Quelli
che pretendono di fare a meno dell'obbedienza in nome dell'amore non
capiscono l'amore: i consigli evangelici Sono volti della follia
dell'amore, insostituibili per esprimerne l’altezza, la larghezza e
la profondità. Se li si perde di vista, si è in grave pericolo di
cedere alle seduzioni del nemico. Diceva Angela da Foligno: "Quando
si parla dell'amore e soprattutto dell'amore di Dio, diffido."
Abbiamo bisogno del salvagente della castità, della povertà e
dell'obbedienza, unica garanzia - se non assoluta almeno molto seria
- che quell'amore quale lo desideriamo, lo vogliamo, lo viviamo, non
è pericoloso perché è vero.
Invece
sono obbligato a tremare, di quel tremore che provavo a proposito di
Jaurès, davanti a quelli che dicono: "Non siamo nella libertà
regale dei figli di Dio finché restiamo sottoposti al regime
dell'obbedienza." Temo che l'amore, nel loro cuore e sulle loro
labbra, sia quella cosa pericolosa di cui parla Angela da Foligno.
Cos'è il vero amore? Cosa esige? Per capirlo un po' bisogna
mettersi di fronte ai paralitici di cui parlavo prima, di tutti gli
uomini che soffrono... e ricordarsi la parabola di Nathan.
A
Davide, che aveva fatto uccidere Uria per approfittare
tranquillamente della moglie Betsabea, Nathan dice: "Un uomo
aveva duecento pecore e il suo vicino non ne aveva che una; si
riscaldava vicino a lei, era la sua. Il proprietario delle duecento
pecore, dovendo ricevere un amico, invece di far uccidere una delle
sue, prese quella del vicino, l'unica..." Davide si indigna, ha
un cuore generoso come quello di Pietro: non si indurisce che
accidentalmente, quando la passione lo svia.
Dunque
si indigna e quando Nathan gli chiede: "Quale trattamento pensi
che meriti quell'uomo?" risponde: "Lo si metta a morte! E'
una cosa abominevole!" Allora Nathan gli dice "Tu Sei
quell'uomo!" Quando pensiamo agli infelici, accettiamo o no che
davanti allo spettacolo di questa miseria, una voce in fondo al cuore
ci dica: "Tu sei quest'uomo. Ciò che vedi, è un'immagine
sensibile della tua condizione, della condizione umana…”
Se
il popolo russo, dice Dostoevskij, dà prova di compassione verso i
reclusi, non è perché li considera innocenti; sa bene che sono
colpevoli. Ma qui prende tutta la sua forza la parola di Nathan a
Davide: davanti alla colpevolezza evidente, stigmatizzata, marchiata
col fuoco, dei detenuti, il popolo russo sente che gli si può sempre
dire: "Tu sei quell'uomo." Dostoevskij lo fa parlare così:
"Avete preso su di voi, come un parafulmine e come Gesù Cristo,
tutta la colpa del mondo. Non che siate innocenti, come pretendono i
liberali utopisti per i quali non siete responsabili di niente. Io
dico al contrario, io popolo russo, che siete colpevoli, ma lo siamo
quanto voi. In fondo non meritiamo nulla di meglio, siamo ciò che voi siete, e voi vi siete assunti il compito, assegnatovi dalla
Provvidenza, di portare il peso dei nostri peccati assieme ai vostri.
E' per questo che vi amiamo."
Ecco
la verità. Agli occhi dell'amore ogni essere tormentato da una spina
è tormentato dalla nostra spina ... e non abbiamo diritto, neppure
minimamente, di dissociarci, e di pensare di cavarcela “facendogli
del bene”. Se accettiamo di capirlo ci metteremo forse ad aver
paura dell’Amore...
