in realtà il piacere più grande e più
vero. «Non c’è nessuno — diceva Gesù – che abbia lasciato
casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che
non riceva molto di più già nel tempo presente, e la vita eterna in
futuro» (Lc 18, 29-30). Quando togliamo da dinanzi agli occhi la
barriera – che noi stessi ci siamo costruiti – dei beni
artificiali e falsi, improvvisamente la nostra vista si apre a vedere
l’immensità della creazione di Dio, con tutte le meraviglie che
Dio stesso ha plasmato, dall’erba ai fiori, al cielo stellato, agli
uccelli del bosco, e si capisce davvero che «la più bella ricchezza
è essere poveri di desideri» (20). Così Gregorio Magno: «È
povero chi ha bisogno di quello che non ha; ma chi, non avendo, non
desidera avere, è ricco» (Omelie su Ezechiele, II, 6). Mai ci si
stancherà di ammirare quanta gioia e quanta libertà regalò a san
Francesco e ai suoi compagni la povertà più radicale, quel gettarsi
ogni inutile orpello dietro le spalle per immergersi nelle bellezze
del creato e lanciarsi liberi verso l’Eterno...
9
Giovanni Crisostomo, Elogio di Massimo, IV, 2,
10
Evagrio, Gli otto spiriti della malvagità, VIII
11
Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VII, 7, 3.
12
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, XXXI, 45,88.
13
Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VII, 7, 1.
14
Giovanni Climaco, La scala del paradiso, XV||||2||
15
Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VII, 14, 1,
16
Ibid., VII, 7.
17
Antonio Abate (attribuito a), Ammonimenti, VI.
18
Agostino, Regola, V.
19
Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VII, 21.
20
Clemente di Alessandria, Il pedagogo, II, 39, 4.
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