Le
attività cosiddette caritative possono essere (come la lingua!) la
migliore o la peggiore delle cose. Se ci si dice inconsciamente:
"Sono su un palco, un palco modesto, ma un palco; non sono nella
fossa dei leoni, delle vipere, nella sventura, nella grande
afflizione. Quello che vivo non è brillante ma è umano, vivibile: è
la condizione umana normale. Dall'altra parte ci sono gli infelici,
di cui non faccio parte, grazie a Dio. Spero di non conoscere mai
quella situazione: terribile Sventura, che certamente dovrei
accettare, ma insomma non c'è ragione... spero di non diventare mai
di questa pasta. Ma proprio perché non sono di questa pasta e poiché
degli infelici invece lo sono (notate il razzismo inconscio che si
introduce, che non è il razzismo del sangue, della razza o
quant'altro, ma il razzismo della disgrazia), questa povera gente, di
un altro pianeta, il pianeta del dolore e della sofferenza..., allora
bisogna "far qualcosa per loro!"
Ecco
un alibi fantastico per essere tranquilli e istallarsi nell'idea:
"Essi non sono come noi, io non sono come loro." Sfioriamo
le tremende parole della Prima Lettera ai Corinti: se dono i miei
beni ai poveri pensando di non essere della loro stessa pasta, di non
essere povero come loro, anzi sperando bene e volendo non essere
povero come loro, ebbene questo non mi serve a niente. Le mie
attività filantropiche, generose, sovrabbondanti, che mi fanno forse
ritenere un uomo perbene, non mi servono a niente.
Al
contrario, se mi curo del prossimo come se mi curassi di me stesso,
perché colui che soffre è ossa delle mie ossa e carne dalla mia
carne, perché sono io... e chiunque soffre sono io, egli mi offre
l'immagine di ciò che sono io in profondità, al di là delle
apparenze. Perché: "Tu dici che sei ricco e non vedi che sei
povero, spoglio, nudo; non vedi che sei ciascuno dei miserabili che
passano sotto ai tuoi occhi: tu sei quell'uomo... o meriti di
esserlo; il che è lo stesso perché vuol dire che lo sei già
virtualmente...". Se ci si dice questo, allora, è un'altra
cosa: è il mistero della carità.
Questa
identificazione deve spingersi fino ai peccatori e ai pubblicani. In
fondo a noi una voce ci dice nel segreto: "Tu sei quest'uomo."
Il nostro Padre Maestro ci diceva, quando siamo venuti a conoscenza
degli orrori dei campi di concentramento e della crudeltà diabolica
dei nazisti: "Se non capite che siete capaci di fare lo
stesso... non avete capito niente!"
Quei
prigionieri ridotti a scheletro siamo noi. Ma soprattutto, i
carnefici siamo noi.
E,
come ho detto sovente, troveremo la nostra liberazione quando sapremo
che siamo amati da Dio perché siamo così. Aldilà della nostra
apparenza, gradevole o meno ma sempre in ogni modo "interessante",
Dio vede il cadavere virtuale che siamo,l'essere che sta morendo. Noi
agonizziamo, moriamo di fame e di sete: Dio ci ama a questo
titolo. Quando si entra in questa luce si amano gli altri come se
stessi; e gli altri sentono bene che, ai nostri occhi, non siamo
diversi da loro: lo sentono subito, sapete...
E'
ancora più vero, misteriosamente e magnificamente nell'ordine del
peccato: la Madonna si riconosce in Maria Maddalena. Le Domenicane di
Betania vivono questo: quando si vede da che abissi provengono
certune, si vede anche che l'amore colma questi abissi e che non c'è
differenza fra le "pure" e le "impure". E' la
Madonna che dice a Maria Maddalena: "Sono te: sono peccatrice!"
Non solo la Madonna non fa differenza ma non prende "eroicamente"
su di sé il peccato di Maria Maddalena. E' molto più profondo: Lei
sa di essere della sua stessa pasta, sa che questa è la verità, che
Lei ha conservato la sua purezza accidentalmente e che è sempre
accidentalmente che Maria Maddalena l’ha persa – e che questo
accidente non fa differenza sostanziale fra queste due perdonate.
Vedete
le follie della carità fraterna. Confesso che questo programma mi
supera e condanna me quanto voi e più di Voi. Ma non è una ragione.
La grazia ci spingo,la follia della carità ci travaglia e geme, ci
contesta o ci strazia: "Non mi lasci fare ciò che voglio; non
mi lasci amare come voglio, secondo il mio genio e che ti darà,
davanti a questo o a quel dolore, una specie di rammarico di essere
preservato da esso. Perché al limite, c'è una menzogna in questo
essere preservato: una menzogna da cui è liberato colui che vive
questo dolore – anche se fosse nel peccato. Il peccatore che vedi,
(al limite l'aguzzino nazista) sei tu."
In
fondo, la sventura degli aguzzini è che non vogliono saperne di
essere così. Sono persone molto perbene: sono farisei. E questo non
perdona, non c’è modo: non si entra nella salvezza che nella
misura in cui, qualunque cosa si sia fatto, ci si riconosce
annientati come le vittime degli aguzzini e colpevoli come gli
aguzzini stessi. Se non percepite questa verità, non fate
contorsioni intellettuali o immaginative per convincervene. Siate
solo avvertiti che la luce della carità cerca di aprirvi gli occhi.
Se la lasciate fare, scoprirete senza sforzo che siete tanto
miserabili e peccatori quanto i peggiori peccatori del mondo: basta
solo non resistere. Ma non è facile! Qualcosa in noi dice: "No!
Non è vero, non è possibile!" e contristiamo lo Spirito
Santo...
Finché
non permetteremo allo Spirito Santo di introdurci un po' in questa
luce, in questa comunione con il male (il peccato e il dolore), non
ameremo gli altri, qualunque cosa facciamo. Diffidiamo allora delle
attività caritative! Non prendiamole come strumenti per darci
l'illusione di amaro. Dio ci risponderebbe: "No. Tu resisti alla
mia luce."
Ritorno
al tema. Siamo sottomessi alla forza di gravità e ne soffriamo
perché siamo fatti per prendere il volo: ma non prenderemo il volo
che legati, e legati dall'obbedienza. Così dobbiamo amare i
paralitici come l'immagine di cosa bisogna diventare per spiccare il
volo, come l'immagine anche di ciò che siamo a causa del peccato.
Sono vere entrambe le cose. Dobbiamo diventare come loro per amore...
ma già lo siamo a causa del peccato: in fondo dobbiamo diventare
liberamente per amore, ciò che segretamente già siamo a causa del
peccato.
Conclusione
stupefacente. Quando Dio si presenta a una creatura innocente le
domanda, per entrare nella gloria, di essere a terra, di varcare una
porta stretta, di subire un certo annientamento - preludio alla
metamorfosi: si impone l'immagine di una paralisi necessaria perché
il razzo decolli.
Ora,
questa paralisi è precisamente il frutto del peccato, manifesta il
nostro peccato: siamo paralizzati perché siamo rinchiusi nella
disobbedienza. Così è il peccato che ci prepara alla metamorfosi
della gloria! Questo è il mistero della Redenzione: Dio utilizza il
peccato e il male per ricavarne la nostra glorificazione, perché il
peccato finisce col metterci nell'immobilità che la gloria richiede.
Il
peso del peccato diventa il peso dell'amore: vorrei far esplodere
questa verità, che è il segreto della Redenzione. Vedendo che
l’uomo non ha accettato una certa immobilità, una certa povertà,
una certa miseria“ - che la gloria è obbligata a chiedergli di
accettare per un momento - Dio lo abbandona alle conseguenze di
questo rifiuto. E le conseguenze stesse di questo rifiuto finiscono
col riportarlo alla gloria per mezzo di Gesù Cristo e della Croce.
La Croce è il frutto del peccato... e questo frutto sfocia nella
gloria.
padre
Marie Dominique Moliniè o.p. - Tratto da “Prigionieri
dell’infinito”
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